I primi sbarchi di massa degli albanesi, trent’anni fa
Iniziarono nei porti pugliesi con numeri mai visti prima, e cambiarono per sempre la storia dell'immigrazione in Italia
Trent’anni fa oggi, il 7 marzo 1991, all’orizzonte di Brindisi, in Puglia, apparve una cosa che non si era mai vista prima. Due grosse navi mercantili provenienti dall’Albania, la Tirana e la Lirija, si dirigevano verso le coste italiane con a bordo 6.500 persone. Le autorità italiane le avevano fermate il giorno prima, spaventate dal loro arrivo, ma dopo poche ore le avevano lasciate passare: non sarebbe stato possibile lasciare in mare a lungo un numero tale di persone.
In breve tempo, oltre alla Tirana e alla Lirija, arrivano altre navi e barche di varie dimensioni, che il 7 marzo attraccarono al porto di Brindisi. Dalle navi scese una quantità di persone che ancora oggi non conosciamo con precisione: alcune stime parlano di 18mila, altre di 27mila. Era appena iniziato il periodo degli sbarchi di migranti provenienti dall’Albania, che durò parecchi anni e per certi versi cambiò per sempre l’Italia.
Dopo la fine del regime comunista, all’inizio degli anni Novanta, l’Albania si ritrovò in una situazione molto complicata e difficile. Il paese era politicamente isolato, con un livello di criminalità molto elevato, povero e arretrato da un punto di vista economico. Il nuovo governo guidato da Ramiz Alia (che nel 1985 aveva preso il posto del dittatore Enver Hoxha), aveva introdotto delle deboli riforme che non migliorarono la situazione dei circa tre milioni di abitanti, in grandissima parte pastori e contadini poverissimi cresciuti guardando la tv italiana, che grazie alla ridotta distanza in linea d’aria si riceveva anche in Albania.
Già a febbraio del 1991 migliaia di albanesi arrivarono nella città portuale di Durazzo sperando di trovare un passaggio su una nave che li portasse in Italia. Fra la fine di febbraio e l’inizio di marzo le forze di sicurezza non vollero o non riuscirono più a trattenerli, e partirono le prime navi.
Per l’Italia fu una sorpresa. Nei giorni precedenti al 7 marzo erano arrivate alcune imbarcazioni con decine di persone, ma i giornali italiani non si occupavano praticamente mai di quello che succedeva in Albania, e a pochi erano note le condizioni di estrema indigenza in cui si trovava il paese. «Per la prima volta, in tempo di pace, l’Italia aprì una finestra sul mondo povero, e la potenza dei media portò nelle case degli italiani le immagini di una migrazione di massa», ha scritto sulla rivista del Mulino Massimo Livi Bacci, esperto di demografia.
Il Quotidiano di Brindisi stima che in poche ore arrivarono più di 30mila persone, più di un terzo dell’intera popolazione della città: «gente esausta, affamata, ferita, senza un soldo in tasca, disidratata, semi-assiderata, con addosso indumenti che non potevano proteggerla da un marzo ancora troppo freddo. Eppure tutti quei disperati gridavano, ancor prima di scendere dalle navi, “Italia, Italia” e alzavano le braccia per salutare, con le due dita del segno di vittoria, sorridevano felici».
I lettori dei giornali e gli spettatori dei telegiornali furono presi alla sprovvista, ma le autorità di Brindisi si preparavano da giorni per uno scenario simile.
Il principale corso della città, che dalla stazione ferroviaria arriva fino al porto, fu chiuso per facilitare il passaggio dei mezzi che portavano in ospedale le persone appena arrivate. Furono distribuiti acqua, cibo e latte per i bambini, oltre che vestiti puliti. Il Quotidiano di Brindisi ricorda che anche fra i brindisini iniziò «una tale corsa alla solidarietà, all’aiuto spontaneo da sembrare quasi concorrenziale».
Molti di quei 30mila profughi ormai avevano invaso il centro e persino la periferia della città, smarriti, in cerca di non si sa cosa. E allora vedevi anziane signore che inseguivano mamme con bambini per coprirli con giacche in genere oversize che fungevano per i piccoli da cappotto nelle cui maniche sparivano anche le mani. Gente che svuotava i frigoriferi e portava in strada pane, salumi, formaggi, frutta e ancora acqua e latte. Altri che invitavano i profughi a salire in casa per offrire loro un piatto caldo. Coperte e persino giocattoli che uscivano dalle case. E questo accadeva sia di giorno che di notte in quei primissimi giorni dell’invasione. Nessuna paura, nessun fastidio, diffidenza zero.
Poi il comitato di emergenza svuotò scuole ed alberghi per dare un tetto a tutti. Era un marzo freddo, appunto, e già dopo un paio di giorni dal grande esodo incominciò a piovere. Trentamila ombrelli non ne avevamo. L’Enichem [azienda petrolchimica del gruppo ENI, ndr] fornì grandi teloni di plastica per chi ancora era rimasto nel porto in attesa di una sistemazione. Ma i brindisini erano sempre mobilitati. Si convocarono riunioni di condominio straordinarie per decidere che cosa fare, un compito per ogni inquilino.
Gli sbarchi proseguirono nei mesi e negli anni successivi: il più famoso fu quello della nave Vlora a Bari, avvenuto l’8 agosto 1991.
La nave, che trasportava canna da zucchero da Cuba, venne assalita nel porto di Durazzo da circa 20mila persone, che obbligarono il comandante a dirigersi a Brindisi. Le autorità italiane dirottarono la nave verso Bari e mentre si avvicinava alla banchina alcune persone si gettarono in mare per raggiungerla prima. I migranti vennero temporaneamente ammassati nello Stadio della Vittoria: nei giorni seguenti però furono rimpatriati su aerei e traghetti con l’inganno (venne detto loro che sarebbero stati portati in altre città italiane). Il 16 agosto quasi tutti erano stati riportati in Albania, tranne circa duemila persone che erano riuscite a scappare.
Gli sbarchi diminuirono progressivamente alla fine degli anni Novanta. Molti albanesi, a differenza di quelli della Vlora, riuscirono a rimanere in Italia grazie a permessi temporanei poi convertiti in permessi di soggiorno: possibilità poi cancellata a causa della legge Bossi-Fini approvata nel 2002 dal governo di Silvio Berlusconi.
Nel 1990 gli stranieri registrati all’anagrafe erano circa mezzo milione: oggi sono dieci volte tanto. Fra di loro ci sono anche moltissimi albanesi: 441mila, secondo gli ultimi dati relativi al 2019.