Il sistema della moda si regge sull’amicizia
E non è un bene, racconta il New York Times, che denuncia il sistema di omaggi e favori tra aziende e giornali
Il New York Times ha raccontato il sistema scivoloso che governa il mondo della moda, dove i rapporti lavorativi e di amicizia tra stilisti, giornalisti, modelle e fotografi hanno confini labili e finiscono per confondersi, con conseguenze sugli articoli e sui servizi di moda. Il sistema si regge da anni su uno scambio di doni, favori e recensioni positive più o meno disinteressate complici anche, ai livelli medio-bassi, le paghe notoriamente contenute e insufficienti a sopravvivere in un ambiente in cui bisogna indossare vestiti costosi e frequentare i posti giusti. È un sistema anomalo rispetto agli standard di altri giornalismi, dove simili regali e legami sono esclusi e considerati indice di scarsa trasparenza e oggettività.
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L’articolo è stato scritto da Vanessa Friedman, responsabile della moda del New York Times, insieme a Elizabeth Paton, giornalista della sezione Styles che si occupa di moda e lusso in Europa. Prende spunto da un episodio estremo ma emblematico di quei meccanismi, di cui si sta parlando molto sulle riviste in questi giorni: la richiesta di sfratto a André Leon Talley, uno dei più importanti giornalisti del settore, da parte di due suoi ex amici di lunga data, George Malkemus, ex amministratore delegato della divisione americana dell’azienda di scarpe Manolo Blahnik, e Anthony Yurgaitis, suo marito e socio in affari.
Talley ha 72 anni e nel mondo della moda è un personaggio leggendario. È tra i primi afroamericani ad avere avuto ruoli importanti nel settore e ha favorito con il suo successo l’apertura delle passerelle e delle riviste a stilisti e modelle nere. Cresciuto dalla nonna nel North Carolina durante la segregazione razziale, «non si sarebbe potuto permettere di sognare di diventare un giornalista di moda», come scrisse la stessa Friedman in un articolo nel 2018. Talley invece ha raggiunto una sfilza di obiettivi che nessuno avrebbe creduto, ai tempi, alla portata di un ragazzo nero del Sud: si laureò, divenne stagista della celebre giornalista di moda Diana Vreeland al Costume Institute di New York, venne assunto alla rivista Interview di Andy Warhol per 50 dollari (di allora) a settimana e finì a lavorare per la rivista di moda Women’s Wear Daily, diventandone il responsabile della redazione parigina dal 1975 al 1980. Collaborò anche con il New York Times e altre riviste, finché arrivò a Vogue nel 1983, dove lavorò fino al 1987 come direttore delle notizie di moda e poi come direttore creativo dal 1988 al 1995.
Talley rappresenta anche un mondo della moda splendido e dorato, che non c’è più: oltre che di Warhol e Vreeland, era amico dello stilista Yves Saint Laurent, della direttrice di Vogue America, Anna Wintour, di Karl Lagerfeld, l’eccentrico direttore creativo di Chanel e Fendi, che lo ospitava nelle sue case di vacanza e gli regalò abiti, una spilla di Fabergé e un baule di Louis Vuitton. «Appartiene a un altro tempo – ha raccontato a Friedman lo stilista americano Tom Ford – Un tempo in cui i giornalisti erano in grado di creare un sogno, in cui la moda era un’economia molto più elegante, in cui lo stile contava davvero». Non bastava saper scrivere buoni articoli ma bisognava incarnare un’idea, anche nell’aspetto: per Anna Wintour è l’eterno caschetto, per Vreeland il rossetto rosso, per Talley – notevolmente ingrassato negli ultimi dieci anni dopo la morte della nonna – i caftani stravaganti e preziosi.
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Non stupisce troppo che Talley sia rimasto impigliato in una maglia del sistema di favori e relazioni che fa da impalcatura al mondo della moda. Al centro della vicenda, di dominio pubblico da febbraio, c’è la bianca casa coloniale a White Plans, a nord di New York, in cui vive dal 2004. Lo scorso novembre Malkemus denunciò Talley per il mancato pagamento dell’affitto della casa, di sua proprietà, per oltre 500mila dollari e ne chiese lo sfratto. Nella controdenuncia fatta a gennaio, Talley sostiene invece che la casa è sua in base a un accordo non scritto fatto con Malkemus nel 2004: allora i due erano amici da 40 anni e si erano conosciuti grazie allo stilista Blahnik, a cui Talley era molto legato.
All’epoca Talley aveva dovuto lasciare il suo appartamento a New York e, a causa di passati problemi finanziari (legati soprattutto al mancato pagamento delle tasse), aveva difficoltà ad accedere a un mutuo. Per questo si sarebbe rivolto a Malkemus, che avrebbe acquistato la casa al posto suo per un milione di dollari; in cambio Talley lo avrebbe ripagato in base allo stato delle sue finanze e avrebbe ottenuto il possesso della casa una volta raggiunta la somma originaria. A gennaio 2020 avrebbe ripagato Malkemus e Yurgaitis del debito, inviando loro negli anni 1.075.588 dollari e in questi anni avrebbe anche investito circa 200mila euro in lavori, come il rifacimento del tetto, della caldaia, delle finestre e della moquette.
Talley ha anche raccontato che l’atteggiamento di Malkemus era cambiato a marzo 2020, quando aveva comunicato a Talley che avrebbe voluto vendere la casa. In quel periodo un’azienda italiana sussidiaria di Blahnik – da cui Malkemus se n’era andato l’anno prima per diventare amministratore delegato del marchio di scarpe dell’attrice Sarah Jessica Parker – lo aveva accusato di non aver pagato delle fatture per un totale di 950 mila euro.
Come scrive il New York Times, la vicenda non è solo l’ultimo aneddoto sui «problemi del mescolare lavoro e amicizia» ma «fa luce su un comportamento endemico da tempo nel mondo della moda, in cui regali, favori e influenza sono la moneta di scambio». Spesso si tratta di piccoli omaggi o favori: una borsa regalata a un giornalista famoso nella speranza che venga fotografato mentre la indossa, con un ritorno pubblicitario più o meno involontario per il marchio. Oppure l’invito a una sfilata dall’altra parte dell’Oceano, con volo in prima classe e pernottamento in hotel di lusso in cambio di un’intervista che altrimenti non ci sarebbe stata.
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Nel suo memoir The Chiffon Trenches, Talley stesso ha ricordato che Lagerfeld regalava vestiti di Fendi e Chanel alle sue modelle preferite, come Paloma Picasso, Ines de la Fressange e Tina Chow. Alexandra Shulman, ex direttrice dell’edizione britannica di Vogue, ha raccontato che appena iniziò a lavorare per la rivista ricevette in omaggio dall’ufficio stampa due giacche di Chanel, per un valore di circa mille sterline di allora. Anche oggi le redazioni delle riviste di moda e gli influencer ricevono in continuazione cosmetici, borse e sneaker dalle aziende, nella speranza di recensioni favorevoli.
Ufficialmente il regalo non impegna a nulla, è un semplice omaggio e un modo per farsi conoscere e stringere rapporti; i giornalisti assicurano che non offusca il loro giudizio o non li spinge a scrivere un articolo. Da un lato, è vero che molto sta nella capacità del giornalista di restare neutrale e che spesso ricevere degli omaggi è il modo più diretto per farsi un’idea della qualità del prodotto, dall’altro, come scrive il New York Times, in altri settori giornalistici «omaggi di questo tipo potrebbero far nascere accuse di corruzione». Nel mondo della moda, invece, «fanno parte dell’economia di base del settore e sono uno strumento comunemente accettato per costruire relazioni (e considerato spesso dai marchi un investimento di marketing)».
Questo sistema resiste anche perché colma gli stipendi notoriamente bassi del settore. Gli stilisti emergenti non hanno soldi per organizzare le sfilate e a volte nemmeno i servizi fotografici e possono pagare le modelle con i vestiti che hanno indossato anziché in contanti. Anche i redattori hanno contratti precari e salari bassi; per esempio nel 2019 un fashion editor di una rivista di carta, che ha il compito di selezionare i prodotti di cui parlare e da inserire nei servizi, veniva pagato negli Stati Uniti 25mila dollari l’anno, stando al sito Fashionista. In Italia la situazione non è molto diversa, si collabora spesso a partita IVA o a progetto, accumulando vari lavori che ci si procura per amicizia. Per questo gli omaggi inviati dai marchi aiutano a compensare: c’è chi preferisce rivenderli, anche grazie alla crescita del mercato dei capi di seconda mano, e chi li tiene per sé per sentirsi parte del mondo sbrilluccicante della moda.
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Questo meccanismo, avverte il New York Times, promuove un ambiente dove tutti i coinvolti sono portati a fare affidamento sulla generosità nei loro rapporti lavorativi. Non aiuta, aggiunge, che i professionisti del mondo della moda si incontrino in ambienti informali: una festa dopo la sfilata, una cena a un gala di beneficenza, una spiaggia dove viene scattato un servizio fotografico. Le conoscenze diventano così cruciali per la riuscita di un lavoro e lo stesso Talley era prezioso per Vogue grazie alla sua amicizia con Lagerfeld, che si reggeva sugli articoli elogiativi, per quanti sinceri, con cui commentava le sue collezioni.
L’arrivo di internet e degli influencer ha in qualche modo cambiato il sistema e portato a nuovi equilibri: il rapporto di fiducia, che è fondamentale tra influencer e follower, potrebbe infatti spingere verso una maggiore trasparenza del sistema.
Fino a qualche anno fa i rapporti tra aziende e influencer erano oscuri e poco regolati: per gli utenti era difficile capire se la persona che seguivano parlava bene di un prodotto perché lo riteneva valido, perché era pagata dal produttore o perché l’aveva ricevuto in regalo e sperava di riceverne altri. Per molte riviste di moda funziona ancora in questo modo, con le cosiddette marchette, cioè recensioni o articoli estremamente positivi in cambio di pagamenti, pubblicità e buoni rapporti con le aziende.
Ora però gli influencer sono tenuti a segnalare i post sponsorizzati e i prodotti di cui parlano dietro compenso. In Italia, in particolare, dal 2017 l’Authority garante del commercio e della concorrenza (Agcm) raccomanda l’utilizzo dell’hashtag #adv, che sta per advertising (pubblicità) per i contenuti di questo tipo; l’hashtag #gifted viene invece usato quando si parla di un prodotto che si è ricevuto in regalo, quindi non dietro un pagamento diretto. Paradossalmente c’è chi ambisce a diventare influencer e utilizza l’hashtag #gifted dopo aver recensito prodotti che ha comprato di tasca sua, nella speranza di attirare altri marchi e convincerli a farsi spedire degli omaggi.
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