Cosa sta succedendo nel PD
Le dimissioni di Zingaretti sono arrivate dopo settimane di critiche e tensioni: il problema più grosso è l'alleanza con il M5S, ma non è il solo
Aggiornamento delle 16: Nicola Zingaretti ha annunciato che si dimetterà da segretario del Partito Democratico, dopo le tensioni e critiche interne emerse nelle ultime settimane, e spiegate in questo articolo. Nonostante la sua leadership stesse attraversando una grossa crisi, il suo annuncio è arrivato piuttosto a sorpresa: ci si aspettava un’evoluzione più graduale della situazione. Su Facebook, Zingaretti ha detto di vergognarsi del PD, sostenendo che «da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid».
«Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità. Nelle prossime ore scriverò alla Presidente del partito per dimettermi formalmente. L’Assemblea Nazionale farà le scelte più opportune e utili» ha detto Zingaretti.
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La caduta del governo Conte e la nascita del governo Draghi hanno aperto vari fronti e conflitti interni dentro al Partito Democratico, tra cui quello della gestione stessa del partito e della leadership di Nicola Zingaretti, segretario dal marzo 2019 e presidente della regione Lazio dal marzo 2013. Alcune correnti stanno infatti mettendolo in discussione, chiedendo che venga organizzato entro la fine dell’anno un Congresso, sulle cui eventuali modalità c’è comunque ancora incertezza. Si parla di una consultazione insolita che decida soltanto l’indirizzo politico del partito, ma anche della possibilità che includa le tradizionali primarie per rinnovare o cambiare il segretario.
A causare proteste e borbottii c’è anche l’alleanza con il M5S, strategica per Zingaretti e problematica per altre componenti che vorrebbero un ritorno alla vocazione maggioritaria del PD, e quindi all’ambizione di vincere le elezioni da soli. C’è infine la questione della parità di genere nella dirigenza del partito: in molte stanno chiedendo le dimissioni del vicesegretario Andrea Orlando, nuovo ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, per fare spazio a una vicesegretaria.
Queste discussioni e tensioni interne sono tuttora in corso. Per ora è stato deciso che il 13 e il 14 marzo ci sarà l’Assemblea nazionale, cioè una specie di parlamento interno al PD che conta circa mille componenti e che è eletta direttamente attraverso il voto alle primarie, con le liste collegate ai diversi candidati alla segreteria. La sua composizione, quindi, risale al 2019, quando Zingaretti diventò segretario con il 66 per cento dei voti.
La vice-segreteria e la questione femminile
La delegazione interamente maschile scelta dal Partito Democratico per il governo Draghi – tre ministri uomini su tre – ha causato molte lamentele all’interno del partito, che giovedì 25 febbraio aveva convocato, sul tema, la Direzione nazionale (il luogo di discussione e approvazione di più ampie o controverse scelte di programma e politica). La Direzione era stata poi aggiornata a lunedì primo marzo. In realtà, in entrambe le occasioni, al centro della discussione sono finite altre questioni politiche interne e lo stesso punto che sarebbe dovuto essere all’ordine del giorno (la parità di genere nella dirigenza) sembra esserne stato assorbito.
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Alcune esponenti del PD e un pezzo di partito, che i giornali definiscono “degli ex renziani” (cioè la corrente Base Riformista, guidata da Lorenzo Guerini e Luca Lotti), hanno sollevato la questione del doppio incarico di Andrea Orlando, che è vicesegretario del partito e che è appena stato nominato ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nel governo Draghi. Nel 2019, quando Nicola Zingaretti venne eletto segretario, nominò due vicesegretari nel rispetto della parità di genere, come dice lo Statuto del partito: Orlando con funzioni di vicario, Paola De Micheli “semplice” vicesegretaria.
Dopodiché, quando si formò il governo Conte sostenuto da Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, De Micheli divenne ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti e si dimise dall’incarico di partito: le sue dimissioni, ha spiegato lei stessa in questi giorni, erano state concordate con Zingaretti prima dell’ingresso nell’esecutivo. In molte hanno però chiesto perché ora Orlando non faccia la stessa cosa: alcune pretendono le sue dimissioni, altre che venga affiancato da una donna e che si torni dunque alla doppia vicesegreteria, altre ancora chiedono qualcosa di più.
La deputata Giuditta Pini ad esempio ha spiegato che, da statuto, solo uno dei vicesegretari ha funzioni vicarie e ha chiesto che in caso di un affiancamento a Orlando anche la vicesegretaria donna sia vicaria: «Per dare più forza a questa nomina, che altrimenti avrebbe il sapore del pink washing, di un fiocchetto rosa», ha detto. In Direzione nazionale, Pini ha di conseguenza presentato un emendamento, ma non è andata bene: «La presidenza ha detto che non era ammissibile. Ho chiesto di parlare per chiarire. Mi è stata tolta la parola», ha scritto su Twitter.
Zingaretti ha fatto capire di voler lasciare al suo posto Orlando, un esponente della maggioranza zingarettiana che, tra le altre cose, è tra i principali sostenitori dell’alleanza con il M5S (ci torniamo), ed è esplicitamente critico verso Base Riformista, la principale corrente di opposizione all’attuale segretario. Zingaretti si è comunque detto favorevole a ripristinare la dualità nella vicesegreteria, e la nomina della vice donna avverrà all’Assemblea nazionale del 13 e 14 marzo.
I nomi che circolano, e le motivazioni della scelta, hanno apparentemente molto a che fare con la gestione interna delle varie correnti. Si parla di Cecilia D’Elia, portavoce della Conferenza delle donne democratiche e vicina a Zingaretti, oppure di Debora Serracchiani, espressione della minoranza. «Toccherà a Zingaretti» scriveva qualche giorno fa il Corriere della Sera «decidere se avere accanto una vicesegretaria vicina alle sue posizioni o pacificare il partito e scegliere una numero due che rappresenti le minoranze».
L’alleanza con il M5S
Una delle questioni di maggior dissenso verso Zingaretti è il suo rapporto con il M5S e con l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che il segretario del PD già nel 2019 aveva definito «un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste». Zingaretti ha difeso Conte fino all’ultimo momento, dopo la crisi politica e di governo innescata da Matteo Renzi, indicandolo come possibile “federatore del centrosinistra”. E ha più volte fatto riferimento alla necessità di portare avanti lo «spirito unitario» che si era creato nella maggioranza che sosteneva quello stesso governo.
Zingaretti potrebbe rafforzare la sua linea e l’alleanza se gli eurodeputati del M5S entreranno nel gruppo dei socialisti al Parlamento europeo, di cui fa parte anche il PD (le trattative sono in corso). Non solo: Zingaretti sta cercando di concretizzare nel Lazio la linea politica che sta portando avanti a livello nazionale, anche e soprattutto in vista delle prossime elezioni amministrative (si voterà probabilmente tra settembre e ottobre, anche in cinque grandi città: Roma, Napoli, Torino, Bologna, Milano).
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Il segretario del PD sta infatti allargando la giunta regionale ai 5 Stelle, a cui dovrebbe assegnare due assessorati, e ha affidato la trattativa al suo vicepresidente Daniele Leodori, esponente di Areadem, corrente di maggioranza del PD guidata da Dario Franceschini, sempre tra i più influenti dirigenti del partito. «Tutt’altro che un dettaglio» scriveva qualche giorno fa Repubblica suggerendo l’importanza del coinvolgimento nell’operazione delle più importanti correnti del partito. «Dalla regione costruiamo un modello possibile di nuovo centrosinistra allargato nel quale il PD è il principale protagonista per costruire l’argine alle destre e per vincere alle elezioni amministrative e riaprire la grande partita dei collegi quando si voterà alle politiche», ha commentato Zingaretti.
Ma la prospettiva di un patto strutturale con i 5 Stelle è proprio quella a cui gli ex renziani di Base Riformista (ma non solo) si oppongono.
Cosa chiede Base Riformista e la questione del Congresso
Martedì Base Riformista si è riunita per parlare dei problemi del partito e per decidere che posizione tenere alla prossima Assemblea nazionale. I suoi esponenti sono molto critici sull’alleanza e la vicinanza di Zingaretti al M5S, e accusano il segretario di aver indebolito il suo stesso partito a vantaggio di un altro. Non a caso, Base Riformista (ma anche altre correnti di minoranza) ha molto commentato un sondaggio SWG trasmesso negli ultimi giorni dal TgLa7. Da giorni i retroscena dicono che Conte sia in trattativa con Beppe Grillo per diventare il leader del M5S: in questo scenario, secondo il sondaggio, il M5S salirebbe al 22 per cento, guadagnando più di 6 punti, mentre il PD calerebbe di oltre 4 punti al 14,2 per cento.
L’anno e mezzo di governo con il M5S e Conte, dicono i critici di Zingaretti, ha reso il PD subalterno, e lo ha affossato nei sondaggi, il tutto a vantaggio di un partito in grossa crisi e apparentemente senza una chiara strategia per il futuro. A logica, l’esperienza della dirigenza del PD avrebbe dovuto far succedere il contrario, dice chi contesta l’attuale segreteria. «Non mi stupisce perché nell’immaginario collettivo c’è stata una sovrapposizione tra la figura di Conte e quella del PD. Occorre ripristinare un profilo riformista che prescinda dalle alleanze», ha detto ad esempio Carmelo Miceli. Lia Quartapelle ha sostenuto che «il PD deve ripartire dalla sua identità, da un progetto di Italia, non certo da un’idea di coalizione». E Matteo Orfini invece dice che «è il capolavoro di un gruppo dirigente che ha lavorato per Conte».
Queste componenti del partito insistono sul tema dell’identità politica più che sul problema delle alleanze, e sul ritorno a una sua vocazione maggioritaria. Qualche giorno fa Guerini ha proposto una gestione unitaria del partito, e in questa prospettiva potrebbe rientrare la nomina di una vicesegretaria donna a lui vicina. Dopo la riunione di corrente ha poi posto la questione in termini più netti: ha chiesto cioè un Congresso straordinario dopo le amministrative e quando le condizioni della pandemia lo consentiranno, minacciando che altrimenti gli esponenti di Base Riformista usciranno dalla segreteria.
Mercoledì, in un’intervista al Quotidiano Nazionale, Matteo Orfini (a capo della corrente di minoranza dei cosiddetti «Giovani turchi», da sempre in opposizione a Zingaretti) ha dichiarato che il Congresso è «indispensabile» e ha chiesto che venga organizzato «possibilmente prima delle amministrative». Rispondendo alla domanda se fosse secondo lui necessario un cambio di segreteria, ha risposto: «Penso che questa linea (quella con l’alleanza con il M5S, ndr) sia sbagliata e stia distruggendo il PD. Quindi o cambia la linea o cambia il segretario».
Solo qualche giorno fa, e suscitando molte opposizioni da parte delle correnti di minoranza, Zingaretti aveva dichiarato che dato che l’ultimo Congresso si è svolto nel marzo del 2019, le primarie si terranno come previsto nel marzo del 2023. Il 14 marzo, giorno conclusivo dell’Assemblea nazionale, Zingaretti dovrà dunque decidere se portare avanti lo scontro tra correnti e accettare la rottura minacciata o se invece appoggiare l’idea di un Congresso straordinario nei prossimi mesi.
Zingaretti vorrebbe però un Congresso “per tesi”, sulla linea generale e politica del PD: un Congresso che non si concluderebbe cioè con le primarie e l’elezione di un segretario. Sarebbe la prima volta nella storia del partito, e sarebbe possibile proprio per una modifica allo Statuto fatta dallo stesso Zingaretti nel novembre del 2019: «Per anni abbiamo chiamato le persone ai gazebo a votare sulla scelta dei leader. Ora dobbiamo chiamarli non solo a votare, ma a discutere su un progetto e su idee da mettere in campo. Una vera e propria costituente delle persone e delle idee», ha detto in Direzione. L’idea sarebbe dunque quella di aprire una discussione tra iscritti e iscritte per arrivare alla votazione di un documento politico.
Dall’altra parte la richiesta è invece di tenere un Congresso “vero”, in cui possa essere messa in discussione anche la leadership. Lo Statuto, sostengono le minoranze, dice che il segretario «rappresenta il partito» e ne esprime «l’indirizzo politico sulla base della piattaforma approvata al momento della sua elezione». E Zingaretti avrebbe disatteso quanto promesso all’inizio, secondo gli accusatori interni, sebbene lui continui a sostenere che le decisioni degli ultimi mesi sono state prese in modo collegiale e condiviso. «Zingaretti vinse le primarie dicendo che mai ci saremmo alleati con il M5S. Adesso ha deciso di trasformare un’intesa emergenziale in progetto per il futuro. Non può fare un’inversione a “U” senza passare per un altro Congresso», ha detto ad esempio Orfini.
E Stefano Bonaccini che c’entra?
La scorsa settimana, il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini aveva definito “ragionevole” la posizione di Matteo Salvini sull’apertura serale di pub e ristoranti, attirandosi molte critiche soprattutto da parte degli esponenti del suo stesso partito vicini a Zingaretti.
Come hanno scritto diversi osservatori, le dichiarazioni di Bonaccini sembrano essere state solo un pretesto in una contesa che riguarda soprattutto la leadership del PD. Bonaccini – che per ora non si è pronunciato sulla questione – viene infatti indicato come possibile candidato al Congresso per la segreteria del partito, in alternativa a Zingaretti. Sarebbe sostenuto da Base Riformista, ma anche (sempre secondo i retroscena) da alcuni amministratori locali.
Sindaci e modifiche alla segreteria
Nelle ultime settimane, oltre che per la vicinanza al M5S, Zingaretti ha ricevuto altre critiche. È stato accusato di debolezza nel nuovo assetto di governo, dove il PD non ha più nessun sottosegretario né all’Interno né alla Giustizia. Ed è stato criticato da diversi sindaci del suo partito per la scarsa attenzione verso gli amministratori e i territori.
In questo senso sono stati interpretati alcuni recenti cambiamenti interni al partito fatti da Zingaretti. Il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, vicino al segretario, coordinerà i sindaci del PD e due emiliani, Andrea De Maria e Manuela Ghizzoni, sono entrati nella segreteria: «Anche in funzione di argine allo sfidante in pectore Bonaccini», ha commentato Repubblica.