Più di 6mila migranti sarebbero morti in Qatar negli ultimi dieci anni
In gran parte erano operai che lavoravano alla costruzione delle infrastrutture per i Mondiali di calcio del 2022, scrive il Guardian
Secondo una recente analisi del Guardian, dal 2010 al 2020 più di 6.500 migranti sarebbero morti in Qatar, molti dei quali impegnati nella costruzione degli stadi e delle infrastrutture per i Mondiali di calcio che del 2022. Non è la prima volta che la stampa internazionale si occupa delle pessime condizioni di lavoro in Qatar, dei lavoratori sfruttati per la preparazione dei Mondiali, delle misure di sicurezza insufficienti e delle morti tra gli operai.
La monarchia del Qatar e il comitato organizzatore dei Mondiali hanno sempre respinto tutte le accuse. Secondo gli organizzatori, smentiti da numerose inchieste, a oggi sarebbero morte solamente 37 persone che lavoravano alla costruzione degli stadi, e che per 34 di loro la morte non sarebbe collegata al lavoro.
I dati usati dal Guardian sono stati forniti da India, Bangladesh, Sri Lanka e Nepal, i principali paesi di provenienza dei migranti che lavorano in Qatar. L’analisi prende in considerazione i migranti morti a partire dal 2010 perché quello è stato l’anno in cui il Qatar si aggiudicò i Mondiali. A partire da allora, migliaia di migranti sono arrivati dai paesi vicini per lavorare alle moltissime opere che il Qatar avrebbe dovuto costruire da zero in vista dei Mondiali. Oggi si stima che siano circa 2 milioni i migranti che lavorano nel paese (di cui quasi un milione impiegati nell’edilizia e 400mila nei lavori domiciliari come colf e badanti).
Il Guardian ha scritto che i morti potrebbero essere anche molti più di 6mila, poiché i numeri ufficiali non tengono conto dei migranti che arrivano da altri paesi che non hanno fornito dati, come Filippine e Kenya. I 6.500 contati dal Guardian sono comunque di gran lunga molti più di quelli che nel 2014 furono stimati da un rapporto della International Trade Union Confederation (ITUC), la più grande federazione sindacale al mondo, intitolato “Le accuse contro il Qatar”. In quell’occasione l’ITUC stimò che prima dell’inizio dei Mondiali del 2022 sarebbero morti sul posto di lavoro circa quattromila operai immigrati.
Secondo i dati del Guardian, il 69 per cento delle morti dei migranti indiani, nepalesi e bengalesi è stata attribuita a “cause naturali”, e tra i soli indiani questa percentuale è dell’80 per cento. Il Guardian, che più volte in passato si era occupato delle condizioni di lavoro dei migranti in Qatar, spiega che nella maggior parte dei casi i morti non vengono sottoposti a nessuna autopsia, così che nei referti medici non possa essere scritto se siano morti in un contesto lavorativo.
In molti casi a causare la morte dei migranti sarebbe il grande caldo che fa d’estate in Qatar. Le difficili condizioni lavorative legate al caldo erano già state denunciate in un rapporto del 2019 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro dell’ONU.
Il governo del Qatar non ha smentito le cifre riportate dall’analisi del Guardian, ma tramite un portavoce ha fatto sapere che il numero dei morti è proporzionato al numero di migranti che lavorano nel paese, che include anche i dirigenti stranieri morti per cause naturali.
Il comitato organizzatore dei Mondiali ha invece commentato l’analisi dicendo di «aver sempre mantenuto la trasparenza su questo problema e contestato affermazioni imprecise sul numero di lavoratori morti nei nostri progetti»; un portavoce della FIFA, l’organo che governa il calcio mondiale, ha detto che la federazione è sempre impegnata a proteggere i diritti dei lavoratori e che «la frequenza degli incidenti nei cantieri dei Mondiali di calcio è stata bassa rispetto ad altri importanti progetti di costruzione in tutto il mondo». Il portavoce della FIFA non ha però fornito prove a sostegno di quest’ultima affermazione.
Anche a causa delle molte critiche ricevute negli ultimi anni per la condizione dei lavoratori migranti, lo scorso agosto il governo del Qatar aveva approvato un’attesa riforma del lavoro che prevedeva un salario minimo e consentiva a tutti i lavoratori di cambiare lavoro senza dover chiedere permesso alla propria azienda. Sembra una conquista di poco conto, ma non lo è. In Qatar infatti era in vigore il sistema della kafala, diffuso anche in altri paesi come ad esempio il Libano, che consentiva al lavoratore di iniziare un’altra occupazione solo dopo aver ottenuto un certificato di non-obiezione da parte del precedente datore di lavoro.