Le “emissioni zero”, spiegate bene
Cioè cos'è la "neutralità carbonica": breve ripasso ora che la Cina ha detto come intende arrivarci entro il 2060
Tra il 2008 e il 2018 le emissioni di anidride carbonica (CO2), il principale dei gas a cui si deve il riscaldamento climatico, sono aumentate del 12 per cento: è stato un aumento dovuto quasi per il 70 per cento a un unico paese, la Cina. In occasione dell’annuale Assemblea nazionale del popolo, iniziato il 5 marzo, il governo cinese ha annunciato come cercherà di ridurre l’impatto della sua economia sull’ambiente, raggiungendo la cosiddetta “neutralità carbonica” entro il 2060, obiettivo anticipato a settembre dal presidente Xi Jinping.
La neutralità carbonica è un obiettivo che sempre più paesi e aziende stanno promettendo di raggiungere per contrastare il cambiamento climatico. Per rispettare gli obiettivi dell’accordo sul clima di Parigi del 2015, il mondo dovrebbe arrivarci entro il 2050. Per questo “neutralità carbonica” è un’espressione che, insieme al sinonimo “emissioni zero”, continueremo a sentire sempre di più. Per certi versi è un concetto vago, perché la sua applicazione può variare molto a seconda di come ci si vuole arrivare, ma capire cosa significa è comunque un buon modo per farsi un’idea delle politiche sul clima dei vari paesi.
Cosa intendiamo per “emissioni zero”
Partiamo da “emissioni zero”. È un’espressione potenzialmente fuorviante: si potrebbe pensare che significhi “smettere di produrre emissioni di gas serra”, ma non è così. Quando si dice “emissioni zero” si intende in realtà “emissioni nette zero”, una condizione in cui per ogni tonnellata di CO2 o di un altro gas serra che si diffonde nell’atmosfera se ne rimuove altrettanta. In altre parole, si arriverà alla neutralità carbonica quando smetteremo di aggiungere gas serra nell’atmosfera oltre la quantità che riusciamo a toglierne.
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50 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente
Negli ultimi anni le attività umane hanno diffuso nell’atmosfera circa 50 miliardi di tonnellate di gas serra ogni anno. Questo dato non si riferisce alla sola anidride carbonica, ma anche agli altri gas serra, come il metano e il protossido d’azoto disperso nell’atmosfera dai fertilizzanti.
Per la precisione, si parla di 50 miliardi di tonnellate di “CO2 equivalente”, un’unità di misura che si usa per tenere conto del fatto che non tutti i gas serra contribuiscono allo stesso modo al riscaldamento globale: il contributo del metano all’effetto serra è 25 volte quello dell’anidride carbonica a parità di massa, anche se resta nell’atmosfera per molto meno tempo.
Per tenere conto di queste differenze di impatto, quando si parla di tonnellate di gas serra non si sommano semplicemente le tonnellate di singoli gas serra emessi: lo si fa associando a ciascun gas un diverso “peso” che tiene conto del suo contributo al riscaldamento globale. Più nel dettaglio: si moltiplica ogni quantità di gas per il suo potenziale di riscaldamento globale (in inglese Global Warming Potential, GWP) riferito a un arco temporale di 100 anni, cioè per un fattore che tenga conto di quanto riscaldamento una tonnellata di quel gas causa, in un secolo, rispetto a una tonnellata di anidride carbonica.
Tornando ai 50 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente: per rispettare l’accordo di Parigi, dovremmo arrivare a emetterne zero ogni anno entro il 2050. In teoria potrebbe significare smettere di emetterne del tutto, nella pratica non è così.
Come spiega Bill Gates nel suo nuovo libro Clima, come evitare un disastro, «non esistono vie realistiche per azzerare le emissioni che prevedano il completo abbandono dei combustibili fossili o l’interruzione di tutte le altre attività responsabili dei gas serra». Queste attività sono infatti moltissime (più di quelle a cui si pensa), e la vita quotidiana di tutte le persone ne è dipendente. Il modo in cui cercheremo di arrivare a zero emissioni annuali è pareggiare quelle che faremo con delle “emissioni negative”.
La “carbon law” di Johan Rockström e le emissioni negative
Con “emissioni negative” si indicano quei sistemi per togliere dall’atmosfera un po’ di anidride carbonica. Ne esistono almeno tre, ma c’è una cosa da tenere a mente: anche se nei prossimi anni ci saranno grandi avanzamenti tecnologici in questo ambito, tra oggi e il 2050 non potranno mai compensare le emissioni che vengono prodotte attualmente.
Per questo, anche se è importante usarli e fare ricerca sulle tecnologie su cui funzionano, il grosso contribuito alla neutralità carbonica arriverà dalla riduzione delle emissioni da ottenere passando a fonti di energia rinnovabile.
La via che il mondo dovrebbe seguire per arrivare a produrre emissioni nette pari a zero entro il 2050 è sintetizzata in una specie di formula ideata dall’esperto di sostenibilità Johan Rockström, direttore dell’Istituto di ricerca sull’impatto climatico di Potsdam (PIK). La formula, che Rockström chiama “carbon law“, dice che ogni decennio dovremmo dimezzare le emissioni totali di gas serra: dunque arrivare a emettere solo 25 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente nel 2030, 12,5 nel 2040 e infine 6 e qualcosa nel 2050.
Jonathan Foley, direttore del Project Drawdown, un gruppo di ricerca specializzato nella decarbonizzazione, ha spiegato di recente che la formula di Rockström prevede che verso il 2040 le tecnologie per fare “emissioni negative” saranno progredite a tal punto da permetterci di compensare le emissioni di gas serra che ancora produrremo a metà del secolo. Si tratta di una prospettiva ottimista, ma realistica secondo Rockström, Foley e molti altri scienziati che si occupano di cambiamento climatico e ricerca energetica.
I sistemi tecnologici per rimuovere l’anidride carbonica attualmente disponibili sono due: entrambi sono costosi e ancora poco utilizzati. Il primo consiste nella cattura della CO2 al momento della sua produzione all’interno degli stabilimenti industriali dove, che sia per produrre energia o materiali, se ne emette tantissima. Gli apparecchi che permettono di farlo sono detti di “cattura sul posto” ed esistono da decenni, ma sia comprarli che farli funzionare è costoso. Ovviamente dopo la sua cattura la CO2 deve essere stoccata da qualche parte.
Lo stesso vale per il secondo metodo tecnologico per fare emissioni negative, la “cattura diretta dall’aria”, o DAC, che funziona così: si aspira aria dall’atmosfera, in qualunque posto del mondo, e si filtra l’anidride carbonica.
Anche questo metodo è costoso e per ora viene praticato in un unico posto nel mondo: la cittadina di Hinwil, in Svizzera, dove ha sede Climeworks, un’azienda che appunto pratica la DAC, e lo fa per conto di altre società interessate a ridurre il proprio impatto sull’ambiente e quindi disposte a comprare quote di CO2 rimossa dall’atmosfera. Il problema della DAC è che l’anidride carbonica non è molto concentrata nell’aria, e con le tecnologie attuali questo metodo di rimozione è poco efficiente. Un altro suo limite è che per il momento funziona solo per l’anidride carbonica, non per gli altri gas serra.
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In aggiunta a questi metodi tecnologici per fare “emissioni negative” ce n’è un terzo, più “naturale”: gli alberi.
Le piante usano l’anidride carbonica per fare la fotosintesi, cioè per produrre sostanze nutritive dalla luce del Sole, e il carbonio che ricavano è poi una delle sostanze principali di cui sono fatte (i combustibili fossili infatti non sono altro che i resti di antichissime foreste).
Per questa ragione molte aziende dicono di star riducendo le proprie emissioni nette finanziando progetti per piantare alberi, ma le cose non sono così semplici: è sicuramente vero che impedire la deforestazione è un modo per contrastare il cambiamento climatico (è anche quella una fonte di emissioni), ma non è detto che un singolo nuovo albero dia un contributo significativo. In parte perché ha bisogno di anni per crescere; in parte perché se piantato in alcune parti del mondo è meno efficace (la cosa migliore è piantare alberi ai Tropici); in parte perché sono soprattutto gli ecosistemi ricchi di biodiversità come la Foresta amazzonica ad assorbire quantità considerevoli di CO2, e non i boschetti ben curati dei parchi cittadini.
Chi si è già impegnato ad arrivare alle emissioni zero
Finora solo due paesi possono dire di aver raggiunto la neutralità carbonica. Sono molto piccoli e hanno alcune caratteristiche naturali particolari: sono il Suriname, in Sud America, e il Bhutan, un paese himalayano. Altri paesi si sono già impegnati formalmente ad arrivare alle emissioni zero, come la Danimarca, la Francia, la Nuova Zelanda, il Regno Unito, la Svezia e l’Ungheria, che hanno fatto leggi apposite in materia. Fatta eccezione per la Svezia, che si è posta come limite di tempo il 2045, tutti gli altri stati hanno fissato come anno entro cui raggiungere la neutralità carbonica il 2050.
Il presidente americano Joe Biden ha detto che anche gli Stati Uniti cercheranno di arrivare alle emissioni nette pari a zero entro il 2050; lo stesso obiettivo è previsto dal Green Deal, il piano non ancora approvato dell’Unione Europea per combattere il cambiamento climatico.
Gli esperti di clima ritengono comunque che, oltre ai generici impegni formali, i paesi dovrebbero spiegare in che modo intendano arrivare all’obiettivo per il 2050: ad esempio se pensano di rispettare la carbon law di Rockström e in che modo vogliono investire sui sistemi per ottenere emissioni negative. A settembre Xi Jinping aveva detto che la Cina arriverà al suo picco di emissioni entro il 2030, e a partire da quell’anno comincerà a diminuirle, per arrivare a zero nette entro il 2060. Servono però più dettagli per capire se queste promesse potranno davvero essere mantenute, e lo stesso vale anche per gli altri paesi del mondo.