I loghi e le Olimpiadi, una storia complicata
Rappresentare graficamente i Giochi olimpici è un compito tanto ambito quanto rischioso, come dimostrano i precedenti
La scelta del logo ufficiale delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026 si è svolta tramite una votazione online i cui risultati sono stati annunciati martedì 30 marzo dal comitato organizzatore. Nonostante gli oltre 800mila voti registrati, i due loghi erano stati accolti in modo piuttosto freddo, anche a giudicare dai commenti circolati nei giorni precedenti su giornali e social network.
Il primo logo proposto, chiamato “Futura”, si rifà alla sostenibilità dell’evento promessa dagli organizzatori con un monogramma che forma un 26 appena percettibile, come se fosse un’impronta lasciata sulla neve. La dicitura sottostante dovrebbe accentuare un carattere moderno e richiamare nella forma le vette delle montagne (a qualcuno ricorderà invece il logo dei Metallica). Il secondo, “Dado”, è un parallelepipedo le cui tre facce in evidenza sono riempite con un fiocco di neve stilizzato e il 26 colorato di verde e rosso, come la bandiera italiana.
Entrambi sono stati realizzati dalla multinazionale della comunicazione britannica WPP e come elemento centrale non hanno riferimenti geografici e culturali — anche per via della doppia sede — ma il numero 26 realizzato in maniera contenuta e facilmente adattabile a usi diversi.
Per quanto chiari e comprensibili possano essere i due loghi, le critiche più diffuse hanno riguardato soprattutto una presunta povertà di idee alla base e l’uso di elementi grafici scontati, se non pigri, come il fiocco di neve e i colori della bandiera italiana, che toglierebbero spazio a elementi più originali e idee meglio articolate. Per avere un paragone, un logo recente al quale furono riconosciute queste caratteristiche fu quello delle Olimpiadi estive di Rio de Janeiro, ideato dall’agenzia pubblicitaria brasiliana Tatil Design.
Fu ispirato dalle forme delle montagne che circondano Rio de Janeiro, riprodotte utilizzando le sagome di tre persone stilizzate che si tengono per mano, e che a loro volta trasmettono un senso di unione e movimento, oltre a ricordare il simbolo dell’infinito. Nel logo si possono inoltre distinguere abbastanza chiaramente le lettere R-I-O, ma questo non fu voluto: lo fece notare durante la presentazione l’allora sindaco della città brasiliana.
Un altro esempio di un logo olimpico che rinunciò alla simbologia classica per un approccio più originale e innovativo fu quello di Monaco 1972, che però non ebbe fortuna. Il progetto seguì lo stile modernista con il quale la Germania stava cercando di rinnovare la propria immagine dopo la Seconda guerra mondiale. Non a caso fu realizzato dal designer tedesco Otl Aicher, che era stato un noto oppositore del regime nazista, ricercato per diserzione durante la guerra e successivamente ideatore del logo tuttora in uso della compagnia aerea Lufthansa.
Il logo, un sole riprodotto sotto forma di spirale, fu il centro di un’ampia produzione legata all’immagine coordinata che introdusse il concetto di identità visiva nelle Olimpiadi, cosa che da lì in poi venne applicata a ogni edizione. Ad Aicher si deve anche l’affermazione dei pittogrammi per rappresentare le discipline olimpiche, tuttora in uso. Per esperti e collezionisti, l’identità visuale creata per Monaco 1972 rimane ancora oggi un punto fondamentale nella storia della grafica europea. La percezione comune, invece, fu irrimediabilmente segnata da quello che accadde durante quelle Olimpiadi, presentate inizialmente come “i Giochi felici” ma segnate dal massacro in cui i terroristi palestinesi di Settembre nero sequestrarono e uccisero undici atleti della delegazione israeliana.
L’innovativa identità visuale di Monaco 1972 era stata anticipata, seppur in scala ridotta, dai loghi progettati per le Olimpiadi estive di Tokyo 1964 e Città del Messico 1968. L’edizione giapponese fu quella che aprì la strada verso un’immagine olimpica più moderna e curata. Per il famoso grafico newyorkese Milton Glaser, il logo di Tokyo 1964 fu il migliore mai realizzato. Lo descrisse come appropriato, senza confusione e con tutti gli elementi in sintonia fra di loro.
Quattro anni dopo, l’edizione di Messico 1968 alzò l’asticella realizzando il logo probabilmente più riconoscibile e diffuso nella storia delle Olimpiadi. L’idea alla base del progetto realizzato dall’architetto Pedro Ramirez Vazquez in collaborazione con altri grafici messicani fu quella di presentare il Messico in chiave moderna, mantenendo però i riferimenti alle tradizioni culturali del paese. Nel descrivere il lavoro, Ramirez Vazquez una volta disse: «Di certo non volevamo fare nulla che assomigliasse a un messicano appisolato sotto un cactus con il sombrero abbassato». Prese ispirazione dagli intricati medaglioni delle antiche popolazioni indigene e realizzò il famoso carattere tipografico a tre linee che comprendeva i cerchi olimpici. Ramirez Vazquez introdusse anche i pittogrammi delle varie specialità, poi perfezionati e resi definitivi da Aicher.
Nel decennio precedente l’Italia aveva ospitato due edizioni dei Giochi. Per entrambe vennero realizzati dei loghi più aderenti alla simbologia classica. Roma 1960 fu l’edizione dei Giochi estivi che sancì simbolicamente la fine del dopoguerra italiano e l’inizio del cosiddetto “miracolo economico”. Rappresentò inoltre l’inizio di una nuova epoca anche sotto l’aspetto sportivo e organizzativo: da lì iniziò per esempio la copertura televisiva degli eventi internazionali. Il logo fu però realizzato con un stile classico facendo uso esclusivo di elementi propri della tradizione culturale romana: di certo niente a che vedere con gli sforzi che la Germania aveva fatto dodici anni per “rompere” con il suo recente passato.
Quattro anni prima, le Olimpiadi invernali di Cortina d’Ampezzo erano state rappresentate da un logo che, seppur più contemporaneo di quello di Roma 1960, evocava sempre un immaginario comune: l’illustrazione di una cresta del gruppo del Monte Cristallo racchiusa nel cerchio di una medaglia che nei contorni richiamava un fiocco di neve.
Quasi cinquant’anni dopo, il logo realizzato per le Olimpiadi invernali di Torino 2006 riprese lo stile delle edizioni precedenti, confermando in un certo senso la scelta dei comitati italiani di mantenere sempre un chiaro riferimento all’identità storico-geografica del paese, senza particolari innovazioni. Nel logo di Torino 2006 fu infatti riprodotta la sagoma della Mole Antonelliana composta da fiocchi di neve stilizzati che davano un certo senso di dinamicità. Nella sua revisione dei loghi olimpici, Glaser scrisse: «È ambiguo e difficile da capire, la relazione con la tecnologia a cui allude è insufficiente. Tenta di apparire contemporaneo, ma non convince».
Ma si trovano anche esempi di loghi ritenuti generalmente troppo distanti dalla tradizione olimpica, e altri che hanno saputo usare in modo innovativo elementi comuni come fiaccole, cerchi olimpici e fiocchi di neve. Il logo di Londra 2012, per esempio, fu a lungo dibattuto per la sua trasgressione, che era anche esattamente l’intenzione dei suoi creatori. La loro idea fu quella di creare un brand unico nel suo genere che colpisse soprattutto il pubblico più giovane. Ne venne fuori un 2012 con numeri convergenti, dai profili sporgenti per dare l’idea di movimento, in cui si potevano leggere anche le iniziali di Londra. Fu un logo che divise nettamente le opinioni.
Un altro logo che segnerà una novità stilistica è quello di Parigi 2024. L’edizione francese sarà all’insegna della parità di genere, a partire dal numero di atleti partecipanti, per la prima volta in oltre un secolo equamente divisi: 5.000 uomini e 5.000 donne. Il logo è una fiamma che sovrapposta a una medaglia olimpica forma un volto femminile, reso inequivocabile dal dettaglio delle labbra. Nonostante il significato, la resa finale del logo non ha convinto pienamente: le critiche più diffuse lo paragonano all’insegna di un salone di bellezza o al marchio di un’azienda di cosmetici.
Nel 1996, invece, le Olimpiadi estive di Atlanta segnarono il centenario della prima edizione dei Giochi moderni e furono quindi pensate come punto di incontro tra tradizione e modernità. In questo senso, il logo risultò piuttosto riuscito: venne realizzata una fiaccola con il manico in stile classico composto dai cerchi olimpici e dal numero 100, mentre nella parte più moderna e dinamica, da una fiamma nascevano quattro stelle, quelle della bandiera americana (con un riferimento al successo che gli atleti trovano nella manifestazione).
Uno dei migliori esempi di un utilizzo originale del fiocco di neve — visto e rivisto nella storia dei loghi delle Olimpiadi invernali — è quello contenuto nel logo di Calgary 1988, dove prende la forma della foglia d’acero, simbolo nazionale del Canada ed elemento centrale della sua bandiera.
Le Olimpiadi sono il più grande evento al mondo, non solo sportivo, e rappresentarle è sia l’obiettivo più ambito dai professionisti che un compito spesso discusso e frainteso, sicuramente non facile. È per questo motivo che i loghi di minor impatto — come sembrano essere i due candidati a rappresentare le prossime Olimpiadi italiane — vengono accolti da così tante critiche. Ma c’è comunque chi ha fatto peggio.
Nel 2015 il comitato organizzatore delle Olimpiadi di Tokyo si rassegnò all’idea di dover ritirare il logo presentato neanche un mese prima (a sinistra nell’immagine). La decisione fu inevitabile dopo le accuse di plagio nei confronti del designer giapponese Kenjiro Sano, che aveva vinto il concorso indetto dagli organizzatori con un logo troppo simile a quello del Teatro di Liegi. L’ideatore del logo del teatro belga aveva inoltre fatto causa al Comitato Olimpico Internazionale per violazione delle leggi sul copyright. Fu quindi necessario un nuovo logo (a destra), presentato l’anno seguente, con cui il comitato organizzatore cercò di andare sul sicuro ispirandosi allo stile del “periodo Edo”, la fase storica giapponese compresa tra il 1603 e il 1868.