In Europa si discute se uscire da un accordo internazionale sull’energia
Dal Trattato sulla Carta dell'Energia, firmato nel 1994 per incentivare gli investimenti, ma su cui oggi ci sono parecchi dubbi
Da alcuni mesi nell’Unione Europea si sta discutendo sulla proposta di riformare un importante accordo che regola gli investimenti energetici, il Trattato sulla Carta dell’Energia. Il trattato fu firmato nel 1994 su iniziativa di alcuni paesi europei e oggi conta 54 paesi membri e 40 osservatori, sia dell’Unione Europea che non. Quando fu firmato, il trattato aveva l’obiettivo di integrare i paesi e le aziende dell’ex Unione Sovietica e dell’Europa dell’Est nel mercato dell’energia europeo e favorire investimenti in quel settore. Oggi però le cose stanno cambiando e diversi paesi hanno minacciato di uscirne se non verrà riformato.
Il trattato prevede infatti una serie di procedure per regolare le controversie tra paesi, o tra paesi e investitori privati: sono procedure che includono anche la possibilità che le aziende facciano causa agli stati che non ne tutelano gli investimenti. Al tempo, questo meccanismo serviva a garantire gli investimenti in paesi in cui la situazione politica era poco stabile e in cui le aziende erano ancora a rischio di espropri e nazionalizzazioni (per esempio gli stati dell’ex Unione Sovietica).
Negli ultimi anni, tuttavia, le stesse procedure sono state usate da aziende che si occupano di investimenti nei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale) per fare causa agli stati che introducono leggi per disincentivare queste fonti di energia al fine di attuare una transizione verso quelle rinnovabili.
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L’ultimo caso è quello dei Paesi Bassi, che la scorsa settimana sono stati citati in giudizio per 1,4 miliardi di euro dalla società tedesca RWE – che gestisce una centrale elettrica a carbone nella città di Eemshaven – a causa dei piani del governo di eliminare gradualmente il carbone dalle fonti energetiche usate nel paese.
A ritenere necessaria una riforma del trattato non sono solo i singoli stati ma anche la Commissione Europea, che si è posta tra i suoi piani più ambiziosi a lungo termine il cosiddetto Green Deal europeo, una serie di misure per rendere più sostenibili e meno dannosi per l’ambiente la produzione di energia e lo stile di vita dei cittadini europei.
Il trattato entra in conflitto con i piani di un’Unione Europea sempre meno legata ai combustibili fossili e per questo la Commissione ha iniziato a pensare a una riforma. Nella bozza della riforma del trattato presentata pochi giorni fa, la Commissione ha proposto di rimuovere carbone, petrolio e gas dalla lista degli investimenti protetti, ma solamente a partire dal 2030.
La proposta di riforma verrà discussa all’inizio di marzo, ma alcuni paesi europei hanno già detto di non ritenerla soddisfacente poiché consentirebbe ancora per troppi anni alle multinazionali che si occupano di estrazione e vendita di combustibili fossili di mettere potenziali veti alla transizione ecologica. Per questo motivo diversi paesi hanno detto che se il testo non verrà modificato usciranno dal trattato, come fece già l’Italia nel 2016 (ufficialmente perché la partecipazione sarebbe stata troppo onerosa).
La ministra spagnola per la Transizione ecologica, Teresa Ribera, ha detto a Politico che la Spagna potrebbe presto uscire dal trattato se la Commissione non farà passi avanti nella riforma, dicendosi «non molto ottimista sulle possibilità di ottenere un successo dai prossimi negoziati». Ribera ha detto che la Spagna è pronta a ritirarsi dall’accordo anche da sola, ma che spera che alla fine ci sia una decisione comune dei paesi dell’Unione Europea.
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A dicembre anche la Francia aveva esortato la Commissione a velocizzare il processo di riforma e aveva detto che l’Unione Europea avrebbe dovuto uscire dal trattato in blocco se non ci fossero stati progressi entro la fine del 2021. Pareri simili sono arrivati anche dalla Germania e dal Lussemburgo, mentre i paesi dell’Europa Centrale – ancora molto dipendenti dai combustibili fossili – stanno facendo resistenza, e giudicano la proposta di riforma della Commissione un giusto compromesso.
Paesi come Ungheria, Slovacchia, Polonia, Repubblica Ceca e Romania ritengono che la via preferibile sia quella di una graduale transizione verso le energie rinnovabili, e non un cambio repentino come vorrebbero paesi dalle economie più avanzate. Questi paesi, scrive Politico, credono che uscire dal trattato sia avventato, soprattutto dato che c’è una clausola della durata di 20 anni che consente alle aziende di intentare cause legali anche dopo l’eventuale ritiro unilaterale dall’accordo.
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