Cosa possiamo capire sulla terza ondata guardando l’Umbria

È stata la prima regione a individuare le varianti e a imporre le zone rosse locali, e ora i dati stanno iniziando a migliorare

L'allestimento dell'ospedale da campo a Perugia (Foto azienda ospedaliera di Perugia)
L'allestimento dell'ospedale da campo a Perugia (Foto azienda ospedaliera di Perugia)

L’Umbria è stata la prima regione italiana a subire gli effetti delle varianti del coronavirus e oggi può dire molto ad altre aree del paese da poco entrate nella cosiddetta terza ondata dell’epidemia.

In Umbria l’emergenza non è finita, anzi, ci sono ancora molti indicatori che mostrano una situazione oltre i livelli di allerta, eppure già da un paio di settimane il numero dei nuovi positivi giornalieri ha smesso di crescere, la curva che mostra il numero di ricoveri giornalieri sembra essersi abbassata e l’andamento generale fa ben sperare per il prossimo futuro. In questi giorni, mentre in tutte le altre regioni italiane si parla di nuove possibili chiusure, in Umbria si sta discutendo di eventuali riaperture di negozi e scuole.

Non è stato semplice riportare la situazione epidemiologica sotto controllo. L’Umbria è stata la prima regione a individuare la presenza delle varianti e a esaminarle inviando campioni all’Istituto superiore di sanità. È stata anche la prima a capire che sarebbe stato importante limitare la diffusione del contagio con misure restrittive molto rigide. Fin dall’inizio di febbraio, infatti, la Regione ha sfruttato la possibilità di creare zone rosse locali, in particolare in tutti i comuni della provincia di Perugia.

Il monitoraggio locale, nelle province e nei comuni, ha aiutato a capire che la situazione stava peggiorando rapidamente in alcune aree circoscritte: è una delle caratteristiche principali di questa terza ondata, in tutta Italia. Ricostruire cosa è successo in Umbria può aiutare a capire come andrà nelle altre regioni.

L’inizio della terza ondata
A metà gennaio, quando tutta l’Italia era in area gialla, in Umbria ci si accorse di alcune anomalie nei dati registrati a livello locale.

In alcuni paesi della provincia di Perugia l’incidenza dei contagiati era iniziata a crescere velocemente ed erano stati individuati focolai nelle RSA. Per alcuni giorni l’emergenza era rimasta quasi nascosta perché i dati del monitoraggio regionale non davano segnali di allerta: le province dove il numero dei contagi era in calo, come a Terni, compensavano la crescita in altre zone, nella provincia di Perugia e in alcuni paesi nella zona del lago Trasimeno.

Uno dei primi esperti a notare queste anomalie fu Fabrizio Stracci, direttore del dipartimento di Igiene all’Università di Perugia e membro del comitato tecnico scientifico regionale. A metà gennaio, Stracci ipotizzò che in Umbria fossero presenti delle varianti del coronavirus, più contagiose rispetto ai ceppi che avevano causato la prima e la seconda ondata. «C’era un’incidenza alta a Magione (comune in provincia di Perugia, ndr), iniziavano i cluster in RSA e in ospedale ed era schizzata l’incidenza tra i giovani nonostante le scuole fossero chiuse o semichiuse», ha detto Stracci.

La presenza delle varianti emerse con evidenza quando fu scoperto un focolaio nell’ospedale di Perugia, dove tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio furono trovati 70 positivi tra medici, infermieri e personale amministrativo. Molti degli operatori sanitari erano stati vaccinati con la prima dose del vaccino e furono contagiati prima che fosse assicurata la protezione totale.

L’ingresso del pronto soccorso dell’ospedale di Perugia (Foto azienda ospedaliera di Perugia)

L’Umbria è stata la prima regione a inviare all’Istituto superiore di sanità alcuni campioni di tamponi per studiare le varianti. Sui primi 33 campioni inviati, in 18 era stata evidenziata la positività alla variante inglese e in 12 a quella brasiliana. Questi ultimi 12 tamponi erano stati eseguiti su pazienti e operatori sanitari dell’ospedale di Perugia.

Non è ancora chiaro come il virus sia entrato nei reparti, anche perché due dei pazienti risultati positivi alle varianti non avevano avuto nessun contatto stretto con altre persone contagiate, né erano reduci da viaggi all’estero. «L’indagine è nata dall’analisi epidemiologica sul territorio. La differenza dei contagi rispetto al livello nazionale e la diversa pressione tra la provincia di Perugia e Terni ci avevano già indotto a disporre accertamenti sulla possibile presenza di una variante», spiegò lo scorso gennaio il commissario regionale all’emergenza Covid, Massimo D’Angelo.

La zona rossa
L’8 febbraio la Regione istituì la zona rossa in 65 comuni. In tutta la provincia di Perugia e in sei comuni in provincia di Terni – Amelia, Attigliano, Calvi dell’Umbria, San Venanzo, Lugnano in Teverina e Montegabbione – gli spostamenti furono limitati ai soli motivi di lavoro e salute, chiusero tutti i negozi e soprattutto tutte le scuole, compresi gli asili nido. Inizialmente si parlò di attivare la didattica a distanza solo a partire dalle scuole elementari, ma poi prevalsero le misure più rigorose.

Con i dati in forte crescita e gli ospedali in difficoltà, il 9 febbraio la presidente dell’Umbria Donatella Tesei mise in guardia i colleghi delle altre regioni dal notevole impatto delle varianti. «La variante brasiliana rischia di diventare il nuovo mostro di questa crisi in tutta Italia. Lo dico con la preoccupazione per l’Umbria e per il paese», disse Tesei durante il consiglio regionale.

In quell’occasione Tesei spiegò anche una serie di azioni immediate per uscire dall’emergenza: ripensare e ristrutturare il contact tracing con più tracciatori, isolare tutti i cluster di variante inglese e brasiliana, inviare all’ISS una massiccia richiesta di campionamento dei casi sospetti, incrementare i tamponi nelle scuole, aumentare il livello di sicurezza in ospedale e RSA, riallestire il massimo numero di posti nelle terapie intensive umbre a quota 160, attivare immediatamente l’ospedale da campo regionale, iniziare ad assumere fin da subito una parte dei 1.550 nuovi operatori sanitari previsti per il 2021.

I dati attuali
La sanità umbra non è riuscita a raggiungere tutti questi obiettivi in così poco tempo. Uno dei problemi più rilevanti è stato l’afflusso dei pazienti nei reparti di terapia intensiva. Secondo i dati di AGENAS, al momento i ricoverati in gravi condizioni sono 80 sui 139 posti disponibili, quindi con un tasso di occupazione al 57 per cento, ben oltre la soglia di allerta del 30 per cento fissata dall’ISS.

Negli ultimi dieci giorni il tasso di occupazione è stato sempre costante, al primo posto in Italia, chiaro segnale della saturazione nei reparti. Solo nell’ultima settimana sembra che la crescita si sia fermata e si intravede una discesa, probabilmente per effetto delle misure restrittive introdotte in largo anticipo rispetto al resto d’Italia. Nonostante gli interventi tempestivi, a Perugia nel mese di febbraio sono morte 95 persone per COVID-19. Lo scorso anno, nello stesso mese i morti per tutte le cause erano stati 138: anche questa terza ondata ha avuto un impatto notevole sulla mortalità.

In questo grafico realizzato dal giornale Umbria24 si può notare l’andamento delle curve di alcuni indicatori nella progressione dei giorni delle tre ondate. I dati dei ricoverati nei reparti e in terapia intensiva mostrano che la pressione sugli ospedali è stata maggiore durante la terza ondata piuttosto che durante le prime due.

Mercoledì è stato aperto l’ospedale da campo accanto all’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia. Non sarà utilizzato per i casi più gravi, come era stato ipotizzato qualche giorno fa, nella fase più acuta dell’emergenza, ma come “osservazione breve intensiva” del pronto soccorso, vale a dire uno spazio dove il paziente viene controllato ed eventualmente stabilizzato per far sì che nelle 24 ore successive sia ricoverato o dimesso.

Nel primo giorno sono stati accolti tre pazienti. «Due erano prossimi alla dimissione, uno invece ricoverato con crisi respiratoria. Sono tutte persone intorno ai 50 anni», ha detto Paolo Groff, il direttore del pronto soccorso che coordina anche l’ospedale da campo.


L’attenzione si sposta su Terni
A confermare l’impatto molto locale di questa terza ondata ci sono i dati degli ultimi giorni, che in Umbria mostrano una crescita dei contagi in provincia di Terni mentre i nuovi positivi sono in calo nelle zone di Perugia e del lago Trasimeno.

Venerdì, nella prossima riunione del comitato tecnico scientifico regionale, verrà valutata la possibilità di allentare le misure restrittive almeno sulle scuole, chiuse da oltre un mese. L’assessore regionale alla Salute, Luca Coletto, ha spiegato che se ci sarà la possibilità verranno riaperte le scuole materne e le elementari. «Non è che ci divertiamo a tenere chiuso, ci sono evidenze scientifiche che non ci lasciano scampo. Siamo stati i primi a gestire le varianti, Speranza ha certificato che il sistema Umbria è stato adottato a livello nazionale».