Come abbiamo dato i nomi ai pianeti
Gli antichi ci hanno influenzato con i nomi delle loro divinità, ma a un certo punto dell'Ottocento sarebbe potuta andare diversamente
Cinque dei pianeti che compongono il sistema solare – Mercurio, Marte, Venere, Giove e Saturno – vengono osservati a occhio nudo da millenni, e in Occidente vengono chiamati con gli stessi nomi da secoli. Derivano dalle divinità del culto pagano degli antichi romani, che li scelsero per primi, probabilmente sulla base delle caratteristiche degli astri stessi. Non è un caso che il pianeta più grande del sistema solare abbia il nome della divinità più importante, Giove.
Gli altri pianeti che ruotano intorno al Sole, invece, furono scoperti solo in tempi più recenti, ma non è solo per spirito di imitazione che anche loro si chiamano come antiche divinità. Fu determinante l’intuizione di un astronomo molto in vista nell’Ottocento, John Herschel, che con sapienza e diplomazia gestì una delicata disputa tra astronomi francesi e inglesi, che portò a un consenso non scontato sui nomi di Nettuno e Urano, ed evitò che gli ultimi pianeti del sistema solare, e molti satelliti, prendessero nomi legati alla stretta attualità, ispirati dai sovrani e dagli astronomi più in vista.
Urano fu osservato per la prima volta alla fine del Seicento, ma fu scambiato per una stella. Quasi un secolo dopo, l’astronomo e musicista William Herschel – padre di John, di cui parleremo – pensò inizialmente che si trattasse di una cometa. Il riconoscimento ufficiale di Urano come pianeta avvenne solo nel 1783, grazie alle osservazioni di Herschel. Ma il suo nome all’epoca non era ancora Urano: Herschel padre avrebbe voluto chiamarlo Georgium Sidus in onore del re Giorgio III, con l’intento di far riguadagnare al sovrano un po’ della gloria che aveva perso insieme alle colonie britanniche in America del Nord, pochi anni prima.
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Parte della comunità scientifica non era però d’accordo, e in particolare non lo erano gli astronomi francesi. Il nome di Urano fu suggerito da un astronomo tedesco, Johann Bode, che peraltro contribuì a certificare il fatto che l’astro in questione fosse un pianeta e non una stella o una cometa. Bode lo scelse pensando al fatto che Saturno e Giove nella mitologia fossero padre e figlio, e che quindi si poteva proseguire la tradizione con il nome del dio greco Urano, personificazione del cielo e padre di Saturno.
Il nome Urano ebbe discreta fortuna nei primi anni dell’Ottocento, anche perché la tendenza a nominare gli astri per glorificare i potenti terreni non era stata granché seguita. Nel 1610 Galileo Galilei aveva scoperto quattro satelliti di Giove, a cui era stato dato il nome collettivo di Sidera Medicea, per onorare i Medici che all’epoca erano granduchi di Toscana e protettori di Galilei stesso. Ma in pochi vi si riferivano in quel modo e a tutti gli astri scoperti ai primi dell’Ottocento (che oggi sappiamo essere asteroidi) fu dato un nome che richiamava la mitologia greca, usanza che aveva il pregio di mettere da parte gli interessi localistici di questo o quel regno.
La tendenza rischiò di essere invertita quando nel 1846 venne scoperto il pianeta oggi noto come Nettuno, che si trova a circa 4 miliardi e mezzo di chilometri dal Sole. I francesi furono i primi ad annunciare la scoperta grazie ai calcoli dell’astronomo Urbain Le Verrier, confermati dall’osservatorio di Berlino poco dopo. Parallelamente, però, anche gli astronomi britannici stavano eseguendo gli stessi calcoli ed erano quasi arrivati alla stessa conclusione. In particolare ci era arrivato vicino un vecchio matematico quasi in pensione, John Couch Adams, poco noto fuori dal Regno Unito. L’astronomo con più eminenza e prestigio del paese, allora, si sentì in dovere di dirlo pubblicamente, aprendo un dibattito internazionale: era John Herschel, figlio di chi aveva scoperto fortuitamente Urano più di sessant’anni prima.
Herschel in realtà non divulgò gli studi di Adams per amor di polemica, ma perché in buona fede riteneva che il fatto che due studi separati fossero arrivati alla stessa conclusione corroborasse la scoperta scientifica. Come ha raccontato il magazine online Aeon, Herschel era una persona mite, tendente sempre a cercare soluzioni diplomatiche in caso di conflitti, cosa che gli riuscì anche nel caso della scoperta di Le Verrier. Riuscì addirittura a organizzare un incontro tra Adams e Le Verrier stesso, in cui pare che i due astronomi andarono particolarmente d’accordo.
Tuttavia c’era un punto della questione delicato, non ancora risolto, cioè che nome dare al nuovo pianeta, quello che oggi chiamiamo Nettuno. Gran parte degli astronomi francesi riteneva che si dovesse chiamare “Le Verrier”, convincendo anche l’interessato. Gli inglesi erano chiaramente contrari, e in mezzo a loro c’era – suo malgrado – Herschel. Per convincerlo, nel novembre del 1846, Le Verrier scrisse a Herschel una lettera in cui gli comunicava la sua volontà di riferirsi a Urano con il nome del suo scopritore, cioè suo padre. “Herschel”, quindi.
Le altre proposte preferite dagli inglesi erano Oceano – nome che però ai francesi ricordava le disavventure di Napoleone contro la flotta britannica – e Nettuno. Data la sua natura diplomatica, Herschel riuscì a trovare uno stratagemma che alla fine lo tirò fuori dalle controversie, senza scontentare né inglesi né francesi. Lo stratagemma non riguardava i nomi dei pianeti, bensì quello dei loro satelliti.
Proprio nei giorni in cui Le Verrier aveva scritto la lettera, Herschel stava lavorando a un’importante opera sulle osservazioni astronomiche che aveva fatto a Capo di Buona Speranza anni prima. Le osservazioni di Herschel riguardavano in parte anche i satelliti di Saturno, che non avevano ancora nomi consolidati ma una confusa nomenclatura basata sui numeri come quelli di Giove scoperti da Galilei. Pensò quindi, nella sua opera, di introdurre nomi nuovi utilizzando quelli dei vari figli di Urano secondo la mitologia greca: Mimas, Encelado, Teti, Dione, Rea, Titano e Giapeto. Ancora oggi vengono chiamati così.
Quando l’opera venne pubblicata e diffusa tra la comunità scientifica, anche gli astronomi fuori dal Regno Unito cominciarono a usare la nomenclatura di Herschel, indebolendo le pressioni dei francesi che volevano introdurre nomi legati alla contemporaneità. Il gesto di Herschel fece affermare definitivamente la tendenza a usare nomi della mitologia classica per i pianeti e per i loro satelliti, influenzando le decisioni sui nomi dei corpi celesti per molti anni a venire.
Un esempio è la scoperta del pianeta nano Plutone, molti anni dopo quella di Nettuno. Era il 1930, e da subito cominciarono a circolare molte idee per nominare quello che allora si pensava fosse il nono pianeta del sistema solare, quasi tutte legate alla mitologia classica. L’idea che vinse sulle altre venne in mente a una bambina di 11 anni, Venetia Burney, mentre stava facendo colazione con suo nonno, ex capo della prestigiosa Biblioteca Bodleiana dell’Università di Oxford, allora in pensione.
Mentre leggevano la notizia sul Times, cominciarono a pensare a un nome e la bambina disse: «Perché non chiamarlo Plutone?». La scelta piacque al nonno, che la riferì a un suo amico astronomo, che a sua volta la suggerì ai suoi colleghi dell’osservatorio di Flagstaff, in Arizona (Stati Uniti), dove era stata fatta la scoperta.
Oggi la nomenclatura dei corpi celesti viene regolata dall’Unione Astronomica Internazionale (IAU) e si è molto articolata rispetto al passato, a causa dei grandi progressi tecnologici degli ultimi decenni, che ci hanno fatto scoprire cose sull’universo che Herschel, Le Verrier e Venetia Burney potevano a stento immaginare. Le regole sulla nomenclatura dell’IAU, oggi, non prendono in considerazione solo la mitologia classica e vengono utilizzate perlopiù sigle. I nomi mitologici, di varie tradizioni, vengono ancora utilizzati per le nuove conformazioni geologiche (come valli, catene montuose, crateri) scoperte sui pianeti e sui satelliti che già conosciamo.
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