Il problema delle donne nel PD arriva da lontano
Perché l'assenza di ministre espresse dal principale partito progressista italiano non è sorprendente, secondo le femministe
di Giulia Siviero
La delegazione interamente maschile scelta dal Partito Democratico per il governo Draghi – tre ministri uomini su tre – ha fatto riemergere per alcuni giorni il dibattito sul sessismo e il maschilismo che storicamente percorrono la politica e le istituzioni in Italia. La discussione, fuori e dentro il PD, è girata quasi esclusivamente intorno alla distribuzione non equa degli incarichi dal punto di vista del genere: da una parte chi non li ha “concessi”, dall’altra chi non avrebbe fatto abbastanza per ottenerli.
Ma la storia e l’evoluzione di quello che si autorappresenta come principale partito progressista italiano, come racconta chi ne fa parte o l’ha osservato da vicino nei suoi quasi quindici anni di storia, in realtà spiega bene le origini e le cause della mancata indicazione di ministre. E non è affatto sorprendente, dicono le femministe, che sia stato questo l’esito delle pratiche che le donne in politica hanno – e soprattutto non hanno – attuato per trasformare istituzioni strutturalmente dominate dagli uomini.
La politica italiana ha sempre marginalizzato le donne
Nelle classifiche sulle discriminazioni di genere i punteggi dell’Italia sono inferiori a quelli della media europea in quasi tutti i settori, ma le disuguaglianze sono più marcate nei settori che sono più espressione del potere, che sia decisionale, politico o economico.
Nonostante l’Italia repubblicana abbia quasi mille parlamentari, ci sono voluti quasi trent’anni e sette legislature per avere più di 50 donne in Parlamento. Per avere più di cento donne è stato necessario aspettare il 1987, mentre solo nel 2006 sono state più di 150. Un salto in avanti è avvenuto nel 2013, quando la presenza femminile nel Parlamento italiano è salita dal 19,5 per cento della XVI legislatura al 30,1 per cento della XVII legislatura. La tendenza si è rafforzata con le elezioni del 2018, quando una legge elettorale – il cosiddetto “Rosatellum” – per la prima volta si è posta l’obiettivo di promuovere la parità di genere nella rappresentanza politica. Nell’attuale legislatura la percentuale di donne in Parlamento è intorno al 35 per cento. Il maggior numero di donne è stato eletto dal Movimento 5 Stelle, seguito da Forza Italia e poi dal PD.
I dati mostrano però un’altra cosa: questo lento e insufficiente miglioramento numerico – le donne sono la maggioranza della popolazione – non si è tradotto automaticamente in un aumento del potere delle donne in politica. All’interno di un nuovo contesto quantitativamente più equilibrato di prima, le posizioni di vertice sono rimaste un grosso problema.
Nell’intera storia repubblicana nessuna donna è mai stata presidente della Repubblica né presidente del Consiglio. Per avere un’idea dello squilibrio: se da qui alla fine del secolo ci fossero soltanto donne presidenti della Repubblica, la situazione sarebbe appena in parità. La carica di presidente della Camera è stata ricoperta da una donna solo in cinque legislature (con Nilde Iotti, Irene Pivetti e Laura Boldrini), mentre una sola donna fin qui è stata presidente del Senato (Maria Elisabetta Alberti Casellati, dal 2018). Nessuna donna, in Italia, ha mai guidato commissioni parlamentari che si occupano di economia e finanza. Nelle commissioni parlamentari di inchiesta – bicamerali e monocamerali – su un totale di 99 presidenti le donne sono state 11.
Perché una donna venisse nominata ministra si dovette aspettare il 1976 (Tina Anselmi). Su oltre 1.500 ministeri dei 67 governi della Repubblica, le donne ne hanno ottenuti 100 (governo Draghi compreso). E di questi cento, la metà sono stati incarichi senza portafoglio. Alle donne sono stati affidati incarichi prevalentemente nei settori sociali, della sanità e dell’istruzione, a loro stereotipicamente associati. Nessuna donna in Italia è mai stata ministra dell’Economia e delle Finanze.
La questione maschile dentro al PD
Nei suoi documenti fondativi, il Partito Democratico usò parole ambiziose e inclusive: il “Manifesto dei Valori” sostiene che la libertà delle donne «sta cambiando il mondo», che le donne «si collocano al centro del ripensamento profondo che è in atto» e che per questo bisogna «aprire le porte alle donne dando loro non solo gli stessi diritti ma anche le stesse opportunità in tutti i campi, compresa la politica». Il “Codice Etico” impegna teoricamente il partito ad assumere «la democrazia paritaria come criterio di comportamento» e ciascun paragrafo inizia con la formula «le donne e gli uomini del Partito Democratico». Lungo il testo viene rispettato un linguaggio inclusivo («le elette e gli eletti»), ma fino a un certo punto: riferendosi alla dirigenza del partito, la carica viene nominata esclusivamente al maschile («ciascun dirigente»).
La svista in effetti ha trovato concretezza. Il primo atto formale verso la costituzione del PD fu la nomina, nel maggio del 2007, di un Comitato promotore di cui facevano parte 45 membri e che venne da subito criticato per la scarsa presenza di donne (poco più di un terzo) e di giovani. Marina Sereni, che era tra i 45, ammise che «la presenza delle donne nel nuovo organismo» era «un bicchiere mezzo pieno». Due mesi dopo vennero ufficializzate le candidature per la segreteria nazionale e tra queste c’era quella di Rosy Bindi, che perse. Dopo di lei solamente un’altra donna decise di candidarsi alla segreteria del Partito Democratico: Laura Puppato nel 2012.
Il partito non ha mai avuto una donna segretaria, e le polemiche sulla scarsità di presenze femminili nelle liste elettorali e negli organismi dirigenti lo hanno attraversato fin dall’inizio. «Il potere è sempre stato saldamente maschile» racconta la deputata del PD Giuditta Pini, che in queste ultime settimane si è esposta molto sulla questione di genere. «C’è un enorme problema: le donne non riescono quasi mai a passare, e quando si arriva alle cariche monocratiche più significative tutto si blocca. Attualmente ci sono un segretario, un vice segretario, un tesoriere, un responsabile organizzazione, due capigruppo uomini, un presidente della conferenza stato regioni, e un presidente dell’ANCI. Il PD è insomma molto conservatore, lo è sempre stato su questo tema, e ora stanno esplodendo contraddizioni che si trascinavano da tantissimo tempo».
Ida Dominijanni, giornalista e filosofa femminista, dice di non essere sorpresa più di tanto dalla mancata nomina di ministre del PD, «non perché il PD sia particolarmente misogino: lo stesso Nicola Zingaretti si è dimostrato sensibile a parecchie istanze femminili e femministe come presidente della regione Lazio. Ma perché c’è un automatismo maschile nella trasmissione del potere, e non mi pare che le donne del PD facciano alcuna pratica efficace per contrastarlo e arrivare ai vertici, ammesso e non concesso che arrivare ai vertici sia un obiettivo così irrinunciabile».
La questione femminile dentro al PD
Le donne del PD si sono organizzate fin dall’inizio creando uno spazio di discussione separato, la “Conferenza delle Democratiche”, a un certo punto scomparsa e poi ripristinata di recente, con Cecilia D’Elia come portavoce. La Conferenza si definisce «un luogo di elaborazione politica, di progetti di cambiamento e di promozione della libertà e autonomia delle donne, di contrasto alle disuguaglianze». Nelle ultime settimane se ne è parlato perché ha prodotto un documento, il “Woman New Deal”, in vista del programma di investimenti che sarà presentato alla Commissione europea nell’ambito del Next Generation EU.
Lo strumento della Conferenza ha incontrato però diverse perplessità interne, ed è stato giudicato sostanzialmente irrilevante. Pini non vi ha aderito, per esempio, perché non crede «che possa essere utile, soprattutto in questo momento storico. Temevo che sarebbe successo quello che poi è realmente accaduto: che ci si chiudesse a discutere tra donne di una questione femminile che invece dovrebbe coinvolgere tutto il partito». Cristiana Alicata, scrittrice e attivista che è stata a lungo dentro al PD, ha recentemente proposto di abolirla del tutto. «Le donne non sono un tema delle donne, sono un tema di tutti, se ne parli su un unico tavolo», dice.
Quando faceva parte del partito, ricorda Alicata, «i primi a capire che dietro questi tavoli separati c’era una fregatura, starsene a giocare lontano mentre i maschi vecchi decidevano, fummo noi gay e lesbiche. Da quei tavoli usciva “la candidata lesbica”, e dal tavolo delle donne usciva “la candidata donna”. Volevamo invece che la nostra battaglia diventasse di tutti. Abbiamo dunque cambiato il paradigma: ci siamo alzati da quel tavolo e ci siamo seduti al tavolo vero. Siamo andati a parlare con chi deteneva il potere, e qualcosa la portammo a casa, vedi alla voce unioni civili. Chiedemmo una legge, chiedemmo pratiche, non chiedemmo rappresentanza in quanto gay: e alla fine il posto dove si parlava di gay era diventato il partito».
La consulta delle donne, aggiunge, ha anche un altro problema che in molte e molti hanno rilevato in questi ultimi giorni: «Non è governata da donne che si autogestiscono: è una replica del sistema di potere delle correnti maschili. Ed è in ragione di quella quota che le donne hanno occupato lo spazio nella Conferenza».
Sembrano questi i punti centrali della questione, legati tra loro: la replica tra le donne di un certo “sistema di potere” più generale del partito, e soprattutto le “quote” intese non (semmai) come strumento per dare spazio alle politiche per le donne, ma come obiettivo auto-conclusivo, come fine e non come mezzo. Uno strumento “farisaico”, come ha detto qualche giorno fa l’ex parlamentare del PD Anna Finocchiaro: quote di fedeltà alle correnti maschili.
Fin dall’inizio della sua storia, insomma, il PD ha messo al centro la parità intesa in senso quantitativo: questa è tra l’altro una delle ragioni del grande scandalo provocato dall’assenza di ministre donne, a fronte di un partito da sempre complessivamente e pacificamente dominato soltanto da uomini. Le conquiste raggiunte sono state probabilmente ritenute sufficienti da molte delle donne del partito, o comunque non si è pensato che fosse necessario cambiare l’organizzazione del potere: semmai continuare a chiedere a quel potere maschile l’elargizione di una maggiore rappresentanza in cambio di fedeltà.
Il femminismo ha già risposto
Non è una cosa nuova, naturalmente, perché il femminismo ha riflettuto a lungo su queste questioni. I femminismi, intanto, sono molti: ma semplificando si può individuare una divisione avvenuta dopo gli anni Sessanta e Settanta. Da una parte il “femminismo autonomo” (o “femminismo della differenza”). Dall’altra il cosiddetto “femminismo della parità” (o “femminismo di stato”), che deriva a sua volta dalla prima ondata del movimento delle donne, quello emancipazionista dell’Ottocento, un processo di emancipazione femminile inteso cioè come lotta per l’uguaglianza e per l’inclusione portata avanti in nome dell’universalità e dei diritti neutri promessi dalla modernità.
La divisione si formò quando le istituzioni pubbliche interpretarono – come continuano a fare oggi – il movimento delle donne nel senso esclusivo di una richiesta femminile di maggiore parità e uguaglianza. Il femminismo della differenza contesta questo meccanismo, sostenendo che la parità come principio formale ha funzionato cancellando la differenza femminile senza risolvere, tra l’altro, le discriminazioni che hanno continuato ad agire negli spazi della vita, del lavoro e così via. La politica dei diritti presuppone poi sempre un potere che può farli valere, e che può decidere, a un certo punto che non valgono più.
Luisa Muraro, una delle principali teoriche del femminismo autonomo italiano, racconta che quando molte donne «si sollevarono», tra gli anni Sessanta e Settanta, anche sullo slancio del Sessantotto e dei movimenti pacifisti, la società, la politica e la cultura «hanno registrato questo cambiamento che era in corso e hanno risposto». Ma come? «Le istituzioni pubbliche, e l’Europa unita, hanno risposto secondo le proprie logiche, che erano emancipazioniste. Quindi hanno modellato un femminismo di stato basato sulle quote e sulla domanda di parità, e che ha messo al centro della propria azione la spartizione del potere».
Quella logica era dominata dal principio di uguaglianza formale ed omologante. Uno dei primissimi documenti femministi italiani (Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi, del 1970) chiedeva invece altro, dice ancora Muraro: «Il femminismo autonomo partiva dall’assunto che l’uguaglianza fosse qualcosa di ovvio e che fosse necessario affermare che le donne non aspiravano a diventare come gli uomini o ad avere quello che hanno loro: desideravano vivere in nome della loro differenza. Era un femminismo che rispondeva a una presa di coscienza e alla pretesa della differenza della libertà delle donne».
Il femminismo autonomo ha dunque messo al centro della discussione non il concetto di parità ma quello di differenza: non negando la parità dei diritti, ha lavorato sulla differenza femminile, sulla presa di coscienza della differenza dell’essere donna. «Il femminismo italiano ha questa caratteristica. Ha teorizzato la differenza e ha criticato l’emancipazione. Ha teorizzato che per fare politica insieme agli uomini fosse importante una presa di coscienza maschile sul potere [cioè su come il sistema del potere fosse stato costruito e gestito secondo paradigmi maschili, ndr], e che dall’altra parte per agire politicamente non fosse necessario cercare né i posti né i mezzi di quel potere».
Muraro spiega che questa situazione (femminismo della parità vs femminismo della differenza) si è poi stabilizzata. «La politica dei partiti si è preoccupata della presenza delle donne nelle istituzioni, ma in un modo ambiguo: si è preoccupata di far posto alle donne, cioè che fossero i maschi a doverle aiutarle, senza che vi fosse una presa di coscienza maschile sulla necessità della non unilateralità nel governo della cosa pubblica».
Secondo Muraro, «le donne nei partiti come il PD si sono abituate a pensare che non ci fosse più da lottare, che le donne dovessero essere come gli uomini, che la politica fosse comando, e che quel comando dovesse essere spartito o conquistato secondo le regole stabilite». Adesso, continua, quelle donne reclamano quel tipo di comando: «e invece si sono viste bocciate, e si lamentano perché davano per scontato che più si fosse andate avanti e più loro sarebbero state promosse: automaticamente».
«Sono rimasta sbalordita dalla loro sorpresa: nel momento in cui c’era da stare dalla parte delle donne, dov’eravate? Cos’avete fatto in questo periodo? Che lo dicano. Non che io trovi buono il comportamento maschile, ma a me che vengano fatte delle ministre non interessa, mi interessa che facciano la politica delle donne, cioè una politica che non confonde autorità e potere. E chiedo: l’hanno fatta?».
Dominijanni concorda: «Fin dagli anni Settanta il femminismo della differenza lavora sulla critica qualitativa degli assetti patriarcali, su come cambiare le forme tradizionali della politica e sull’invenzione di nuove pratiche. Oggi invece la questione di genere è tornata ad essere l’antica questione femminile intesa esclusivamente come questione sociale: rivendicazioni contro le discriminazioni e le disuguaglianze, certo rese necessarie dai costi pagati dalle donne al neoliberismo, ma niente di più della politica emancipazionista pre-femminista. Si chiede soltanto parità e spartizione del potere, delle chance, delle carriere. Ma in questo modo, senza una pratica di critica della politica tradizionale e di conflitto con gli uomini, come s’è visto non può funzionare».
Donne di destra e donne di sinistra
Di fronte alla mancata nomina di ministre del PD, si è parlato molto del protagonismo femminile che è stato invece premiato a destra. Forza Italia esprime due ministre su tre e la prima donna presidente del Senato, mentre entrambe le sue capogruppo sono donne. La Lega ha una ministra. L’unica donna leader di partito in Italia è Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia.
Anche questo non è un tema nuovo. Durante un incontro pubblico organizzato dal mensile Noidonne nel 1994, si disse che «l’emancipazione, in quanto fenomeno di massa» aveva «portato vantaggi a tutte». Quando Umberto Bossi portò Irene Pivetti alla presidenza della Camera, rivendicò il fatto che fosse giovane, cattolica e donna, dimostrando una capacità di interpretare il cambiamento piegandolo verso la propria direzione.
«La questione del protagonismo premiato a destra e non a sinistra risale all’inizio degli anni Novanta» racconta Dominijanni. «A modo suo, cioè molto malamente, la destra ha risposto al protagonismo femminile: pensiamo al modo perverso in cui Berlusconi ha “valorizzato” le donne mettendole al centro dello scambio fra sesso e potere. O al modo in cui la Lega e Fratelli d’Italia hanno ritirato fuori i valori tradizionali della maternità e della famiglia. Più in generale, a destra il protagonismo femminile è stato interpretato in senso individualistico e auto-imprenditoriale, coerentemente con l’etica neoliberista e in assenza di una tradizione di politiche di genere. Le donne della sinistra ufficiale invece, che pure avevano alle spalle una tradizione di lotte femminili collettive, non l’hanno saputa adeguare ai cambiamenti della soggettività e della società. Sono rimaste ferme all’ideologia della parità, cioè della neutralità e dell’indifferenziazione rispetto agli uomini, senza produrre pratiche significative».
“Dalle donne la forza delle donne”
Ida Dominijanni ricorda che alla fine degli anni Ottanta vi fu un’interlocuzione feconda tra le donne della sinistra ufficiale e il femminismo radicale: «La critica della rappresentanza e della prospettiva paritaria, e la pratica della relazione tra donne furono materia di un’elaborazione articolata, che nell’allora PCI portò alla scrittura della Carta delle donne e a un tentativo importante di innovazione, concettuale e programmatica».
Lo slogan, allora, era “dalle donne la forza delle donne”, «una prospettiva completamente diversa da quella della spartizione paritaria, che rompeva alcune rigidità della politica maschile, a cominciare dalla rigidità correntizia. È davvero singolare che di quella stagione non ci sia oggi memoria alcuna fra le donne del PD, che pure dovrebbero riconoscerla come parte della loro storia. Sembrano non avere consapevolezza di quella stagione che pure fa parte della loro storia».
«Questo ricominciare sempre da capo è sbagliato», conclude Dominijanni, «perché non fa tesoro di niente, non costruisce genealogia femminile, e anzi: fa male alle donne, rappresenta la loro condizione come sempre al grado zero e costringe, ogni volta, a ripartire daccapo».