Come funziona il vaccino di Johnson & Johnson
In che modo insegna al nostro sistema immunitario a riconoscere il coronavirus e ad affrontarlo, senza il rischio di ammalarsi
Con l’autorizzazione di emergenza per il vaccino contro il coronavirus di Johnson & Johnson (J&J) da parte dell’Unione Europea e poi da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), si è aggiunta una quarta soluzione per contrastare la pandemia oltre a quelle già disponibili di Pfizer-BioNTech, Moderna e AstraZeneca. Il vaccino è stato autorizzato in seguito alla raccomandazione dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA) e dovrebbe consentire di accelerare la campagna vaccinale in Europa perché richiede la somministrazione di una sola dose, a differenza degli altri vaccini finora autorizzati che ne richiedono due a distanza di qualche settimana.
Il vaccino di J&J è già impiegato da qualche settimana negli Stati Uniti, dove era stato autorizzato il 27 febbraio scorso, in seguito alla diffusione da parte dell’azienda farmaceutica dei primi risultati dei suoi test clinici, condotti in diversi paesi. Il vaccino ha fatto rilevare un’efficacia del 72 per cento negli Stati Uniti, mentre in Sudafrica si è fermato al 64 per cento, probabilmente a causa della circolazione nel paese di una variante ritenuta più contagiosa. Il vaccino ha comunque una forte efficacia, quasi totale, nel prevenire i casi gravi di COVID-19 tali da rendere necessario un ricovero in ospedale.
Nei mesi scorsi l’Unione Europea aveva contrattato la fornitura di almeno 200 milioni di dosi, a partire dal secondo trimestre di quest’anno. Le prime consegne dovrebbero quindi avvenire tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, ma è probabile che non si entrerà a pieno regime da subito, come emerso negli ultimi giorni.
Adenovirus
Il vaccino è stato sviluppato da Janssen Pharmaceutica (di proprietà di J&J) in collaborazione con il Centro Medico Beth Israel Deaconess (Stati Uniti). A differenza di quelli di Pfizer-BioNTech e di Moderna, basati su RNA messaggero, il vaccino di J&J utilizza un virus (Adenovirus 26, o Ad26) sostanzialmente innocuo per il nostro organismo: in generale, gli adenovirus causano sintomi lievi, simili a quelli del raffreddore.
I ricercatori lo hanno modificato, facendo in modo che possa entrare nelle nostre cellule, ma senza replicarsi o causare una malattia. All’interno di Ad26 hanno inoltre inserito il materiale genetico con le istruzioni per produrre la proteina spike che il coronavirus utilizza per legarsi alle cellule e replicarsi, portando avanti l’infezione. Queste proteine sono ciò che costituisce la “corona” dei coronavirus, per come ci appaiono al microscopio.
Nelle cellule
Quando il vaccino viene iniettato, gli Ad26 modificati si legano ad alcuni tipi di cellule sfruttando le proteine che si trovano sulla loro superficie. Una volta all’interno raggiungono il nucleo delle cellule e vi iniettano il loro DNA, contenente le istruzioni per produrre la proteina spike del coronavirus. L’informazione viene letta dalla cellula e copiata in una molecola: l’RNA messaggero (mRNA).
L’mRNA si allontana dal nucleo e viene intercettato da altre strutture cellulari (ribosomi) che utilizzano le sue istruzioni per costruire le proteine spike. In pratica il vaccino fa sì che le cellule coinvolte agiscano come mini fabbriche per produrre solo questo particolare pezzetto del coronavirus. Le proteine da poco prodotte raggiungono la superficie della cellula e non passano inosservate al sistema immunitario, che nota la loro presenza imprevista.
Reazione immunitaria
La presenza stessa dell’adenovirus fa sì che le difese del nostro organismo siano attivate. Questo processo, insieme a diversi altri, contribuisce a fare aumentare la reazione del sistema immunitario quando incontra le proteine spike.
Al termine del proprio ciclo vitale, la cellula che era stata indotta a produrre queste proteine muore, e i suoi frammenti vengono smaltiti da altre cellule specializzate nel fare pulizia. È in questa fase che le proteine spike possono entrare in contatto con una “cellula presentante l’antigene” (APC), un tipo di cellula del sistema immunitario che mostra sulla propria superficie gli antigeni (i corpi estranei) per metterne in evidenza la presenza.
Questa esposizione viene notata dai linfociti T helper, cellule che tengono sotto controllo le sostanze nel nostro organismo e che quando notano qualcosa di strano mettono in allerta altre cellule immunitarie per farle intervenire.
Anticorpi
Altre cellule del sistema immunitario, i linfociti B, che si trovano in circolazione nell’organismo, finiscono casualmente in contatto con le cellule che hanno ricevuto l’adenovirus e hanno poi prodotto le proteine spike. I linfociti B si legano a queste ultime, ma non hanno molto idea di che cosa fare. Si attivano quando incontrano sulla loro strada i linfociti T helper, che stanno dando l’allarme, spingendoli a moltiplicarsi e a produrre anticorpi per contrastare la proteina.
Viene prodotta una enorme quantità di anticorpi che rimangono in circolazione nel nostro organismo. Nel caso in cui entri in contatto con il coronavirus vero e proprio, il sistema immunitario dispone in questo modo degli strumenti per riconoscere la proteina sulle sue pericolose punte. Gli anticorpi si legano proprio a queste per impedire che entrino in contatto con le membrane delle cellule, eludendone le difese.
Distruzione
I linfociti T helper sono spie piuttosto sveglie e danno l’allarme anche a un altro tipo di cellula immunitaria, i linfociti T citotossici, che si attivano per distruggere qualsiasi cellula che mostri di avere la proteina del coronavirus sulla propria superficie, indice dell’essere stata infettata.
Immunità
La combinazione di linfociti T helper, linfociti B, linfociti T citotossici e di molti altri meccanismi di difesa può funzionare solamente se il sistema immunitario ha imparato a riconoscere la proteina del coronavirus. Il vaccino serve proprio a questo: istruisce il nostro sistema immunitario, senza che debba imparare queste cose nel modo più difficile e pericoloso con il coronavirus vero e proprio.
A oggi non sappiamo per quanto tempo il sistema immunitario mantenga una memoria di ciò che impara tramite la vaccinazione, semplicemente perché i vaccini contro l’attuale coronavirus sono impiegati da troppo poco tempo. I primi dati sono comunque incoraggianti e tra qualche mese ne avremo di più dettagliati, derivanti sia dall’andamento dei test clinici sia dall’impiego dei vaccini sulla popolazione.
Meno delicato
Il vaccino di J&J viene somministrato con un’unica dose e richiede meno precauzioni nella sua conservazione rispetto a quelli a mRNA che devono essere mantenuti a temperature intorno ai -70 °C. Questo deriva in parte dalla necessità di mantenere stabili le molecole di mRNA, che tendono a degradarsi facilmente. Le istruzioni genetiche del vaccino di J&J sono invece custodite all’interno dell’adenovirus modificato, dove possono rimanere più a lungo rendendo sufficiente la conservazione delle dosi a temperature di frigorifero.