Il ritorno del mullet
Nel 2021 vedremo sempre di più il taglio di capelli reso popolare da David Bowie e a lungo simbolo di cattivo gusto, dice chi prevede queste cose
di Arianna Cavallo
Secondo diversi esperti di moda, nel 2021 bisognerà arrendersi al ritorno del famigerato mullet, il taglio di capelli emblematico degli anni Ottanta, lungo sulle spalle e corto in cima e ai lati della testa. Business in front, party in the back, come si diceva all’epoca per descriverlo: cioè “per il lavoro sul davanti e per le feste dietro”. Sebbene negli ultimi vent’anni sia stato perlopiù ridicolizzato, per più di un decennio il mullet – si legge mallet – fu imprescindibile per chiunque volesse essere alla moda ed era portato un po’ da tutti: donne e uomini, attori, atleti, musicisti rock, country, punk e metal, tennisti, giocatori di hockey, calciatori e ragazzini di mezzo mondo.
Passò poi di moda con la fine degli anni Ottanta, in parte per via delle prese in giro del gruppo musicale dei Beastie Boys, e da lì in avanti acquistò la pessima fama di cui non si è ancora sbarazzato. Diventò il taglio brutto e grossolano per eccellenza, che sta male inevitabilmente a tutti. Negli ultimi anni però è comparso sulle teste delle modelle in alcune sfilate di moda e sempre più frequentemente su quelle di personaggi famosi, come Rihanna, Zendaya, Miley Cyrus, Zac Efron fino a diventare di tendenza nell’ultimo anno.
Nel suo libro Mullet Madness, lo scrittore Alan Henderson scrive che il mullet fu probabilmente uno dei tagli più antichi, portato già dagli uomini preistorici: apprezzavano la comodità della frangia corta, che lasciava gli occhi più liberi durante la corsa, e la praticità dei capelli lunghi sulla nuca, che tenevano caldo e proteggevano dalla pioggia. Henderson individua dei “proto-mullet” anche in statue greche del VI secolo a.C., e scrive che li portavano i guidatori di carri Romani e nel XVI secolo a.C. i guerrieri Ittiti, Assiri ed Egizi. Negli Stati Uniti era diffuso tra i Nativi Americani mentre il presidente Benjamin Franklin esibiva nel Settecento una sorta di skullet: calvo in cima, con i capelli portati lunghi sui lati.
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La storia del mullet moderno iniziò però negli anni Settanta: oggi può sembrare strano che a fare la fortuna di un taglio considerato orrendo fu una personalità esteticamente affascinante come David Bowie. Era il 1972, ha raccontato la sua moglie dell’epoca Angie, e Bowie stava lavorando al disco The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders from Mars quando un giorno si svegliò con la voglia di un nuovo taglio di capelli.
Chiamò Suzie Ronson, una parrucchiera londinese che lavorava spesso per sua madre, e le mostrò una rivista con la foto di una modella dello stilista giapponese Kansai Yamamoto: aveva i cappelli rossi, corti e all’insù. Bowie – che aveva una chioma bionda, lunga e ondulata come tutte le rockstar – le chiese cosa pensasse e se sapesse farlo. Ronson rispose che «nessuno ha i capelli corti: sembrerebbe davvero diverso». Dentro di sé, come si legge nel libro The Moth, pensava però che era un po’ strano, era «un taglio da donna: come lo avrei fatto?».
Si arrangiò con un paio di forbici, una tintura da 30 volumi che trasformò i capelli di Bowie in un rosso fiammante e un trattamento antiforfora che glieli sparò dritti in testa. Era il taglio perfetto per il suo alter ego Ziggy Stardust, una rock star androgina e aliena che sconvolse i canoni dell’epoca: era qualcosa di mai visto, che univa il maschile e il femminile, il corto e il lungo, che era rivoluzionario e sfidava il perbenismo dei tempi. Venne subito copiato dai musicisti più provocatori dell’epoca prima di diffondersi rapidamente: negli anni Settanta lo portarono Rod Stewart, Keith Richards, Paul McCartney e Neil Pert dei Rush. In pochi anni però perse qualsiasi connotato da rockstar trasgressiva, e divenne il taglio delle masse.
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Negli Stati Uniti, in Regno Unito, in Canada e in Australia lo portavano in tantissimi: Patrick Swayze in Dirty Dancing, Kiefer Sutherland in Ragazzi perduti, Mel Gibson, Rob Lowe, Bono Vox, Jon Bon Jovi, Prince, Andre Agassi, Lionel Richie, Michael Bolton e Richard Dean Anderson nella serie tv MacGyver, con il suo indimenticabile ciuffo biondiccio. In Italia viene anche chiamato “capelli alla tedesca”, perché portato da molti calciatori della Germania, mentre tra i giocatori di hockey su ghiaccio era così diffuso che in Svezia e in molti altri paesi veniva detto hockey hair, capelli da hockey: si infilavano comodamente nel casco e si lasciava spuntare la chioma fluente.
John Warner, scrittore di Chicago ed ex giocatore di hockey, ha raccontato al podcast Mistery of the Mullet di Slate che ai suoi tempi lo chiamavano semplicemente “the flow”, la chioma. Jaromír Jágr, un famoso hockeista su ghiaccio ceco arrivato negli Stati Uniti a 18 anni, nel 1998, aveva il mullet con i capelli più lunghi di tutta la NHL, la lega di hockey su ghiaccio americana e canadese: «c’erano i Mötley Crüe, i Def Leppard e Bon Jovi, avevano tutti i capelli lunghi e io volevo essere una rockstar come loro».
Il mullet era più comune tra i maschi bianchi, ma ce lo avevano anche le donne: Tina Turner, Cher, Jane Fonda, Meg Ryan, e verso la fine degli anni Ottanta divenne caratteristico della comunità lesbica. Nel documentario American Mullet, una donna racconta per esempio che «penso che sia un taglio da lesbica perché sono sempre i miei capelli a tradirmi»; un’altra dice che «è un taglio senza genere».
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Negli anni Ottanta, il mullet aveva però perso la leggerezza mercuriale alla Ziggy Stardust ed era diventato eccessivo e istrionico, un segno – senza connotazioni ironiche – del carattere festaiolo e al passo coi tempi di chi lo portava.
Le cose cambiarono negli anni Novanta, quando iniziò a vedersi meno e a stancare. La sua parabola però non si concluse con una semplice e discreta uscita di moda. Nel 1994 i Bestie Boys, un gruppo hip hop americano, coniarono o perlomeno usarono per la prima volta pubblicamente il termine mullet – che significa triglia – nella canzone del 1994 Mullet Head: «vuoi sapere cos’è un mullet? Bene so una storiella su questo taglio, è uno stile di vita». L’intento era dispregiativo e parodico: la canzone parlava di ragazzotti rozzi e un po’ tonti, che pensavano solo a fare a botte, alle belle macchine e alle ragazzine, e che portavano jeans slavati e quel taglio passato di moda. “Mullet head” era un termine usato spesso per indicare un tipo poco sveglio e i Beastie Boys lo affibbiarono direttamente al taglio, che prese così quel nome.
Non si sa se il nome prese subito piede nel parlato: quel che si sa è che anche la seconda occorrenza documentata del termine la si deve ai Beastie Boys. Nel 1995 dedicarono il secondo numero della loro rivista Grand Royal a demolire il taglio. Sotto il titolo di Mulling the mullet (“Rimuginamenti sul mullet”) il membro della band Mike D raccolse una serie di articoli parodici contro il taglio di capelli per concludere che «Non c’è niente di peggio di un brutto taglio di capelli e forse il peggiore di tutti è il mullet».
Il già citato podcast Mistery of the Mullet racconta i tentativi di rintracciare l’uso della parola mullet associata ai capelli precedente alla canzone dei Beastie Boys, ma inutilmente. L’autorevole Oxford English Dictionary fece un appello al pubblico per ottenere informazioni, ma non riuscì ad andare più indietro del 1994. È comunque possibile che, come sostengono molti in base ai propri ricordi, il termine fosse già diffuso negli anni Ottanta ma soltanto nello slang, il linguaggio parlato dei giovani.
Comunque sia, dopo l’accanimento dei Bestie Boys, la stanchezza per un taglio passato di moda lasciò il passo alla repulsione e alla convinzione che fosse ben peggio del semplice retaggio di un’epoca passata e verso la quale non c’era nostalgia. Fu associato dispregiativamente alle classi povere nelle città arretrate, o agli zotici di campagna che ascoltavano musica country. Se ne sbarazzarono più o meno tutti, e tra i pochi che continuarono ostinatamente a portarlo restarono il cantante Little Richard e il musicista country Billy Ray Cyrus, padre di Miley Cyrus, che nel 2006 ci fece anche una canzone, I Want My Mullet Back.
Osteggiato da tutti, dalla fine degli anni Novanta il mullet venne ripreso da alcune sottoculture proprio perché simbolo di bruttezza: farselo voleva dire disprezzare il perbenismo e l’idea di bellezza tradizionali. Poi lentamente negli anni Duemila iniziò a rivedersi, a volte portato da qualche musicista, di nuovo sui campi da hockey su ghiaccio e tra alcuni cantanti del pop coreano. Restava comunque un simbolo dell’opulenza occidentale e nel 2010 venne vietato in Iran perché considerato anti-islamico.
Nel 2013 la cantante Rihanna si presentò con un mullet alla Settimana della moda di New York, nel 2016 lo stesso fece l’attrice Zendaya ai Grammy Awards, mentre nel 2017 si vide sulle passerelle di molte sfilate di moda, portato dalle modelle e dai modelli di Giambattista Valli a quelli del marchio di streetwear Off White di Virgil Abloh.
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A inizio 2020 la cantante Miley Cyrus sfoggiò un mullet su Instagram, commentando «taglio nuovo, anno nuovo, musica nuova». Fu seguita di nuovo da Rihanna, dall’attrice di Game of Thrones Maisie Williams, dalla musicista Billie Eilish che mescolò ciuffi neri e verdi, da Joe Exotic, il protagonista della serie tv Tiger King, da Zac Efron e da molti altri, fino al cantante Achille Lauro nella prima serata del Festival di Sanremo.
Le nuove versioni sono diverse da quelle degli anni Ottanta: a volte il corto e il lungo hanno molto più contrasto, ma più spesso sono moderate e hanno scalature più contenute. Secondo una ricerca sulla piattaforma di cosmetici Cosmetify pubblicata a maggio 2020, dall’inizio della pandemia le ricerche su “come farsi un mullet” erano aumentate del 1124 per cento. Lo scorso settembre il sito i-D definì il 2020 l’anno del mullet, attribuendone la popolarità anche alla pandemia da coronavirus, che aveva causato la chiusura dei parrucchieri e favorito la diffusione di capelli lunghi, senza forma. Contrariamente agli anni Ottanta, a questo giro il mullet è visto di nuovo come una scelta di rottura, anticonformista e da portare sprezzantemente con un po’ di autoironia.
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