Sta tornando l’inflazione?
Sembrava sparita, almeno dai paesi ricchi, ma durante la pandemia si è iniziato a parlare di un suo ritorno: è improbabile, ma meglio essere preparati
Per la prima volta dopo molti anni, da qualche mese si è cominciato a parlare del ritorno dell’inflazione nelle economie mondiali. Dopo un lungo periodo in cui l’inflazione era rimasta ampiamente sotto gli obiettivi, tanto da far ritenere che fosse sparita quasi del tutto, negli ultimi mesi gli analisti hanno cominciato a prevedere un suo aumento moderato nel corso del 2021. Gli economisti e i banchieri centrali stanno discutendo se questa nuova crescita sia il risultato temporaneo delle politiche per la ripresa adottate per combattere la crisi provocata dal coronavirus o se invece l’inflazione tornerà a essere un serio problema per l’economia mondiale.
Dopo un lungo periodo cominciato negli anni Settanta del Novecento in cui era una grave minaccia per le economie dell’Occidente e non solo, a partire dagli anni Novanta l’inflazione fu messa sotto controllo e nei decenni successivi ha smesso di impensierire economisti e governi, e tutti gli studiosi che nel corso degli ultimi decenni avevano previsto un suo ritorno, anche basandosi su solidi precedenti storici, sono sempre stati smentiti. A partire dall’inizio della pandemia da coronavirus, però, hanno cominciato ad accumularsi sintomi che farebbero pensare a un ritorno dell’inflazione: è ancora un’eventualità improbabile ed esclusa dalla maggior parte degli economisti, ma è meglio cominciare a capire di cosa si sta parlando.
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Un ripasso sull’inflazione
L’inflazione è un aumento nel tempo dei prezzi di beni e servizi. Può avere numerose cause, come per esempio un aumento della domanda o un aumento dei costi nella produzione dei beni, e ha come conseguenza principale una diminuzione del valore del denaro: se prima per comprare un litro di latte bastava un euro, con la crescita dell’inflazione non basta più. Di solito, un aumento moderato dell’inflazione non è un problema e anzi è ben accolto dai governi, perché un certo aumento dei prezzi indica che l’economia è in buona salute e la domanda di beni e servizi è forte. Sia la Federal Reserve (Fed, la Banca centrale degli Stati Uniti) sia la Banca centrale europea (BCE) hanno come obiettivo quello di tenere l’inflazione «sotto, ma vicino» a un tasso di crescita del 2 per cento.
Quando l’inflazione cresce troppo si presenta un grave problema per le economie, perché, tra le altre cose, il costo della vita aumenta eccessivamente, i salari non riescono a tenere il passo e la popolazione si impoverisce: è quello che successe in Occidente a partire dagli anni Settanta, per numerose ragioni tra cui l’aumento del costo delle materie prime, specie il petrolio, e l’aumento del costo del lavoro: nel decennio dei ’70 l’inflazione nei paesi ricchi crebbe di una media del 10 per cento l’anno. Quando l’inflazione va totalmente fuori controllo si parla di «iperinflazione», ed è una catastrofe, come quella che avvenne durante la Repubblica di Weimar, in Germania, negli anni Venti del Novecento.
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Tuttavia, è un problema anche quando l’inflazione cresce troppo poco, o addirittura diventa negativa: in quel caso si parla di deflazione, che, come si può immaginare, è una diminuzione nel tempo dei prezzi di beni e servizi: sembra una condizione favorevole, ma in realtà è un grave danno per l’economia, perché la propensione a investimenti e consumi cala drasticamente quando si sa che in futuro i prezzi diminuiranno (perché comprare un frigorifero nuovo a 300 euro quando so che tra un mese ne costerà 280?), e questo alla lunga danneggia la crescita, fino a fermarla ed eventualmente a provocare una recessione.
Fino a poco tempo fa, gli economisti sono stati preoccupati più per questo secondo problema, la deflazione, che per l’inflazione: il tasso d’inflazione è rimasto fermo per moltissimo tempo attorno all’1,5 per cento, e non si è mosso nemmeno a seguito di eventi che, secondo la teoria economica tradizionale, avrebbero dovuto portarlo verso l’alto.
La crescita dell’inflazione post pandemia
Per ora l’inflazione nelle economie avanzate rimane ampiamente sotto l’obiettivo del 2 per cento, ma ci sono alcuni segnali di cambiamento. Nella zona euro, è passata da -0,3 per cento a dicembre 2020 a 0,9 a gennaio 2021, il più forte aumento in oltre un decennio. In Germania, in particolare, il presidente della Banca centrale tedesca Jens Weidmann ha previsto che nel corso del 2021 supererà il 3 per cento, in parte a causa di alcuni fattori estemporanei come un aumento dell’IVA e una nuova tassa sulle emissioni. Nel Regno Unito gli economisti ritengono che supererà il 2 per cento nel corso del 2021. Negli Stati Uniti l’inflazione è all’1,4 per cento, esattamente come un anno fa, ma anche qui la maggior parte degli economisti è convinta che supererà il 2 per cento entro la fine dell’anno, o comunque non appena la pandemia da coronavirus sarà contenuta e le attività economiche potranno riprendere a pieno regime.
Anche sui mercati si comincia a vedere un certo timore di un possibile ritorno dell’inflazione, come mostrano alcuni fenomeni recenti come per esempio il forte aumento di valore dei bitcoin, usati come bene rifugio.
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Il fatto che con la fine della pandemia (che è molto difficile da prevedere: i mercati però hanno riposto molta fiducia nei vaccini e scommettono che entro la fine dell’anno le cose potranno tornare in gran parte alla normalità) ci sarà un certo aumento dell’inflazione è ormai ampiamente previsto: la pandemia ha praticamente bloccato l’attività economica e ha avuto effetti deflattivi, con i prezzi che sono calati quasi dappertutto. La ripresa dovrebbe farli aumentare di nuovo, e diversi fattori potrebbero spingerli un po’ più su di prima. Tra questi, il fatto che davanti a una domanda tornata forte l’offerta potrebbe essere diminuita e affaticata: le persone vorranno tornare a mangiare nei ristoranti, ma molti locali nell’ultimo anno hanno chiuso, e quelli rimasti potrebbero rispondere alla forte domanda e a un anno di difficoltà economiche aumentando i prezzi.
Lo stesso vale per l’approvvigionamento di beni, poiché la pandemia ha messo in difficoltà molti settori: per esempio, a causa di una scarsità di microchip, molte case automobilistiche negli ultimi due mesi sono state costrette a interrompere la produzione di nuove vetture.
La domanda di beni e servizi, inoltre, potrebbe essere perfino più alta, perché il potere di acquisto di alcune categorie di consumatori potrebbe essere aumentato, grazie ai risparmi e ai sussidi pubblici: per esempio, tra marzo e novembre del 2020 i cittadini statunitensi hanno risparmiato 1.500 miliardi di dollari in più di quanto avessero fatto nello stesso periodo dell’anno precedente. Anche JP Morgan Chase, la banca americana, ha fatto sapere che nell’ultimo trimestre del 2020 l’ammontare dei suoi depositi è aumentato del 37 per cento. È probabile che tutti questi soldi accumulati saranno spesi alla fine della pandemia, provocando un eccesso di domanda e dunque un aumento dei prezzi.
Questo aumento dell’inflazione è in linea con quanto avvenuto in passato: tre ricercatori del National Bureau of Economic Research degli Stati Uniti, per esempio, hanno notato che anche la pandemia provocata dall’influenza spagnola tra il 1918 e il 1920 «fece aumentare i tassi d’inflazione temporaneamente».
Il dibattito sugli stimoli economici
Tuttavia, un gruppo minoritario ma influente di economisti prevede che l’inflazione, dopo una crescita in un certo senso fisiologica post pandemia, anziché riabbassarsi di nuovo continuerà a crescere.
La discussione attorno a un possibile ritorno permanente dell’inflazione ha due livelli, uno di medio-breve e uno di lungo periodo. Il primo livello riguarda il timore che i giganteschi stimoli economici e monetari che governi e banche centrali hanno messo in atto o annunciato per contrastare la crisi provocata dall’inflazione possano “surriscaldare” l’economia e portare a un aumento dell’inflazione.
Questo dibattito è particolarmente intenso soprattutto negli Stati Uniti, a proposito dello stimolo da 1.900 miliardi di dollari che il presidente Joe Biden vorrebbe approvare il prima possibile per rafforzare la ripresa. Il timore è che Biden voglia immettere troppo denaro nell’economia, mettendo nei conti correnti dei consumatori e nei bilanci delle imprese e delle banche, attraverso sussidi, detrazioni e altri sistemi, più denaro di quello che è possibile spendere per generare nuova attività economica. Se in circolazione c’è più denaro di quello che l’economia può assorbire, i prezzi aumentano, perché consumatori e imprese finiscono per contendersi beni e servizi.
Sul New York Times, il giornalista Neil Irwin ha spiegato questa possibilità tramite il concetto di «output gap», che è la differenza tra PIL potenziale e PIL effettivo. Il PIL potenziale dell’economia statunitense è quello che, idealmente, si potrebbe raggiungere con l’economia statunitense al massimo delle sue potenzialità: una situazione in cui tutta la popolazione attiva è occupata e le fabbriche sono al massimo della loro capacità. Secondo l’ufficio statistico del Congresso, la differenza tra questo PIL ideale e il PIL effettivo degli Stati Uniti è di 420 miliardi di dollari: Biden intende immetterne nell’economia quasi 1.500 in più, portandola oltre il suo potenziale e facendola, come si dice in gergo, “surriscaldare”.
Questa teoria secondo cui un eccesso di stimolo e di politiche espansive può provocare inflazione di solito è molto in voga tra gli economisti conservatori, ma di recente è stata riproposta anche da Larry Summers, l’architetto delle politiche economiche dell’ex presidente Barack Obama, che in un articolo di opinione su Washington Post ha scritto che lo stimolo voluto da Biden genererà «pressioni inflazionarie come non ne abbiamo viste in una generazione». Anche Olivier Blanchard, l’ex capo economista del Fondo monetario internazionale, è entrato nel dibattito scrivendo su Twitter che lo stimolo di Biden non sarebbe soltanto un surriscaldamento dell’economia, ma «provocherebbe un incendio».
Le critiche sono state rigettate molto duramente dal team di Biden e da numerosi economisti ed esperti, che hanno ricordato, tra le altre cose, che il calcolo dell’«output gap» è molto contestato, e che inoltre l’immissione di denaro nell’economia non è un sistema perfetto di vasi comunicanti: anche se l’output gap fosse di 420 miliardi di dollari, è probabile che la cifra necessaria per colmarlo sia un bel po’ di più.
Inoltre, nel corso dell’ultimo decennio in altre circostanze i governi e le banche centrali hanno approvato grandi stimoli economici e politiche molto espansive, come dopo la crisi finanziaria globale del 2008-2009 e la crisi europea del debito sovrano del 2011-2012, senza provocare aumenti dell’inflazione. Negli Stati Uniti, nel 2009, molti economisti criticarono lo stimolo da 800 miliardi di dollari voluto da Obama come portatore di inflazione, e adesso la maggior parte degli esperti ritiene al contrario che quel pacchetto di misure sia stato troppo poco ambizioso. Allo stesso modo, nel 2012 il gigantesco piano di acquisto di titoli di stato voluto dall’allora presidente della BCE Mario Draghi, il Quantitative Easing, fu descritto come una misura che avrebbe provocato un forte aumento dell’inflazione, che tuttavia non è mai arrivata.
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In generale, il team di Biden e la gran parte degli economisti sostengono che la crisi provocata dalla pandemia sia un pericolo di gran lunga più rilevante per la società che la possibilità di un ritorno dell’inflazione. «Ho trascorso molti anni a studiare l’inflazione e a preoccuparmi per l’inflazione», ha detto Janet Yellen, segretaria al Tesoro degli Stati Uniti ed ex presidente della Federal Reserve. «Ma stiamo affrontando un’enorme sfida economica e moltissima sofferenza nel paese. Dobbiamo risolvere questi problemi. Questo è il rischio più grande».
Anche Jerome Powell, l’attuale presidente della Fed, pur riconoscendo che è probabile un aumento dei prezzi quando l’economia «riaprirà completamente», ha detto che si tratterà di un effetto transitorio. Secondo Christine Lagarde, presidente della BCE, «ci vorranno ancora anni prima di doverci preoccupare dell’inflazione».
I grandi cambiamenti dell’economia
Il secondo argomento di chi ritiene che l’inflazione possa tornare è di lungo periodo, non riguarda necessariamente la pandemia e ha a che fare con l’interpretazione di alcuni grossi fenomeni di cambiamento dei sistemi economici mondiali.
Le ragioni per cui l’inflazione tra gli anni Novanta e oggi ha smesso di essere un problema ed è rimasta bassissima sono ancora dibattute, ma le più citate sono principalmente due. Anzitutto, l’indipendenza delle banche centrali dai governi, che ha dato loro più potere per tenere sotto controllo l’inflazione alzando e abbassando i tassi d’interesse, cioè, semplificando, i tassi con cui le banche centrali prestano denaro alle altre banche: alzandoli si innesca un meccanismo che riduce la quantità di denaro in un’economia, abbassandoli si fa il contrario.
La seconda ragione riguarda un insieme di cambiamenti epocali nell’economia globale: la globalizzazione, l’avvento di internet e l’apertura della Cina al commercio mondiale.
Questi tre eventi, semplificando molto, hanno contribuito a tenere i prezzi costantemente bassi negli ultimi trent’anni. La globalizzazione e il successo economico della Cina hanno immesso sul mercato del lavoro globale milioni di nuovi lavoratori; se negli anni Settanta una delle cause dell’aumento dell’inflazione era stata l’aumento del costo del lavoro, la globalizzazione ha azzerato questo problema: basta spostare la propria fabbrica in Cina per mantenere bassi i costi. Questo ha fatto perdere potere contrattuale ai lavoratori dei paesi ricchi e ridotto drasticamente l’aumento dei loro salari, assieme a numerosi altri problemi come l’aumento delle diseguaglianze economiche; allo stesso tempo ha tenuto in equilibrio domanda e offerta, e di conseguenza i prezzi. Anche internet ha aiutato, offrendo ai consumatori una molteplicità di beni e servizi in concorrenza tra loro.
Secondo alcuni economisti, questi fenomeni epocali stanno cambiando. Una tesi piuttosto discussa negli ultimi mesi è quella di Charles Goodhart e Manoj Pradhan, che l’anno scorso hanno pubblicato un libro intitolato The Great Demographic Reversal. Secondo i due economisti, l’invecchiamento della popolazione cinese, con una conseguente diminuzione della forza lavoro e un aumento dei salari, e la crisi della globalizzazione provocata dal ritorno del nazionalismo e dalle dispute commerciali (anzitutto tra Cina e Stati Uniti, ma non solo), potrebbero rompere l’equilibrio tra domanda e offerta e provocare, infine, un aumento dei prezzi e un ritorno dell’inflazione.
L’Economist, che un paio di mesi fa aveva dedicato al tema la copertina del suo settimanale, ha aggiunto anche un altro elemento: i governi e le banche centrali sono diventati sempre più tolleranti nei confronti dell’inflazione. La Federal Reserve ha rinnovato di recente la sua politica dicendo che potrebbe decidere di lasciare l’inflazione sopra il 2 per cento se lo ritenesse necessario, senza alzare i tassi d’interesse.
Questo perché, tra le altre cose, alzare i tassi d’interesse – aumentando il costo del denaro e mettendo un freno all’economia – è diventata una mossa sempre più impopolare, specie con il grande livello di debito pubblico di cui gli stati si sono fatti carico: alzare i tassi significa rendere molto più costoso per un governo rifinanziare il proprio debito e potrebbe creare problemi alla crescita (in effetti è generalmente questo l’obiettivo di alzare i tassi: “raffreddare” un’economia che si sta “surriscaldando).
Ma, come scrive l’Economist, «durante la pandemia la relazione tra le banche centrali e i ministeri delle Finanze è diventata particolarmente stretta», e l’indipendenza delle banche centrali si è ridotta in molte parti del mondo, come è successo per esempio in Turchia. Questo potrebbe portare a scelte complicate nel momento in cui si dovesse presentare di nuovo la pressione dell’inflazione: alzare i tassi e raffreddare l’economia subito oppure tenerli bassi e lasciare andare l’inflazione, rischiando che si surriscaldi?
L’inflazione improbabile
Questo scenario comunque rimane ancora improbabile per la maggior parte degli economisti, i quali, come Janet Yellen, ritengono che davanti alla crisi provocata dalla pandemia l’inflazione sia un problema quanto meno secondario.
Come scrive l’Economist, tuttavia, gli argomenti di chi predica il ritorno dell’inflazione non sono così forti da un decennio. Questo non significa che bisogna bloccare le misure di rilancio dell’economia, come stanno cercando di fare alcuni politici conservatori negli Stati Uniti, ma meglio essere preparati.