Non capiremo mai il delitto di Novi Ligure
La storia indecifrabile di come Erika De Nardo e Omar Favaro uccisero brutalmente e senza motivo la madre e il fratello di lei, vent'anni fa
di Pietro Cabrio
Vent’anni fa in Italia il presidente del Consiglio era Giuliano Amato, nominato l’anno prima dopo una crisi di governo che aveva portato alle dimissioni di Massimo D’Alema. Nello stesso periodo in tutta Europa veniva attivato un piano per il controllo dell’encefalopatia spongiforme bovina, meglio nota come “morbo della mucca pazza”. Vent’anni fa, in un’Italia per alcuni aspetti simile a quella di adesso, i notiziari della sera diedero la notizia di un delitto che avrebbe segnato l’opinione pubblica per anni.
A Novi Ligure, in provincia di Alessandria, una madre di 41 anni era stata trovata morta in casa insieme al figlio undicenne. Susanna Cassini e Gianluca De Nardo erano stati uccisi con quasi un centinaio di coltellate: un modo così brutale da turbare anche magistrati e carabinieri di lungo corso. Carlo Carlesi, procuratore di Alessandria, settantenne con quasi quarant’anni di esperienza, fu tra i primi ad arrivare sul posto: si sentì male dopo aver visto la scena del crimine e fece visibilmente fatica a riferire qualcosa davanti alle telecamere, quella sera: «È uno degli episodi più feroci che abbia visto in vita mia. Senza scopo, senza senso».
I soccorsi erano stati chiamati dalla figlia sedicenne, Erika De Nardo, che apparentemente era riuscita a sfuggire agli aggressori dal seminterrato allertando i passanti in strada. Secondo la ragazza, alle 20.40 circa due persone erano entrate in casa e avevano ucciso la madre e il fratello minore per poi fuggire nel nulla: «albanesi» aggiunse. La voce si sparse subito. All’esterno della villetta, sigillata dalle autorità in attesa dell’arrivo della polizia scientifica, si radunarono alcuni residenti della zona che all’arrivo del sindaco sfogarono la loro rabbia contro gli immigrati di cui «la città era piena» e ai quali «venivano regalate le case».
De Nardo confermò la sua versione, che il procuratore di Alessandria, all’uscita della caserma la mattina seguente, descrisse alla stampa come «lineare e precisa», aggiungendo: «È una ragazza coerente, una ragazza veramente splendida». Aveva anche riconosciuto uno degli aggressori, un ragazzo albanese residente nella zona. Le dichiarazioni del procuratore alimentarono la rabbia degli abitanti del luogo, molti dei quali parteciparono a una fiaccolata contro l’immigrazione promossa dagli esponenti locali della Lega Nord. Da Novi il dibattito sull’immigrazione si spostò presto sui canali televisivi nazionali, dalla mattina alla sera, dove si dava ormai per scontato che i colpevoli fossero «albanesi», «stranieri» o al massimo «una banda di slavi». Ma non era andata così.
Tra gli investigatori i dubbi sulla versione della ragazza erano molti. Il ragazzo indicato come uno dei responsabili aveva un alibi e fu subito rilasciato. Gli assassini poi non avevano portato via nulla dalla casa: avevano quindi massacrato una madre e il suo bambino per nulla? E a chi sarebbe mai venuto in mente di rapinare una villetta a schiera al centro di un quartiere residenziale di provincia alle nove di sera, con tutti a casa? Il parere finale del medico legale che eseguì le autopsie aiutò ad eliminare gli ultimi dubbi tra gli investigatori: poteva essere stata solo la figlia, aiutata dal suo ragazzo, Mauro Favaro, diciassettenne che tutti chiamavano Omar.
Per farli vacillare e spingerli a confessare vennero portati entrambi a fare un sopralluogo nella villetta. Al ritorno li fecero stare per quattro ore all’interno di una stanza della caserma dove erano presenti telecamere e microfoni: De Nardo, già descritta come incredibilmente fredda e lucida per la situazione in cui si trovava, fu colta a rassicurare Favaro, molto più frastornato e impaurito, e a mimare il gesto di una coltellata, per poi chiedergli: «Ma quante gliene hai date?».
Dopo tre giorni dall’accaduto, tutti quelli che stavano seguendo il caso si trovarono per le mani una realtà completamente diversa da quella ipotizzata all’inizio, e altrettanto inspiegabile. Come avevano fatto due minorenni a massacrare in quel modo, senza motivi apparenti, la madre e il fratello minore di lei, e a resistere imperterriti alle conseguenze?
A rendere ancora più difficile la comprensione del delitto furono le conclusioni degli investigatori: Erika De Nardo e Omar Favaro progettavano da mesi di uccidere la famiglia di lei, compreso il padre Francesco, tra i responsabili dell’azienda dolciaria Pernigotti. E probabilmente ci avevano già provato con del veleno per topi, le cui tracce furono ritrovate in vari punti della casa durante i rilevamenti.
Ci erano poi riusciti la sera del 21 febbraio, aspettando madre e figlio al loro rientro, nascosti al buio. La madre fu uccisa con oltre cinquanta coltellate inferte da entrambi. Il fratello minore avrebbe dovuto salvarsi, ma dalla sua camera sentì i rumori, fece le scale e vide tutta la scena: De Nardo e Favaro, ritenendo di non poterlo più risparmiare, provarono ad annegarlo nella vasca da bagno. Non ci riuscirono perché continuava a lottare, come confermarono le tracce di sangue trovate sulle pareti del bagno. A quel punto lo uccisero con decine di coltellate, lasciandolo poi sott’acqua.
Furono necessarie delle lunghe perizie psichiatriche per definire almeno i contorni della vicenda. I tre esperti nominati nel corso delle indagini preliminari ci misero quasi dieci mesi per arrivare alla conclusione che Erika e Omar, due personalità diverse ma complementari — tanto da essere definiti una “coppia perfetta” — si erano distaccati completamente dalla realtà in cui vivevano finendo per chiudersi in una loro dimensione, probabilmente anche a causa dell’uso prematuro, ma mai completamente accertato, di cocaina e LSD.
De Nardo venne valutata come una ragazza più intelligente della media, affetta però da «un disturbo di personalità di tipo narcisistico e guidata da una logica di controllo dei rapporti». Favaro presentava invece «un disturbo da personalità dipendente per cui era portato a compiacere l’altro e ad anticiparne i desideri». Secondo gli esperti i motivi dietro due omicidi così efferati e allo stesso tempo senza un vero e proprio movente «andavano ricercati nella profondità della loro psiche, una dimensione visionaria nella quale si vedevano come una coppia assoluta e ostacolata dalle regole imposte della famiglia di lei». Successivamente, alla domanda sul perché lo avessero fatto, entrambi risposero di non saperlo.
Il 14 dicembre dello stesso anno il Tribunale per i minorenni di Torino condannò Erika De Nardo e Omar Favaro a 16 e 14 anni, da scontare fino ai 21 anni nei carceri minorili Beccaria di Milano e Ferrante Aporti di Torino, e successivamente nei carceri ordinari. I giudici ridussero le pene richieste dal pubblico ministero (20 per lei e 16 per lui) tenendo conto delle attenuanti, senza però riconoscere né l’infermità mentale né la richiesta di un ricovero in un luogo di cura. Per De Nardo i giudici disposero tuttavia un’assistenza psicologica continuativa con aggiornamenti bimestrali, e lo stesso fu applicato a Favaro, al quale però fu concessa la possibilità di una variazione della pena su decisione degli esperti.
Dopo aver letto la sentenza, il giudice si rivolse ai due ragazzi dicendo: «Questa non è la fine. Se capirete potrete dare una svolta alla vostra vita». Il giornalista inviato di Repubblica che seguì il caso, Meo Ponte, presente in aula, raccontò in seguito: «Credo di aver capito la vera Erika quando, dopo aver cercato per mesi di mostrare un volto umano, al momento della sentenza esplose e aggredì verbalmente gli avvocati».
Le condanne di entrambi vennero confermate in appello nel 2002 e in definitiva dalla Cassazione nel 2003. Favaro uscì dal carcere il 3 marzo 2010 grazie ai benefici dell’indulto e agli sconti per buona condotta dovuti anche ai miglioramenti riscontrati in lui dagli esperti. Salvo un’intervista concessa al programma televisivo Matrix nel 2011, non si è più fatto vedere in pubblico. De Nardo, che in carcere si è laureata in filosofia con 110 e lode, è libera dal 2011. Il padre Francesco non ha mai interrotto i rapporti con la figlia: ha continuato a seguirla per tutta la durata della pena, durante il periodo trascorso nella comunità di Don Mazzi — secondo il quale si sarebbe sposata — e si presume tuttora, in libertà. Non ha mai detto una parola in pubblico e frequenta ancora la casa di Novi Ligure.