Possiamo produrre i vaccini per il coronavirus in Italia?
Dipende cosa si intende per “produrre”, e in ogni caso forse sarebbe meglio muoversi a livello europeo
Questa settimana si è parlato con una certa insistenza della possibilità di produrre in Italia vaccini contro il coronavirus, per alleviare la carenza di dosi disponibili provocata tra le altre cose dalla difficoltà e dai ritardi nella produzione riscontrati dalle aziende dei tre finora autorizzati: Pfizer-BioNTech, AstraZeneca e Moderna. La Commissione Europea si è data come obiettivo l’autosufficienza nella produzione, come ha detto il commissario per il Commercio interno Thierry Breton, da poco nominato a capo di una task force sui vaccini, e il governo italiano di Mario Draghi sta lavorando per individuare in che modo il settore dell’industria farmaceutica italiana possa contribuire a un aumento della capacità produttiva.
Giovedì si sono incontrati Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, e Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, l’associazione di categoria che riunisce le principali imprese farmaceutiche che operano in Italia, oltre a Giorgio Palù, presidente dell’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) e al commissario straordinario Domenico Arcuri. L’idea, raccontata dallo stesso Scaccabarozzi in numerose interviste precedenti all’incontro, è di avviare la produzione di vaccini già autorizzati, su licenza delle aziende che detengono i brevetti, in stabilimenti sul territorio italiano. Questi stabilimenti dovrebbero appartenere ad aziende che hanno già la tecnologia necessaria per avviare la produzione in tempi ragionevoli, o che comunque siano in grado di riconvertire i processi industriali in poco tempo.
Dopo l’incontro le parti hanno annunciato nuove riunioni nelle prossime settimane per individuare «tutte le componenti produttive compatibili con la realizzazione di vaccini e in un orizzonte temporale congruo con le esigenze del Paese». Il governo ha offerto «la totale disponibilità di strumenti normativi e finanziari».
Gli esperti e molte aziende sentite dal Post sono concordi nel dire che l’Italia abbia la tecnologia e la capacità industriale per contribuire in maniera consistente soltanto ad alcune fasi della produzione di un vaccino contro il coronavirus, indipendentemente dal tipo.
Al contrario di quanto sostenuto da alcuni esponenti politici, l’idea che uno dei tre vaccini già autorizzati possa essere interamente prodotto in Italia, dalla materia prima al flaconcino, è inattuabile, a meno di dover attendere molti mesi, di fare investimenti per ora non previsti e di penalizzare altre produzioni non meno importanti. Caso diverso è quello di ReiThera, un’azienda italo-svizzera che sta sviluppando un vaccino contro il coronavirus che potrebbe essere prodotto interamente negli stabilimenti del Lazio. Il vaccino di ReiThera, però, è alla fine della fase 1 (su tre) della sperimentazione e richiederà ancora mesi prima di un’eventuale autorizzazione.
Per questo, l’opzione più probabile, ma sempre difficile, per aumentare la produzione dei vaccini contro il coronavirus è di integrare la capacità produttiva quanto meno a livello europeo, mettendo assieme pezzi di tecnologia a disposizione dell’Italia con quelli degli altri paesi. È ciò che sta cercando di fare il commissario Breton.
La produzione di un vaccino contro il coronavirus è un’operazione enormemente complessa e molto variabile a seconda del tipo. A livello industriale — e anche in questo caso stiamo semplificando — possiamo distinguere due fasi principali: la produzione del “principio attivo” del vaccino, e quello che in gergo viene definito “fill and finish”, cioè l’operazione comunemente nota come “infialamento”, che però è molto più delicata del semplice riempimento di flaconcini. Non bisogna dimenticare, inoltre, che a monte c’è anche un problema di reperimento delle materie prime, che sono molto richieste in tutto il mondo e che costituiscono un ostacolo importante all’ampliamento della produzione.
La prima fase è la più complessa dal punto di vista tecnologico e la più sensibile dal punto di vista della protezione della proprietà intellettuale: alcune aziende hanno liberalizzato l’utilizzo dei loro brevetti, ma con molte clausole e compromessi, e in generale la produzione su licenza richiederebbe accordi specifici che potrebbero essere patrocinati — ed eventualmente anche pagati — dall’Unione Europea. I media hanno parlato anche della possibilità di sospendere il monopolio dato dai brevetti, ma per ora è un’opzione implausibile e forse controproducente.
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Prima ancora dell’ostacolo dei brevetti, c’è quello della tecnologia. Torniamo all’Italia, che per esempio ha un buon numero di aziende che si occupano della seconda fase e quasi nessuna che si occupa della prima. Di queste ultime, nessuna in questo momento ha una possibilità seria di riconvertire i propri processi e cominciare a produrre componenti dei vaccini contro il coronavirus.
Negli ultimi giorni i giornali italiani hanno citato un buon numero di aziende come possibili candidate a partecipare alle operazioni di incremento della produzione dei vaccini contro il coronavirus: i giornali, e anche alcuni esperti intervistati, hanno fatto i nomi di quasi tutte le grosse realtà dei settori farmaceutico e delle biotecnologie presenti nel paese. A testimonianza del fatto che i progetti sono ancora a uno stadio piuttosto iniziale, però, praticamente nessuna di queste ha avuto contatti con rappresentanti del governo.
La prima fase di produzione dei vaccini è difficile da realizzare in Italia perché mancano macchinari e infrastrutture. In particolare, mancano i cosiddetti bioreattori, cioè i contenitori necessari per la produzione delle sostanze che inducono una certa risposta immunitaria. Le aziende farmaceutiche che ne hanno installati in Italia sono poche, e praticamente nessuna ne ha di adatti alla produzione di un vaccino contro il coronavirus.
Si è molto parlato per esempio di GSK, multinazionale britannica che a Siena ha un importante stabilimento per la produzione di vaccini contro la meningite, che sono esportati in tutto il mondo. I vaccini contro la meningite però sono di tipo batterico, non virale, e i bioreattori hanno caratteristiche completamente diverse. Anche considerando il fatto che non è il caso di interrompere la produzione di vaccini contro la meningite e che trasferirla sarebbe difficile, per avviare una produzione di vaccini contro il coronavirus a Siena sarebbe necessario installare bioreattori nuovi.
Anche la multinazionale francese Sanofi ha ad Anagni, in provincia di Frosinone, un grande impianto che si occupa di vaccini, e che è stato citato in questi giorni come un possibile candidato, ma ci sono due problemi: anzitutto, l’impianto di Anagni è già stato individuato come luogo di produzione per il vaccino che la casa farmaceutica sta sperimentando in collaborazione con GSK, e in secondo luogo, per quest’ultimo vaccino, ad Anagni si farà il “fill and finish”. La fase iniziale della produzione avverrà in altri stabilimenti in Europa, ha fatto sapere l’azienda.
Rimane soltanto ReiThera che, come già detto, nella sua sede di Castel Romano (Lazio) è arrivata alla fine della fase 1 di sperimentazione di un vaccino basato su adenovirus. ReiThera nel suo stabilimento ha cinque bioreattori che, almeno in linea teorica, sarebbero in grado di produrre i vaccini di AstraZeneca, di Gamaleya (cioè l’azienda russa che produce il vaccino Sputnik V) e di Johnson & Johnson, se quest’ultimo sarà autorizzato. Mancano invece le tecnologie per produrre i vaccini basati sull’RNA messaggero, come quelli di Pfizer-BioNTech e di Moderna. Questo ovviamente in linea teorica, perché ReiThera sta usando i bioreattori per produrre il proprio, di vaccino, e difficilmente li cederà per altro. ReiThera spera, a pieno regime e in caso di autorizzazione, di poter produrre tra i 50 e i 100 milioni di dosi all’anno.
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Le aziende in Italia hanno molta più preparazione e tecnologie per la seconda fase della produzione di vaccini, quella di “fill and finish”.
Sempre ad Anagni, uno stabilimento del gruppo americano Catalent già si occupa del “fill and finish” di parte dei vaccini di AstraZeneca, e in generale è abbastanza plausibile che altre aziende del settore possano proporsi. L’ha fatto Fidia Farmaceutici, un’azienda italiana che ha un grosso stabilimento ad Abano Terme, in provincia di Padova, e che è famosa soprattutto per prodotti medici a base di acido ialuronico. Fidia ha anche un settore di produzione di vaccini per conto terzi, e alla fine di gennaio, in un comunicato stampa, si è detta disponibile «a partecipare a un programma di ampio respiro» per aumentare la capacità produttiva dei vaccini contro il coronavirus. In seguito però non ha più diffuso dichiarazioni, probabilmente in attesa di comunicazioni ufficiali da parte del governo.
Diverse altre aziende in Italia hanno le capacità tecniche di fare “fill and finish”, come la già citata Sanofi nel suo stabilimento di Anagni, anche se ovviamente le disponibilità variano.
In generale, tutte le aziende farmaceutiche interpellate hanno spiegato che avviare una nuova produzione di vaccini su licenza di un’altra azienda è piuttosto complicato, perché le tecnologie non sono quasi mai compatibili e sarebbero necessari lunghi mesi di riadattamento e riconversione, in quello che talvolta viene chiamato trasferimento tecnologico. Questo senza considerare il fatto che gli impianti sono già impegnati in altri tipi di produzione.
Per installare o riconvertire un impianto per una delle fasi di produzione del vaccino sono necessari almeno sei mesi più ulteriori tre mesi per consentire alle aziende che detengono i brevetti di spiegare tecniche e metodi di produzione (il trasferimento tecnologico, appunto), secondo una stima fatta durante la trasmissione Piazzapulita da Piero Di Lorenzo, amministratore delegato e presidente di IRMB, società di biotecnologie di Pomezia, nel Lazio, che ha contribuito ad alcune fasi dello sviluppo del vaccino di AstraZeneca.
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La strategia migliore è probabilmente quella di agire a livello europeo. Lo scorso 17 febbraio la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, assieme al commissario Breton, ha presentato un nuovo piano chiamato Incubatore HERA, con tre obiettivi: migliorare il riconoscimento delle varianti del coronavirus, velocizzare l’approvazione di nuovi vaccini contro le varianti e aumentare la capacità produttiva di vaccini nell’Unione.
Dell’ultimo punto si stanno occupando soprattutto Breton e la sua task force da poco creata: in vari interventi pubblici, il commissario ha detto che intende avere una «piena autonomia produttiva» entro 12-18 mesi. Secondo Breton, nessun paese nell’Unione dispone delle tecnologie per completare per intero la produzione di un vaccino entro i propri confini, e dunque è necessario collegare le catene produttive dei vari paesi.
Questo è ovviamente già avvenuto in fase di ricerca: BioNTech ha stretto una partnership con Pfizer, mentre l’Università di Oxford con AstraZeneca. Ci sono anche numerosi accordi di fornitura, come quello che l’azienda Merck ha stretto con BioNTech per la fornitura di nanoparticelle lipidiche, essenziali per la produzione di un vaccino a RNA messaggero.
Nelle ultime settimane, però, sono state strette altre partnership che hanno l’obiettivo esplicito di aumentare la capacità produttiva e rendere disponibili quante più dosi possibili: Sanofi ha messo a disposizione un proprio stabilimento a Francoforte, in Germania, per il “fill and finish” del vaccino di Pfizer-BioNTech, e un altro stabilimento a Marcy l’Etoile, in Francia, per il “fill and finish” del vaccino di Johnson & Johnson, quando sarà autorizzato. Novartis ha firmato un accordo preliminare per utilizzare un proprio stabilimento a Stein, in Svizzera, ancora una volta per il “fill and finish” del vaccino di Pfizer-BioNTech.
Breton intende favorire e potenziare questo genere di accordi. Il commissario ha detto pubblicamente che sta lavorando assieme al settore farmaceutico per avviare piani di riconversione di impianti esistenti, e di avere una lista in continuo aggiornamento per censire tutti gli stabilimenti attivi nella produzione di vaccini contro il coronavirus, il cui lavoro deve essere coordinato per consentire un’espansione della catena produttiva europea. Nella lista c’è un solo stabilimento italiano, quello di Catalent, nel Lazio, dedicato al “fill and finish”.
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Secondo gli esperti, il collo di bottiglia nella produzione dei vaccini contro il coronavirus (e in generale di tutti i vaccini) non sta tanto nel “fill and finish” quanto nella fase precedente: i nuovi accordi per aumentare la produzione che riguardano questa fase prevedono tempi piuttosto lunghi. Questo mese, per esempio, AstraZeneca ha annunciato una partnership con la compagnia farmaceutica tedesca IDT Biologika per cominciare a produrre vaccini a Dessau. L’accordo prevede la costruzione di cinque bioreattori e consentirà la produzione di decine di milioni di dosi all’anno, ma la produzione comincerà soltanto entro la fine del 2022.
In generale, tutti i produttori che hanno ideato i brevetti dei vaccini già autorizzati hanno annunciato piani per rafforzare la produzione – come è il caso di AstraZeneca, che sta lavorando per rendere più efficiente l’impianto di Seneffe, in Belgio, uno dei principali responsabili del ritardo produttivo – o per ampliarla.
Moderna ha annunciato pochi giorni fa che intende aumentare la propria produzione annuale dai 700 milioni di dosi attuali a 1,4 miliardi, ma per farlo sarà necessario quasi un anno, tra tempi tecnici e autorizzazioni. Le cose potrebbero andare un po’ più rapidamente con BioNTech, che tra le altre cose l’anno scorso ha acquisito a Marburgo, in Germania, un grosso stabilimento appartenuto a Novartis, dove la produzione è cominciata questo mese: i primi vaccini saranno disponibili a partire da aprile.