Che cos’è “Spoon River”
Che storia ha l'antologia di poesie che compare ciclicamente nei titoli dei giornali, resa popolare in Italia da Fernanda Pivano e Fabrizio De Andrè
“La spoon river delle donne” è uno dei titoli più usati dai giornali in questi giorni per descrivere i 13 femminicidi avvenuti in Italia dall’inizio dell’anno. Anche se negli ultimi tempi l’espressione è spesso associata agli omicidi di donne, viene usata da anni in gergo giornalistico per descrivere una grande quantità di morti. Tra i primi esempi c’è un articolo di Repubblica del 1992 che definiva l’inchiesta di Mani Pulite una “Spoon River giudiziaria” mentre è da poco uscito un libro intitolato Lo Spoon River ai tempi del Covid, che raccoglie ricordi e memorie dei tanti abitanti delle valli bergamasche morti per il coronavirus.
Il riferimento è alla Antologia di Spoon River (Spoon River Anthology), una raccolta di poesie in forma di epitaffio scritta dall’avvocato e scrittore americano Edgar Lee Masters (1868-1950) e pubblicata dal maggio del 1914 al gennaio del 1915 sul Reedy’s Mirror, un giornale di Saint Louis, in Missouri. Ogni poesia, in verso libero, era la narrazione in prima persona di un abitante del paesino immaginario di Spoon River (il nome è quello di un fiume reale di Lewistown, in Illinois, dove viveva Masters) che era morto ed era stato sepolto nel cimitero sulla collina. Non avendo nulla da perdere, i protagonisti raccontavano la propria storia e le proprie debolezze senza veli, lasciando emergere la corruzione, la propria miseria, avidità, lussuria e i molti rimpianti.
Masters aveva avuto l’idea leggendo l’Antologia Palatina, una raccolta di oltre 4.500 epigrammi ed epitaffi di autori greci scritti tra il 500 a.C. e il 1000 d.C., e l’allora famosa Elegia scritta in un cimitero campestre del poeta inglese Thomas Gray, del 1751. La sua raccolta però non aveva nulla di commemorativo e scardinava l’idea idillica della vita rurale americana, fatta di sani principi, etica del lavoro e castità; era anche lontana dal mito del sogno americano che celebrava il successo e la vita nelle grandi frenetiche città.
Le poesie, uscite sotto lo pseudonimo di Webster Ford, ebbero subito un grande successo, un po’ perché permisero a tutta una certa comunità di lettori di riconoscersi, un po’ per lo scandalo che diedero scavando nelle debolezze umane (inoltre alcuni abitanti delle cittadine di Lewistown e Petersburg si risentirono, dopo essersi riconosciuti nei personaggi). Nel 1916 la casa editrice MacMillan fece uscire la prima edizione, stavolta con il nome reale dell’autore e con un totale di 245 poesie.
In Italia la raccolta arrivò grazie a Cesare Pavese, che la lesse nel 1930 e che si convinse che Masters avesse «cominciato, al suo paese, la descrizione realistica, spietata, della cittadina di provincia, del villaggio, puritani» tanto da definirlo «il padre dell’odierna letteratura». Pavese fece conoscere il libro a una giovane Fernanda Pivano, che non era ancora la nota traduttrice di letteratura americana che sarebbe diventata. Pivano si mise a tradurlo e Pavese riuscì a far pubblicare il libro a Einaudi nel 1943, aggirando la censura fascista: cambiò il titolo in Antologia di S. River per suggerire che fosse stato scritto da un certo San River.
La censura però non tardò a scoprire il contenuto del libro, decisamente antifascista, e Pivano fu anche arrestata per averlo tradotto: «parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare, e mi hanno messo in prigione e sono molto contenta di esserci andata», raccontò anni dopo.
A rendere l’Antologia popolare in Italia fu però soprattutto il cantautore Fabrizio De Andrè, che l’aveva letta a 18 anni e che la usò come ispirazione per il disco Non al denaro non all’amore né al cielo del 1971. Scelse 9 poesie della raccolta, le riscrisse in versi e le musicò. A differenza dell’originale, tutti i personaggi sono anonimi per rappresentare un comportamento e un peccato universali: il chimico incapace di amare, il giudice vendicativo, il malato di cuore che vince sull’egoismo, l’ottico in cerca di una realtà più vera.
Soltanto un personaggio ha un nome: è il suonatore Jones, che trascorse la vita come più gli piaceva e morì, unico tra tutti gli ospiti della collina, senza rimpianti.