A settembre dello scorso anno, quando le hanno detto che avrebbe dovuto essere operata per la seconda volta a causa di un astrocitoma, un tumore che attacca le cellule del cervello, Marika Frapiccini non pensava che l’assenza delle persone care sarebbe stata così pesante. Frapiccini, 30enne di Porto Recanati, nelle Marche, era già stata sottoposta a un intervento nel 2016, e per un certo periodo sembrava che le cose stessero andando meglio. L’emergenza coronavirus l’ha privata del sostegno della sua famiglia, in ospedale. Rispetto a quattro anni prima, quando era stata operata la prima volta, Frapiccini non ha potuto avere nessuno vicino a sé. «Mia mamma è stata con me fino all’ingresso dell’istituto neurologico Carlo Besta di Milano, dove sono stata operata. Sono entrata da sola e sono uscita da sola».
Da un anno ormai l’epidemia da coronavirus sta causando conseguenze concrete e preoccupanti alla complessa assistenza nei confronti dei malati con un tumore. Già da tempo molti esperti dicono che gli effetti delle misure restrittive hanno compromesso la prevenzione, essenziale per evitare diagnosi tardive; ma questo è solo uno dei tanti problemi che hanno coinvolto 3,6 milioni di italiani con una diagnosi di cancro.
Di tutte queste persone, solo una parte sta affrontando un tumore maligno nella sua fase più delicata, quella che prevede interventi chirurgici e terapie. Le chiusure dei reparti, i rinvii degli esami e la generale emergenza negli ospedali italiani hanno interessato anche coloro che sono considerati guariti e devono soltanto sottoporsi a controlli per prevenire eventuali recidive.
Le conseguenze sulla socialità dei malati, soprattutto la solitudine forzata, non sono meno preoccupanti. Non è una condizione totalmente nuova, per chi è già sottoposto a cure debilitanti e che abbassano le difese immunitarie. Eppure negli ultimi mesi l’isolamento ha comportato sforzi ulteriori.
La minaccia del coronavirus ha limitato la possibilità di essere abbracciati, ascoltati e confortati: un’urgenza significativa quando aspettative e progetti sono limitati dall’incertezza che il tumore porta con sé. È solo uno dei tanti problemi, spesso sottovalutati, che emergono se si allarga l’attenzione all’assistenza sanitaria nel suo complesso, oltre l’impatto della COVID-19 che pur ha coinvolto direttamente quasi tre milioni di persone nell’ultimo anno, secondo le stime ufficiali.
Per i malati, gli effetti immediati delle misure restrittive sono stati un cambio di abitudini, dentro e fuori dagli ospedali, con procedure di accesso più complesse e faticose, anche solo per la necessità di sottoporsi ai tamponi e attenderne gli esiti. Il cambiamento più gravoso, però, è stato doversi abituare all’assenza di persone che i malati vedevano quasi tutti i giorni.
Durante la sua prima operazione, a Marika Frapiccini era stato rimosso il 98% del tumore e i controlli dicevano che la malattia era sotto controllo. I medici le avevano detto che la frequenza dei controlli sarebbe passata da sei a dieci mesi. Lo scorso anno, a settembre, una risonanza ha rilevato che il tumore era tornato. «Ha trovato uno spiraglio ed è ricresciuto. È aumentato di grado, ora è al terzo stadio. Speriamo si fermi qui», spiega Frapiccini.
Quando si è svegliata dopo l’operazione, Frapiccini ha dovuto recuperare da una paralisi che ha interessato metà del suo corpo. Ha svolto la riabilitazione in un’altra struttura prima di tornare all’istituto Carlo Besta dove ha iniziato la radioterapia e la chemioterapia. «Svegliarsi da un’operazione senza avere al tuo fianco qualcuno che conosci è una batosta, anche per me che sono abituata a questi interventi. Non riesco a immaginare come avrei potuto affrontare questa solitudine, dopo la prima operazione».
In ospedale, Frapiccini ha trovato la complicità di medici e infermieri che nonostante l’emergenza le hanno riservato cure e attenzioni. «Cercavo di fare tutte le cose da sola, ma era impossibile. Sei costretto a diventare complice delle uniche persone che ti circondano, anche se non le conosci. Il coronavirus e quello che mi è successo mi hanno insegnato a non programmare più nulla. Faccio subito quello che voglio fare, senza dare nulla per scontato».
Anche l’attività delle tantissime associazioni che aiutano i malati di cancro si è parzialmente fermata: per i volontari non è stato più possibile entrare nei reparti per stare vicino ai pazienti, seguirli dopo le delicate operazioni chirurgiche o fare loro compagnia durante le sedute di chemioterapia.
Paola Cornero è presidente dell’associazione “Amiche per mano”, un gruppo di donne malate di tumore al seno che tornano nei reparti dove sono state operate per dare conforto ad altre donne nella fase più complicata della malattia. «Nel nostro percorso tutte abbiamo incontrato casualmente un’amica che ci facesse forza. Grazie alla nostra associazione questi incontri non sono più casuali. Il tumore non è una bella cosa, eppure noi ne abbiamo tratto una cosa bellissima non solo per le donne che aiutiamo, ma anche per la comunità».
Durante gli ultimi mesi, per le volontarie è stato impossibile entrare nei reparti dell’ospedale Humanitas Gavazzeni (Bergamo) dove solitamente incontrano donne che loro chiamano “sorelle”. L’associazione non si è fermata: sono stati organizzati incontri in videochat e le telefonate si sono allungate. Uno dei gesti più semplici e apprezzati è stata l’iniziativa di alcune volontarie che si sono trovate sotto le finestre dell’ospedale per salutare alcune malate prima o dopo un’operazione.
Cornero sa quanto è importante avere qualcuno con cui parlare della malattia. Nel 2015 le fu diagnosticato un tumore al seno: dopo l’operazione fu sottoposta agli esami che precedono la chemioterapia, e in quel momento scoprì di avere metastasi ossee. «Ho pensato che sarei morta entro due mesi», dice. «Non ho potuto più fare la chemio. Ho iniziato una terapia ormonale che finora sta funzionando. Ho reagito grazie alle parole dei medici che mi hanno seguito con una comunicazione franca, senza menzogne, dandomi la possibilità di affrontare la malattia. E sono consapevole che nel mio caso non finirà mai, finché sono viva, perché la malattia metastatica è per sempre. Ritengo di essere molto privilegiata ad essere qui dopo cinque anni e in buona salute».
Cornero ha 58 anni, insegna lettere e storia in una scuola superiore di Bergamo, ogni giorno fa lunghe camminate e trova il tempo per rispondere a decine di messaggi e mail per l’associazione.
«Sono diventata molto social perché in questi mesi la nostra pagina Facebook ci ha consentito di raggiungere tantissime donne che altrimenti sarebbe stato impossibile incontrare a causa delle chiusure», spiega. «Sento che devo fare la mia parte, anche solo attraverso i social. Già il fatto di parlare del tumore fa bene alle persone ammalate, che si sentono meno sole. Aiuta a convogliare le energie».
Per i malati, anche sottoporsi ai controlli è diventato più complesso. In realtà i ritardi sono stati piuttosto contenuti e concentrati soprattutto durante la prima ondata. La quotidianità, però, è stata stravolta dalle accortezze necessarie ad evitare la trasmissione del contagio. Un peso ulteriore alle già gravose procedure dei frequenti controlli.
Roberto Margherita ha 36 anni, è un cantautore, e nel 2012 gli venne diagnosticato un tumore ai linfociti del sangue, una leucemia molto aggressiva. Nel 2014 fu sottoposto a un trapianto di midollo dopo una recidiva, e nel corso degli ultimi anni ha affrontato molte conseguenze patologiche dovute alle cure cortisoniche. Nei mesi scorsi gli è stata rimossa la milza.
Margherita spiega che si ritiene soddisfatto ad avere avuto accesso all’operazione nonostante l’emergenza coronavirus, anche se i problemi non sono mancati. «Ad ogni esame ho dovuto fare un tampone. Ne ho fatti cinque, tutti negativi, e sono stati tutti passaggi in più rispetto a una normale preparazione», spiega. «Avevo già vissuto molte quarantene dolorose nella mia vita, quindi ho saputo affrontare questo lungo anno con la voglia di rimettermi al meglio e riprendere la mia vita».
Margherita viene assistito dalla sezione di Milano della LILT, la Lega italiana per la lotta contro i tumori, che si prende cura di molti malati di tumore. «Ho stretto un rapporto di grande amicizia con i volontari della LILT che mi hanno aiutato. Nell’ultimo anno è stato tutto più faticoso. Sono stato affiancato dalla musica, dalle canzoni che ho scritto. Spero presto di tornare su un palco perché è una delle emozioni che mi fa andare avanti. Al momento è difficile dire quando».
Per stare più vicino ai malati, anche durante l’epidemia, la LILT ha attivato una linea chiamata “Telefono amico”. Uno dei volontari che ha risposto alle chiamate è stato Mauro Mauri, 67 anni.
Da quando è andato in pensione, Mauri si è messo a disposizione dell’associazione per offrire un aiuto ai malati di tumore. Al momento ne segue tre. Prima dell’epidemia, andava tutte le settimane a casa loro. «Sono persone con una malattia oncologica, ma quando sto con loro mi rendo conto che il loro problema più grande è la solitudine. Molti malati non hanno marito o moglie, figli, nipoti».
A causa del coronavirus, gli appuntamenti settimanali sono stati cancellati. Anche Mauri, come Paola Cornero, ha trascorso moltissime ore al telefono. «Una ventina di minuti a testa, per sapere come stavano e se avevano bisogno di qualcosa. Ci si affeziona molto in fretta, anche al telefono», dice Mauri. «Il loro bisogno maggiore è avere qualcuno con cui parlare. Una delle signore che seguo ha avuto un carcinoma alla lingua, fa ancora molta fatica a comunicare. All’inizio è stato difficile, adesso ci capiamo benissimo ed è nato un rapporto di estrema vicinanza, nonostante le limitazioni dovute all’epidemia».
Dallo scorso ottobre le visite sono riprese, con una serie di misure di sicurezza: i volontari rimangono a distanza, sull’ingresso delle case, con mascherina e visiera. Sono accorgimenti essenziali per evitare che i malati, già a rischio, vengano contagiati dal virus.
A preoccupare Mauri, come tanti altri volontari, sono anche le condizioni economiche dei malati. «Oltre ad aver portato una nuova e pericolosa malattia, il coronavirus ha causato un incremento della povertà in tutta Italia, anche per le persone già in condizioni difficili a causa del tumore. Ai malati che necessitano di un aiuto, ogni prima settimana del mese portiamo una borsa di alimenti a lunga conservazione. Inoltre ci preoccupiamo che non abbiano problemi a pagare le bollette. Nell’ultimo anno si è parlato giustamente del coronavirus, ma l’attenzione nei confronti dei malati di tumore meriterebbe molta più attenzione».
I dati elaborati dall’osservatorio screening mostrano che nei primi nove mesi del 2020 sono stati eseguiti oltre due milioni di esami in meno (2.118.973, per la precisione) rispetto allo stesso periodo del 2019. Il calo porterà a una diminuzione delle diagnosi oncologiche eseguite nel 2020. È uno dei casi in cui i dati mentono, perché la reale incidenza dei tumori non è diminuita.
Secondo molti esperti, i ritardi di diagnosi e interventi causeranno una crescita dei casi di malattia. Il ritardo diagnostico accumulato si sta allungando ed è pari a 4,7 mesi per le lesioni colorettali, a 4,4 mesi per quelle della cervice uterina e a 3,9 mesi per carcinomi mammari. «Se la situazione si prolunga, diventa concreto il rischio di un maggior numero di diagnosi di cancro in fase avanzata, con conseguente peggioramento della prognosi, aumento della mortalità e delle spese per le cure», ha detto Giordano Beretta, presidente dell’AIOM, l’associazione italiana di oncologia medica.
I ritardi contraddicono anni di campagne di sensibilizzazione che esortano a sottoporsi a esami ricorrenti per individuare precocemente l’eventuale malattia. Il tempo, nella cura dei tumori, è molto importante.