Cosa ci dice la storia della pallavolista Lara Lugli
E dello scontro che ha avuto con la sua società dopo averle comunicato di essere incinta
Lo scorso 7 marzo la pallavolista Lara Lugli ha pubblicato un post su Facebook per parlare dei problemi legali nati con la dirigenza della sua squadra in seguito a una sua gravidanza. La storia si riferisce alla stagione 2018-2019, quando Lugli giocava per il Volley Pordenone in B-1 (oggi chiamato Maniago Pordenone), di cui era anche capitana. La vicenda è stata molto raccontata e ha riportato al centro della discussione il mancato riconoscimento del professionismo femminile e del lavoro sportivo e l’assenza di garanzie e tutele, compresa quella per la maternità.
La vicenda di Lara Lugli
Nel 2018-19, quando aveva 38 anni, Lara Lugli giocava con il Volley Pordenone. All’inizio di marzo comunicò alla società di essere incinta, e il suo “contratto” fu interrotto. Un mese dopo ebbe un aborto spontaneo.
I problemi legali iniziarono quando Lugli chiese alla società il saldo dello stipendio di febbraio, mese in cui aveva continuato a giocare e ad allenarsi regolarmente. Dopo una serie di richieste inevase, il suo avvocato inviò un’ingiunzione di pagamento alla quale la società rispose con un atto di citazione che Lugli ha poi pubblicato su Facebook.
L’accordo sottoscritto da Lugli – impropriamente definito “contratto” – prevedeva la risoluzione dello stesso per giusta causa in caso di gravidanza. L’atleta era tenuta «ad astenersi da comportamenti che in qualsiasi modo» potessero «essere in contrasto con gli impegni assunti» e il mancato rispetto delle obbligazioni avrebbe portato a dei provvedimenti «proporzionali alla gravità delle singole inadempienze», cioè sanzioni pari al 10 per cento del compenso mensile. Nell’atto di citazione della società si dice che a seguito del ritiro di Lugli «la squadra aveva avuto un calo di risultati» e che gli sponsor si erano ritirati: il «comportamento» di Lugli, si legge, aveva dunque causato «un danno» alla società che nell’atto era stato anche quantificato.
Nell’atto di citazione si dice anche: «La signora Lugli che all’epoca dell’ingaggio aveva 38 anni compiuti, ha taciuto al momento della trattativa contrattuale la sua intenzione di avere dei figli». E dunque, in conclusione, si dice: considerando «la violazione della buona fede contrattuale», la risoluzione del contratto e «il danno causato» l’importo della sanzione andrà calcolato almeno nella misura di quello stipendio di febbraio non corrisposto.
Nel suo post su Facebook, Lugli dice che il suo contratto, «come succede a tutte le atlete in questo paese», si era interrotto quando lei aveva comunicato la gravidanza: «Anche se non sono una giocatrice di fama mondiale, questo non può essere un precedente per le atlete future che si troveranno in questa situazione, perché una donna se rimane incinta non può conferire un DANNO a nessuno e non deve risarcire nessuno per questo».
Franco Rossato, presidente del Pordenone, ha risposto che «solo quando è arrivata l’ingiunzione di pagamento» loro si sono opposti e hanno «attivato le clausole del contratto. Citare le parole del freddo atto serve a farci sembrare dei mostri, quando invece ci siamo solo difesi di fronte alla richiesta di un rimborso non dovuto».
Tutte dilettanti
In Italia tutte le atlete sono inquadrate come dilettanti. Il professionismo sportivo italiano è regolato dalla legge 91/1981, che nel suo secondo articolo definisce i professionisti come «gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse».
Il riconoscimento del professionismo, ovvero la scelta di aderire o meno al settore professionistico, viene quindi rimandato alle singole federazioni. I professionisti hanno un rapporto di lavoro riconosciuto dalla legge, con conseguenti tutele assicurative e contributive, mentre i dilettanti ne sono privi.
Ad oggi le federazioni sportive nazionali hanno deciso che ci possano essere dei professionisti solo in quattro discipline: il calcio fino alla Lega Pro, il golf, il basket (solo in Serie A) e il ciclismo su strada, e tutte nella loro versione maschile. Secondo Luisa Rizzitelli, presidente e fondatrice dell’associazione Assist, che lotta per i diritti delle donne nello sport, nello sport «si consuma una delle più grandi discriminazioni di genere: impediamo alle donne di accedere al professionismo».
Antonella Bellutti, due medaglie d’oro olimpiche per ciclismo su pista, nel 1996 ad Atlanta e nel 2000 a Sidney, e prima donna in 107 anni a candidarsi alla presidenza del CONI, aggiunge: «Sul tavolo c’è la definizione di “lavoro sportivo”, fermo a quarant’anni fa, quando con la legge 91 si demandò alle federazioni la facoltà di decidere in quali categorie e discipline aprire il professionismo contribuendo a creare un solco enorme tra pochi privilegiati e falsi dilettanti: tutte le atlete e gli atleti esclusi dalle quattro federazioni (quattro su quarantaquattro, ndr) in cui il professionismo viene riconosciuto: persone che hanno un impegno da professionisti, ma che non hanno alcuna tutela».
«Nello sport» dice Bellutti «essere donna è un’aggravante, e alle donne viene implicitamente o esplicitamente impedito il diritto a essere madri».
Clausole anti-maternità
Quando le atlete sono definite dilettanti, ma nei fatti non lo sono, la prima e più evidente situazione di discriminazione si concretizza nel momento della gravidanza. «Quello che accade» spiega Rizzitelli «è che quando sei incinta ti strappano il contratto: anche se non è nemmeno corretto parlare di “contratti” di lavoro: si tratta semplicemente di scritture private. Questa è la regola, la normalità».
Rizzitelli, che ha giocato a pallavolo come professionista, spiega che nella carriera ha dovuto firmare lei stessa delle clausole “anti-maternità”: «L’esplicita clausola anti-maternità, prima delle denunce di Assist, era la norma nelle scritture private tra atlete e club. Ma anche quando non è prevista nero su bianco le atlete vanno comunque a casa se sono incinte: è una di quelle cose ignobili che devono accettare, perché in Italia la situazione delle atlete è quella di essere delle dilettanti: non hanno un contratto di lavoro, non sono inquadrate come lavoratrici, e non hanno tutele».
La riforma dello sport non ha risolto la situazione
A fine febbraio, il Consiglio dei ministri ha approvato cinque decreti legislativi per l’attuazione della riforma dello sport, presentata dal ministro Vincenzo Spadafora quando era in carica durante il secondo governo Conte. I decreti prevedono, tra le altre cose, il riconoscimento del lavoro sportivo e l’abolizione del vincolo sportivo, inteso come limitazione alla libertà contrattuale dell’atleta.
Per Rizzitelli la riforma ha «molti elementi rivoluzionari: comincia a parlare seriamente di lavoro sportivo e invita le federazioni ad adeguarsi mettendo a disposizione un fondo per il professionismo negli sport femminili». Ma per le donne, l’adesione delle federazioni sportive al professionismo rimarrà sostanzialmente volontaria: i decreti lasciano cioè alle federazioni l’arbitrarietà di decidere se una disciplina sportiva è professionistica oppure no.
Finora solo una federazione ha chiesto il passaggio di campionati femminili al professionismo sportivo: la FederCalcio. Secondo Rizzitelli, «fino a quando a decidere se essere professionista o meno non sarà la natura della prestazione lavorativa, ma la volontà del tuo datore di lavoro, non ci sarà mai parità».
Alla fine di febbraio i presidenti di Figc, Federbasket e Federvolley avevano scritto una lettera aperta al presidente del Consiglio Draghi pregandolo di rinviare l’approvazione della riforma: due tematiche, l’abolizione del “vincolo sportivo” e la nuova disciplina relativa al “lavoro sportivo”, avrebbero comportato per loro «gravi ripercussioni ai danni delle società sportive».
Secondo Bellutti, il messaggio è che «alle associazioni dilettantistiche si chiede di scegliere tra la sopravvivenza e il rispetto dei lavoratori e delle lavoratrici dello sport che operano per loro. Io parto dal presupposto che le società sono sane nel momento in cui hanno collaboratori felici, sereni e tutelati. Sicuramente le società vanno aiutate, ma a regolarizzare questa posizione, non a tenerla nascosta. Tutto ciò che ora si può mettere in campo deve essere fatto per arrivare a una soluzione del problema, per scardinare meccanismi usati per coprire o negare il sommerso, per ignorare o perpetrare le discriminazioni di genere e per sfruttare il finto dilettantismo».
Il prossimo 18 maggio ci sarà l’udienza davanti al giudice di pace per Lara Lugli che, nel frattempo, ha ricevuto il sostegno del sindacato giocatori di pallavolo Aip, di molte atlete e di qualche politica. Alla Camera e al Senato sono state presentate due interrogazioni parlamentari (prime firmatarie Laura Boldrini e Valeria Fedeli), e Assist ha chiesto un incontro con il presidente del Consiglio Mario Draghi e con il presidente del CONI Giovanni Malagò.