Perché l’Italia gioca ancora nel Sei Nazioni di rugby?
Non vince una partita da sei anni e c'è sempre meno interesse, ma la partecipazione al torneo non è davvero in discussione
Nella terza giornata del Sei Nazioni in corso in queste settimane, l’Italia maschile di rugby ha subito la trentesima sconfitta consecutiva nel torneo. La sua ultima vittoria rimane quella ottenuta contro la Scozia a Edimburgo il 28 febbraio 2015. Da allora sono passate cinque edizioni. Per trovare invece l’ultimo successo ottenuto allo Stadio Olimpico di Roma bisogna addirittura tornare indietro fino al 16 marzo 2013 — otto anni fa — in un’altra epoca del rugby italiano.
I numeri di questa edizione sono ancora più impietosi delle precedenti: in tre partite, tutte perse, l’Italia ha subito 101 punti in più di quelli che è riuscita a segnare (38). La Scozia, che ci precede in classifica con una partita in meno, ne ha segnati 35 e subiti 31, per avere un paragone. L’ormai nota inferiorità rispetto alle avversarie riguarda tutti gli aspetti del gioco e sembra ancora insormontabile.
L’Italia ha sempre ricoperto il ruolo di sfavorita da quando gioca nel Sei Nazioni, e per come viene vissuto il rugby una sconfitta non è mai la fine del mondo, a patto però che ci sia qualche soddisfazione, anche sporadica. Ma dopo cinque edizioni passate non solo senza una vittoria, ma anche senza la previsione realistica di poterne ottenere una, è diventato difficile descrivere questa serie di sconfitte come qualcosa di diverso da un brutto spettacolo, per il rugby e per lo sport in generale.
Gli effetti di così tante sconfitte — che sembrano seguire sempre lo stesso copione, soprattutto nei secondi tempi, quando gli avversari iniziano a dilagare — si stanno notando ormai da tempo. Le dirette televisive delle partite del Sei Nazioni sono sempre più nascoste: in vent’anni sono passate dalla Rai a La7, Sky e infine DMAX, canale 52 del digitale terrestre, che quest’anno ha peraltro spostato la maggior parte della programmazione — già ridotta all’osso — su Motor Trend, canale dedicato agli sport motoristici in cui il rugby sembra un intruso. Lo share televisivo delle dirette non supera il 3 per cento, nel migliore dei casi: dieci anni fa i picchi arrivavano all’11 per cento.
Anche il pubblico dell’Olimpico (quando ancora c’era) cala ed è sostenuto principalmente dalle migliaia di stranieri che approfittano del Sei Nazioni per trascorrere un fine settimana a Roma (nel 2018, per le partite contro Inghilterra e Scozia, si calcolarono circa 30.000 visitatori). Due anni fa, per l’ultima edizione disputata interamente con la presenza del pubblico, la federazione si aspettava 150.000 spettatori, ma nelle tre partite giocate a Roma non si andò oltre le 130.000 presenze.
Paradossalmente, però, il posto dell’Italia nel Sei Nazioni non è in discussione — se non sui giornali stranieri — per vari motivi. Innanzitutto c’è un contratto che lega l’Italia al torneo fino all’edizione del 2023. Fino ad allora non ci sarà nessun cambiamento alla struttura della competizione. Il Sei Nazioni è inoltre gestito da privati, che non hanno né il dovere né l’interesse di coinvolgere le altre nazionali europee che vorrebbero alternarsi all’Italia, su tutte Georgia e Romania, le quali però non garantiscono la competitività (minima) e l’appeal commerciale che offrono l’Italia e Roma.
Le difficoltà economiche della federazione italiana, aggravate dall’assenza del pubblico, rendono inoltre sempre più indispensabili gli introiti generati dal torneo, e quindi una presenza stabile e garantita negli anni. Senza contare i proventi dei diritti televisivi, soltanto il montepremi di quest’anno è di circa 20 milioni di euro (l’ultima classificata ne riceverà due, la prima al massimo sette). Per l’edizione di due anni fa gli organizzatori distribuirono premi complessivi per oltre 130 milioni di euro: il 90 per cento diviso in sei parti uguali mentre il restante dieci ripartito tenendo conto del “peso” delle federazioni. Per il rugby italiano, il Sei Nazioni costituisce quasi la metà del bilancio annuale (19,6 milioni su 46,5 di fatturato nel 2019).
La partecipazione rimane quindi assicurata, così come le difficoltà del movimento, ormai note. Non si riescono a formare giocatori di livello e i progetti introdotti dall’attuale presidente federale, Alfredo Gavazzi, non stanno dando nessuno risultato concreto e anzi, le prestazioni stanno costantemente peggiorando. Il mancato ricambio generazionale dei vari Andrea Masi, Martin Castrogiovanni, Leonardo Ghiraldini e Sergio Parisse pesa sempre di più ed è aggravato dal costante miglioramento delle avversarie, in special modo della Scozia, l’avversaria più battuta in vent’anni di partecipazioni.
L’Italia è rimasta così isolata all’ultimo posto, senza che ci sia nulla da poter fare nel breve termine, se non aspettare le nuove generazioni e magari l’esito delle elezioni federali del 13 marzo, che potrebbero dare uno scossone al movimento a seconda del risultato. I cinque candidati sono l’attuale presidente Alfredo Gavazzi, in carica da nove anni, l’ex giocatore Paolo Vaccari, il presidente del Comitato regionale del rugby emiliano Giovanni Poggiali, il presidente del comitato veneto Marzio Innocenti e Antonino Saccà, vice presidente federale dal 2011.