Come si è arrivati a questo punto, nella Repubblica Democratica del Congo
Da decenni nel paese ci sono guerre e conflitti etnici, in particolare nella regione dove è stato ucciso l'ambasciatore Luca Attanasio
La provincia di Kivu Nord, nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), dove lunedì sono stati uccisi l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista dell’auto su cui i due viaggiavano, Mustapha Milambo, fa parte di un’ampia area a est del paese in cui da molti decenni ci sono guerre, conflitti etnici e invasioni territoriali da parte degli stati confinanti.
L’attacco contro il convoglio su cui viaggiava la delegazione di Attanasio per ora non è stato rivendicato e ci sono numerose ipotesi su chi potrebbe esserne stato l’autore: da gruppi ribelli, che spesso hanno una distinzione etnica, a gruppi islamisti, che da qualche anno hanno fatto il loro ingresso nel paese. L’instabilità, lo scarso controllo da parte dello stato e la frammentazione della regione hanno origine nella storia della RDC e sono legate alle sue eccezionali ricchezze minerarie: in tutta la zona orientale del paese si trovano alcuni dei giacimenti più grandi del mondo di rame, cobalto, zinco, alluminio, diamanti e oro. Alcuni di questi minerali sono difficili da trovare altrove, ed essenziali per processi produttivi molto importanti nelle economie moderne.
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La Repubblica Democratica del Congo nacque come Stato Libero del Congo nel 1885 quando, alla Conferenza di Berlino, le principali potenze coloniali europee attribuirono un enorme territorio al centro del continente africano e corrispondente al bacino del fiume Congo a re Leopoldo II del Belgio, come proprietà personale. Il governo coloniale di Leopoldo II fu uno dei più brutali della storia moderna: la popolazione locale fu sfruttata in maniera inumana soprattutto per la raccolta della gomma, e mentre Leopoldo divenne enormemente ricco si stima che in Congo morì tra un milione e 15 milioni di persone.
Anche a causa delle atrocità, nel 1908 il Parlamento belga votò per togliere il Congo a Leopoldo II e per farne una colonia tradizionale. Il Belgio governò sul Congo, senza gli eccessi di violenza dell’amministrazione di Leopoldo II ma comunque in maniera repressiva, fino al 1960, quando l’attivista Patrice Lumumba vinse le prime elezioni libere nella storia del paese e fu nominato primo ministro. Il governo di Lumumba durò soltanto pochi mesi: nello stesso anno fu arrestato dal colonnello Joseph Mobutu e consegnato a un gruppo di separatisti sostenuti dal Belgio, che lo fucilarono nel 1961. Soltanto 40 anni dopo il Belgio riconoscerà la «responsabilità morale» della morte di Lumumba, e chiederà scusa.
Seguì un periodo di conflitti interni, finché nel 1965 Mobutu prese definitivamente il potere, sostenuto dal Belgio ma soprattutto dagli Stati Uniti che, in piena Guerra fredda, videro nell’anticomunista Mobutu un alleato. Mobutu rinominò il paese Zaire e lo governò in maniera dittatoriale, reprimendo con violenza il dissenso e istituendo un culto della personalità, fino allo scoppio della Prima guerra del Congo, che diede inizio a una lunga serie di conflitti durati praticamente un decennio.
Questi conflitti interessarono prevalentemente l’est del paese, sia per la sua ricchezza mineraria sia per la sua posizione geografica, al confine con Uganda, Ruanda e Burundi, tra gli altri.
La guerra fu provocata da un fattore esterno: il genocidio in Ruanda del 1994, in cui morirono centinaia di migliaia di persone in gran parte di etnia Tutsi. Circa due milioni di persone fuggirono in Zaire a seguito del genocidio, ma non le vittime: nel paese si rifugiarono il governo di etnia Hutu autore del genocidio e milioni di persone Hutu, con le loro famiglie e le loro armi, dopo che Paul Kagame, guerrigliero Tutsi e in seguito presidente, era riuscito a prendere il controllo del Ruanda. Gli Hutu, dallo Zaire, formarono gruppi ribelli che mettevano in pericolo il confine.
Nel 1996 il governo di Kagame invase lo Zaire: inizialmente per perseguire gli autori del genocidio che vi erano rifugiati, ma ben presto con l’intento di conquistare ampie regioni a est del paese, con le loro vaste risorse. Nel 1997 un esercito alleato formato da soldati di Ruanda e Uganda (a cui in seguito si unirono Angola, Burundi ed Eritrea) marciò fino a Kinshasa, la capitale dello Zaire, assieme a un esercito ribelle locale guidato da Laurent Kabila. Mobutu fu costretto alla fuga e morì in esilio in Marocco pochi mesi dopo. Kabila divenne presidente, ma il suo governo rimase sotto la tutela del Ruanda. Nella guerra morirono centinaia di migliaia di persone, e ci furono numerosi massacri di civili, compiuti soprattutto per ragioni etniche.
Laurent Kabila rinominò il paese Repubblica Democratica del Congo, e dopo pochi mesi cercò di liberarsi dalla tutela del Ruanda: cacciò il capo dell’esercito, un ruandese nominato da Kagame, e nel luglio del 1998 ordinò a tutte le forze ruandesi e ugandesi di uscire dal paese. Pochi mesi dopo il Ruanda invase di nuovo la RDC, a sostegno di una ribellione dell’etnia dei Banyamulenge nella regione di Goma, ancora una volta a est del paese. La Seconda guerra del Congo divenne ben presto un conflitto di scala continentale, con Ruanda, Uganda e Burundi da un lato, a sostegno dei ribelli Banyamulenge, e dall’altro un’ampia coalizione a sostegno del presidente Kabila, composta da Angola, Ciad, Sudan, Repubblica Centrafricana, Zimbabwe, Namibia e Libia. A questi schieramenti di livello statale si unirono decine di gruppi armati, spesso divisi dall’appartenenza etnica, con interessi diversi.
La guerra, inoltre, ben presto smise di avere come obiettivo la difesa o l’abbattimento del governo di Kabila e divenne un terribile conflitto di forze e milizie per il controllo delle grandi risorse minerarie dell’est del paese. Laurent Kabila fu ucciso nel 2001 dalla sua guardia del corpo, e fu sostituito da suo figlio Joseph.
La Seconda guerra del Congo finì nel 2003, quando tutte le parti belligeranti erano ormai stremate, e dopo un lungo negoziato favorito dall’ONU. Nella RDC fu stanziata la più grande missione di Caschi blu del mondo, composta da 18 mila soldati. La guerra fu violentissima, si stima che siano morti tra i due e i cinque milioni di persone, numeri che ne farebbero la guerra con più vittime dai tempi della Seconda guerra mondiale. Moltissime di queste vittime furono civili, coinvolti in operazioni di razzia, stupri di massa e massacri etnici.
Nella RDC fu istituito un governo di transizione e, dopo alcuni conflitti interni, nel 2006 Joseph Kabila vinse le elezioni, considerate abbastanza libere dagli osservatori internazionali.
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Nell’est del paese, però, le violenze non sono mai davvero terminate, per numerose ragioni tra cui, ancora una volta, la ricchezza mineraria, oltre alla continua ingerenza degli stati confinanti e alla presenza, dopo anni di guerra, di numerose milizie armate e di divisioni etniche profondissime: anzitutto tra Tutsi e Hutu, le cui comunità nella regione sono molto forti, ma non solo.
Tra il 2004 e il 2008 un gruppo armato comandato dal generale Laurent Nkunda occupò il Parco nazionale dei Virunga e alcune zone minerarie circostanti e scatenò una ribellione nelle province di Kivu Nord e Kivu Sud, che richiese molteplici interventi dell’esercito congolese (oltre che degli stati confinanti) per essere soppressa.
Nel 2012 un altro leader guerrigliero che faceva parte del gruppo di Nkunda, Bosco Ntaganda, organizzò una rivolta armata molto violenta nel Kivu Nord, nota come M23 (da Movimento del 23 marzo). La rivolta fu sedata nel giro di un anno, grazie anche all’intervento dell’ONU, ma provocò moltissime vittime, e Bosco Ntaganda fu condannato in seguito dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Nel nord-est del paese, nella provincia dell’Ituri, è in corso un conflitto etnico molto violento cominciato durante la Seconda guerra del Congo e proseguito fino a oggi, a bassa intensità. Nel sud-est, invece, a partire dal 2011 la milizia Mai Mai, inizialmente creata da Laurent Kabila, si trasformò in una forza ribelle che chiedeva la secessione della regione del Katanga e che negli anni è stata protagonista di diverse operazioni militari: la più clamorosa avvenne nel 2013, quando i ribelli quasi conquistarono Lubumbashi, la capitale della provincia e la seconda città della RDC.
Questi sono soltanto i conflitti più noti e importanti che interessano l’est della RDC, ciascuno dei quali ha contribuito a generare instabilità e a lasciare sul terreno migliaia di sfollati e gruppi armati che si contendono il controllo di aree del territorio, mantenendo in alcune zone una situazione di conflitto permanente a bassa intensità. Questo senza contare le ingerenze degli stati confinanti e di gruppi armati provenienti dall’estero, come per esempio l’Esercito di Resistenza del Signore, il gruppo ribelle armato guidato da Joseph Kony, nato in Uganda ma attivo per molti anni nella RDC. Oggi, nella regione, i gruppi armati attivi sono decine.
Le Baromètre sécuritaire du Kivu publie aujourd’hui un rapport sur la nouvelle cartographie des groupes armés dans l’Est de la #RDC. Au total, nous avons identifié 122 groupes armés différents et publions une description de chacun. https://t.co/Ewof0xzFKk pic.twitter.com/fhOTFQYNMX
— Baromètre sécuritaire du Kivu (@KivuSecurity) February 22, 2021
A partire dal 2019, inoltre, la regione è stata infiltrata da gruppi islamisti, in particolare lo Stato Islamico, a cui avrebbero giurato fedeltà alcune milizie locali. Negli ultimi anni, attraverso i suoi canali ufficiali, lo Stato Islamico ha rivendicato vari attacchi e attentati a chiese e villaggi locali.
L’instabilità della regione e le condizioni precarie della popolazione locale sono state anche tra le cause di una grave epidemia di Ebola che ha interessato soprattutto Kivu Nord nel 2019: con oltre 1.000 morti, è stata la seconda epidemia più grande registrata finora, dopo quella in Africa occidentale nel 2016.
A livello centrale, la situazione della RDC rimane instabile. Joseph Kabila, eletto nel 2006, fu riconfermato nel 2012 in elezioni considerate meno libere di quelle precedenti. Nel 2016 la Costituzione gli avrebbe imposto di lasciare il potere dopo due mandati, ma lui rimase presidente, senza indire nuove elezioni. Nacquero grandi proteste popolari, che inizialmente Kabila cercò di reprimere con la violenza, per poi accettare un compromesso e indire nuove elezioni nel dicembre 2018. Le vinse a sorpresa Félix Tshisekedi dell’Unione per la democrazia e il progresso sociale, il più grande partito congolese, in elezioni che secondo molti osservatori furono caratterizzate da brogli.
Tshisekedi per due anni circa è stato un candidato di compromesso, perché la maggioranza parlamentare è rimasta controllata di Kabila, fino a gennaio di quest’anno, quando alcune centinaia di parlamentari congolesi del partito di Kabila, il Fronte comune per il Congo, hanno cambiato formazione e si sono uniti a una coalizione promossa da Tshisekedi, l’Unione sacra. Il primo ministro, un alleato di Kabila, e molti ministri fedeli al vecchio presidente si sono dimessi, e sarà nominato un nuovo governo più fedele a Tshisekedi.