La sconcertante varietà di peni nel regno animale
Tratti in comune e differenze nei genitali maschili degli animali, descritte in un libro di una scienziata statunitense
La più antica documentazione fossile di un pene nel regno animale risale a circa 425 milioni di anni fa: apparteneva a un crostaceo di cinque millimetri battezzato dai ricercatori Colymbosathon ecplecticos (dal greco “ekplektikos”, “kolymbos” e “sathon”: “sbalorditivo nuotatore con un grande pene”). Al momento della scoperta, nel 2003, il minuscolo artropode appariva mineralizzato per effetto di un’eruzione vulcanica che ne aveva preservato, a distanza di quasi mezzo miliardo di anni, anche le parti molli solitamente più esposte ai rapidi processi di decomposizione.
Prima di finire ricoperto dalle ceneri vulcaniche lo sfortunato crostaceo stava probabilmente scandagliando un basso fondale alla ricerca di una compagna e del momento migliore per indirizzare verso di lei i suoi gameti, le cellule destinate alla procreazione. Un pene, pur non essendo strettamente necessario in una fecondazione, è dal punto di vista evolutivo un organo molto adatto a trasferimenti mirati e diretti, sulla terraferma ancor più che sui fondali marini.
Nel regno animale esistono peni di forme e dimensioni anche estremamente differenti, tra una specie e un’altra. E ogni piccola o grande diversità tra questi organi è un pezzo del racconto – tutto da ricostruire – della storia evolutiva di ciascuna specie e delle varie circostanze che in milioni di anni hanno continuamente fatto da contesto all’unione dei gameti maschili (spermatozoi) con quelli femminili (uova). Di questa estrema varietà, a cominciare dall’assenza o dalla presenza stesse del pene, si è recentemente occupata la scrittrice e giornalista scientifica statunitense Emily Willingham, autrice del libro Phallacy: Life Lessons from the Animal Penis, in un articolo sul sito di approfondimento Aeon.
Alla ricerca del pene negli amnioti
Uno dei passaggi fondamentali nell’avvio di una lunga serie di diversificazioni nella vita animale è da individuare nelle straordinarie evoluzioni dei vertebrati a un certo punto del Paleozoico (l’era compresa tra 542 e 251 milioni di anni fa). Avventurandosi sulla terraferma i vertebrati che oggi includiamo nel gruppo degli amnioti – ne fanno parte mammiferi, rettili e uccelli, non gli anfibi – svilupparono uova conservate in sacche di carbonato di calcio dalle pareti sottili. Quanti cambiamenti abbia subìto il pene nella storia di questo gruppo di vertebrati, da quel momento in poi, è una domanda che ha guidato a lungo la ricerca intorno all’evoluzione dei genitali.
Un esempio abbastanza chiaro della complessità di questa evoluzione, secondo Willingham, è offerto oggi dalla classe degli uccelli. Soltanto il 3 per cento delle specie presenta un pene: la maggior parte ne è priva e utilizza altre parti anatomiche. Il trasferimento dei gameti maschili, necessario alla riproduzione, avviene in gran parte dei casi attraverso la giustapposizione delle cloache (la parte anatomica in cui sboccano il tratto terminale dell’intestino e i condotti del sistema urinario), quella della femmina con quella del maschio. Ma se si prende in analisi il caso dei rettili – che condividono con gli uccelli un comune antenato rettiliano – il «bacio cloacale» è la modalità di accoppiamento soltanto per il tuatara. È un rettile endemico in Nuova Zelanda, preziosissimo per gli studiosi perché appartenente a un ordine – i rincocefali – presente sulla Terra già al tempo dei primi dinosauri, oltre 200 milioni di anni fa.
Il fatto che il tuatara non abbia il pene ha per lungo tempo sorretto l’ipotesi che qualche lignaggio successivo nell’albero genealogico degli amnioti avesse a un certo punto sviluppato un’appendice per la riproduzione, e che queste appendici avessero poi seguito evoluzioni indipendenti nei diversi ordini di amnioti. E del resto le differenze nella forma e nel funzionamento stesso del pene tra gli amnioti sono talmente numerose da rendere quell’ipotesi teoricamente plausibile. Poi nel 2015 una scoperta piuttosto avventurosa di un gruppo di ricerca dell’Università della Florida diede una parziale ma convincente risposta alla domanda fondamentale: tutta questa varietà deriva da molteplici e autonome origini evolutive del pene, o è piuttosto il risultato di modificazioni evolutive di un unico pene primordiale?
Una risposta dai tuatara
Il gruppo dell’Università della Florida riuscì a ricreare immagini in 3D di un embrione di tuatara. Fu possibile riscontrare la presenza di un gonfiore genitale più o meno nella zona dell’embrione in cui di solito comincia a svilupparsi il pene negli altri amnioti. Soltanto che nei tuatara, come nella maggior parte delle specie di uccelli viventi, quello sviluppo si arresta e non arriva a termine, e quindi gli adulti non hanno il pene.
La scoperta suggerì l’ipotesi che tutti i peni nei vertebrati si siano evoluti da quello di un antenato comune con una storia lunghissima. Ad aggiungere fondamento all’ipotesi furono dei vecchi campioni di embrioni di tuatara conservati oltre un secolo fa dallo zoologo neozelandese Arthur Dendy. Li inviò nel 1909 all’Università di Harvard, dove furono processati, convertiti in preparati istologici e catalogati nella Harvard Embryological Collection.
Il team dell’Università della Florida lavorò sui campioni di Dendy per ovviare a una serie di difficoltà oggettive note a chi si occupa di tuatara, animali protetti da leggi molto severe che servono a ridurne il rischio di estinzione. La raccolta di embrioni per la ricerca è ulteriormente complicata da altri fattori: i tuatara sono animali molto longevi – possono vivere fino a 80 anni – e molto lenti nella riproduzione. Raggiungono la maturità sessuale al 14esimo anno di età, le femmine si riproducono ogni 2-5 anni e producono da sei a dieci uova che richiedono un’incubazione di oltre un anno. Senza il lavoro di Dendy e la collezione museale di Harvard, insomma, non avremmo forse ancora scoperto la formazione del pene negli embrioni di tuatara.
La sconcertante varietà dei peni
Negli ultimi decenni gli studi sullo sviluppo del pene negli amnioti hanno permesso di scoprire tratti in comune tra animali per altri versi diversissimi tra loro, come mammiferi, tartarughe, lucertole, coccodrilli e serpenti. In tutti i gruppi la formazione del pene comincia da quella di una coppia di rigonfiamenti genitali visibili in una fase abbastanza precoce dello sviluppo embrionale. Questi due rigonfiamenti restano separati e finiscono per formare due emipeni indipendenti negli squamati (cioè nelle lucertole e nei serpenti), mentre si fondono a formare un pene unico in tutti gli altri amnioti.
Ci sono anche differenze rispetto alla posizione in cui il pene si sviluppa. Tra gli squamati gli emipeni si trovano posteriormente e di lato rispetto alla cloaca. Negli uccelli e nei mammiferi il pene si trova anteriormente rispetto alla cloaca. In milioni di anni innumerevoli altri fattori hanno poi regolato l’evoluzione delle specie in modo da permettere agli animali di assumere, al netto dei tratti in comune tra gli amnioti, straordinarie difformità per quanto riguarda l’aspetto del pene.
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Lucertole e serpenti hanno due peni anziché uno (gli emipeni, appunto), che vengono estroflessi grazie a un tessuto erettile irrorato dal sangue o da una combinazione di sangue e altri liquidi. E ne usano uno per volta. I coccodrilli hanno un organo copulatore in larga parte formato da un tessuto fibroso rigido, fatto di collagene, e per il resto da un tessuto vascolarizzato, che inseriscono nella cloaca della femmina durante la riproduzione grazie a muscoli molto sviluppati. I maschi delle anatre – un caso piuttosto noto – hanno un organo a forma di cavatappi che attraversa le altrettanto contorte vie genitali femminili molto rapidamente al momento dell’accoppiamento.
In questo video si possono vedere peni di anatre in azione, lo sottolineiamo per chi teme di esserne spiacevolmente impressionato.
Il pene più grande in assoluto ha una lunghezza media di 2,5 metri e un diametro di circa 35 centimetri: è quello della balenottera azzurra, che è anche il più grande animale sulla Terra. Il discorso cambia se si valuta la grandezza in rapporto alle dimensioni dell’animale. Alcuni cirripedi – una sottoclasse di crostacei marini ermafroditi – possono avere un pene otto volte più lungo del loro corpo. Per avere un rapporto equivalente il pene di una balenottera dovrebbe misurare circa 195 metri e quello di un uomo circa 15.
Altri organi sessuali maschili tra i non vertebrati
I ragni non hanno un pene e utilizzano per l’accoppiamento i pedipalpi, le appendici poste nella parte anteriore del loro cefalotorace. Servono per lo più come sistema di difesa o per afferrare gli alimenti, ma quelli dei maschi si distinguono nella parte estrema per la presenza di una sorta di pipetta chiamata embolo. Viene riempito dal ragno con il suo sperma prima dell’accoppiamento e poi usato per il trasferimento dei gameti inserendolo direttamente nell’apparato genitale femminile. L’accoppiamento nei ragni è anche noto per essere in molti casi un processo estremamente pericoloso per il maschio, i cui organi versatili riflettono questo equilibrio tra la necessità di concludere il rapporto con successo e nello stesso tempo sopravvivere alla femmina che spesso tenta di cibarsene dopo l’accoppiamento.
In molte specie di insetti è invece presente una sorta di pene chiamato edeago, un organo copulatore estroflessibile che spesso fuoriesce con violenza e rapidità dalle placche sull’addome. Quella degli insetti è inoltre una delle classi di animali che presenta sul pene altri elementi – spine, ganci, punte – apparentemente minacciosi e che sembrerebbero scoraggiare qualsiasi rapporto sessuale. Nella maggior parte dei casi la spiegazione generalmente condivisa tra gli studiosi è che interessi evolutivi in competizione possano portare ad adattamenti concorrenti.
Nelle numerose specie animali in cui producono gameti più grandi e forniscono poi le risorse per la gestazione dei nuovi individui, le femmine investono nello sforzo riproduttivo molto più di quanto non facciano i maschi, con i loro depositi di sperma. E quindi in una sorta di ridistribuzione dei pesi nel rapporto costi-benefici nella copulazione i peni hanno progressivamente assunto forme e contorni utili ad aggirare gli ostacoli o la concorrenza che potrebbero incontrare. Questa stessa varietà potrebbe corrispondere in moltissimi casi a un’equivalente varietà degli organi che ricevono il pene ma, scrive Willingham, i genitali femminili degli animali sono stati oggetto di studio molto meno spesso rispetto a quelli dei maschi.
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Una specie di coleottero (Callosobruchus subinnotatus) presenta sul pene strutture mascellari che lasciano piccole ferite sui genitali del partner e che si sono probabilmente evolute come risultato di una selezione sessuale post-copulatoria. Una delle ipotesi prese in considerazione dagli studiosi è che comportamenti simili rispondano al bisogno dei maschi di incrementare le probabilità di successo nella fecondazione stimolando una maggiore produzione di uova nella femmina.
Ci sono poi nel regno animale frequenti casi in cui le caratteristiche genitali abitualmente attribuite a un sesso o a un altro non stanno insieme. Ad avere una sorta di pene, in diverse specie di insetti delle caverne (Neotrogla curvata) diffusi in Brasile, sono le femmine e non i maschi. Oltre a produrre le uova hanno una protuberanza erettile e curva, chiamata ginosoma, con cui penetrano i partner durante la copulazione e aspirano da una “camera” in cui i maschi contengono il liquido seminale.
Quanto ai molluschi c’è una specie ermafrodita dell’ordine dei nudibranchi (gli animali impropriamente noti come lumache di mare), chiamata Chromodoris reticulata, che produce sia sperma che uova ed è dotata di un pene “amputabile” in più segmenti. Al momento dell’accoppiamento i due individui si avvicinano e si penetrano a vicenda depositando lo sperma dell’uno nella vagina dell’altro. Circa venti minuti dopo la fine dell’accoppiamento i genitali, che rimangono estrusi dai corpi per circa un centimetro, si staccano completamente. Ma dopo un giorno il Chromodoris reticulata è pronto per un nuovo rapporto con la parte del pene rimasta avvolta all’interno del corpo. La lunghezza del pene nella sua interezza è infatti di circa tre centimetri: di fatto è come se il mollusco ne avesse due “di riserva”. Una volta esauriti tutti e tre i segmenti, il pene può ricrescere ma occorrono tempi più lunghi.
Sono ermafrodite anche molte specie di vermi piatti, o platelminti, animali che potrebbero sembrare molluschi ma non lo sono. Queste specie si accoppiano con un comportamento descritto come “duello di peni”: dato che tutti gli esemplari producono sia cellule uovo che spermatozoi, durante l’accoppiamento devono stabilire chi “fa il maschio” e chi “fa la femmina”. I ruoli sono stabiliti dall’esito di una specie di duello in cui entrambi i vermi piatti cercano di perforare l’epidermide del compagno per iniettare il proprio sperma. In alcune specie l’inseminazione è bilaterale e manca l’aspetto competitivo.
E i primati?
Tra i vertebrati terrestri, inclusi gli esseri umani, il pene è solitamente meno appuntito e meno ornato di spine o altro. Ci sono due grandi tipi generali. Uno è sempre pronto, come quello dei coccodrilli, e funziona come una specie di airbag che si gonfia improvvisamente. L’altro tipo, come quello degli esseri umani, deve essere preparato tramite un trasferimento di fluido nel corpo.
Sebbene non abbia caratteristiche impressionanti e spettacolari come quelle dei peni di serpenti e lucertole, l’organo copulatorio maschile dei mammiferi ha in molti casi qualcosa che manca a tanti altri vertebrati: un osso (“baculum”). Escluse alcune specie di varani, che presentano tracce di ossa in ciascun emipene, per il resto l’osso penico è prevalentemente una faccenda dei mammiferi. Lo hanno primati come il gorilla, lo scimpanzé e il bonobo (le specie più vicine a quella umana), e secondo alcune ipotesi la sua presenza potrebbe servire a prolungare i rapporti sessuali e aumentare le possibilità di fecondazione.
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La forma dell’osso penico può variare molto da specie a specie: ce ne sono di leggermente ricurvi e ce ne sono altri che terminano con ganci, tridenti o artigli. Le implicazioni adattive di queste diversità sono state considerate in studi che hanno finora prodotto risultati in gran parte contrastanti.
Negli esseri umani l’osso penico non c’è. È stato studiato e compreso perché il pene umano non abbia spine né sporgenze presenti invece in quelli di altri primati, ma non è ancora chiara quale pressione selettiva abbia portato alla perdita dell’osso.
«Agli esseri umani manca una sequenza di DNA che controlla la produzione di una proteina responsabile degli effetti di alcuni ormoni come il testosterone», sintetizza Willingham. La proteina viene prodotta, ma non durante il periodo di tempo embrionale in cui si formerebbero le spine sul pene se invece avessimo quella sequenza di DNA responsabile. Per questa stessa mancanza non abbiamo i peli tattili (le vibrisse) invece presenti sul muso di altri primati. E questa sequenza di DNA ci accomuna ai nostri parenti estinti più vicini: l’Homo neanderthalensis e l’Homo di Denisova, scomparsi circa 40mila anni fa. Una delle ipotesi per spiegare l’assenza di spine sul pene è che questa mancanza sia legata ai probabili scambi genetici tra queste diverse specie di Homo e ne abbia favorito gli incroci.
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