A Bergamo nessuno sapeva
Una storia orale dei primi giorni dell'epidemia, raccontati dai cittadini, dai medici e dagli amministratori che ne finirono al centro
Il 23 febbraio 2020 vennero identificati i primi due casi di coronavirus in provincia di Bergamo. Dopo un periodo di sottovalutazione generale si capì gradualmente che la situazione stava precipitando: tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo il coronavirus riuscì a diffondersi in gran parte della provincia, soprattutto nei comuni della Val Seriana. I dati mostravano un’espansione rapida, ma era solo la traccia di una minaccia nascosta e ben più grande. Seguirono settimane di fatiche, sofferenze e migliaia di morti.
Negli ultimi mesi, le fasi più dolorose dell’emergenza a Bergamo sono state estesamente raccontate: tutto il mondo ha visto gli ospedali colmi di pazienti in gravi condizioni, il dramma di moltissime famiglie, le bare a riempire le chiese dei cimiteri, i convogli militari che hanno trasportato le salme fuori dalla regione per essere cremate.
Questa storia orale, basata su oltre 30 ore di interviste, audio inediti e una corposa documentazione di archivio, ripercorre i giorni che hanno preceduto l’arrivo della prima ondata in provincia di Bergamo, quando si pensava che sarebbe bastata una settimana di chiusura totale per tornare alla normalità. Le testimonianze di medici, amministratori e cittadini aiutano a capire le sottovalutazioni e i limiti delle decisioni prese in quei giorni, insieme al loro contesto, e suggeriscono che mancano ancora alcune risposte per spiegare quanto accaduto.
I. Il virus nascosto
Giacomo Angeloni, assessore all’Innovazione e ai servizi cimiteriali del Comune di Bergamo: «Il 30 gennaio organizzammo la presentazione pubblica di un nuovo progetto urbanistico in Città Alta, nel centro storico di Bergamo. Parteciparono molte persone. Non dovevo essere lì. Ero stato chiamato a sostituire un mio collega che aveva la febbre. Ricordo che feci una pessima battuta ai presenti: “È malato, ma vi assicuro che non è Covid”».
Francesco Zambonelli, figlio di Angiolina Cavalli e Gianfranco Zambonelli, morti a tre settimane di distanza tra fine febbraio e inizio marzo: «Mia mamma stava già male il 3 febbraio, giorno in cui andò in pronto soccorso all’ospedale di Alzano Lombardo. È l’ospedale più vicino a Villa di Serio, dove abito io e dove abitavano i miei genitori. Non si parlava ancora del virus, quindi nessuno pensava che potesse essere pericoloso».
Il 5 febbraio, nell’ospedale di Alzano Lombardo, in Val Seriana, viene ricoverato Ernesto Ravelli, il primo bergamasco che sarà trovato positivo al coronavirus, due settimane dopo.
Cesare Maffeis, medico e direttore generale della RSA di Cene, in Val Seriana: «Ho preso il coronavirus tra il 10 e il 15 di febbraio. Pensavo di avere una semplice influenza: mai fatto un giorno di malattia in trent’anni di professione. Solo dopo ho ricollegato i sintomi. In quel momento non credevo potesse essere il coronavirus. Sono certo di averlo preso da una signora anziana di 92 anni, che avevo visitato a casa sua e che poi purtroppo è morta. È stata tra le prime persone a morire in provincia di Bergamo con una diagnosi ufficiale di COVID-19».
Giorgio Gori, sindaco di Bergamo: «Ricordo che l’11 febbraio io e miei assessori andammo a pranzo in un ristorante cinese. Voleva essere una risposta alle discriminazioni nei confronti della comunità cinese. Qui a Bergamo non c’erano casi, ma i cittadini di origine cinese erano già stati indicati come untori. L’inconsapevolezza era totale».
Riccardo Munda, medico di famiglia a Selvino: «A metà febbraio andai a visitare il signor Mario, 95 anni. Respirava con grande affanno. Era broncopatico, chi poteva immaginare che in quel momento potesse essere il virus?»
Francesco Zambonelli: «Il 12 febbraio mia mamma ha avuto uno scompenso cardiaco. Da quel giorno e fino alla sua morte è stata ricoverata all’ospedale di Alzano Lombardo».
Nel pomeriggio del 18 febbraio Mattia Maestri, 38 anni, si presenta al pronto soccorso dell’ospedale di Codogno, in provincia di Lodi. Maestri ha i chiari sintomi di una polmonite. Dopo alcuni accertamenti, i medici consigliano il ricovero.
Il 19 febbraio Ernesto Ravelli viene dimesso dall’ospedale di Alzano Lombardo. Ha una tosse forte e fatica a camminare.
Durante la mattina del 20 febbraio le condizioni di Maestri peggiorano: viene ricoverato in terapia intensiva. La moglie informa i medici che il marito aveva cenato con alcuni amici, tra cui uno appena rientrato dalla Cina. Andando contro i protocolli ministeriali, i medici sottopongono Maestri a un tampone molecolare per rilevare l’eventuale presenza del coronavirus.
Francesco Zambonelli: «Mia mamma ha iniziato ad avere febbre molto alta e crisi respiratorie. Nessuno si è mai posto nemmeno il dubbio di farle un tampone. Mi ricordo bene le due donne che erano ricoverate nei letti di fronte. Avevano tutte e due una tosse incredibile. Sono morte entrambe. Nella camera accanto, invece, c’erano due persone che indossavano un casco trasparente. “A cosa serve quel casco?“, mi chiesi. Mi resi conto che avevano bisogno di ossigeno».
Tra giovedì 20 e venerdì 21 febbraio, poco dopo la mezzanotte, l’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera annuncia che un 38enne ricoverato all’ospedale di Codogno è risultato positivo al coronavirus.
Giorgio Gori, sindaco di Bergamo: «Mi sono detto: “Cavoli, un caso proprio in Italia”. Quei giorni sono stati caratterizzati da un costante aggiornamento del livello di comprensione della gravità della situazione. Ogni giorno mi sembrava di aver capito che era più grave del giorno prima».
Venerdì 21 febbraio viene scoperto un focolaio di coronavirus a Vo’, in provincia di Padova. In Veneto c’è anche il primo decesso per COVID-19: Adriano Trevisan, 78 anni.
Rainiero Rizzini, responsabile della sala operativa dell’emergenza urgenza all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: «Iniziammo a ricevere molte chiamate. Non chiedevano soccorso, ma informazioni su quello che stava accadendo. Il problema è che in quel momento non c’erano alternative al 112 o al 118. Fummo bersagliati da telefonate, in realtà il volume dei soccorsi era ancora a un livello normale».
Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo: «Il 21 febbraio ero a Roma, al comitato centrale della federazione nazionale degli Ordini. Dovevamo discutere di un corso che avrebbe dovuto dare qualche informazione sul coronavirus, di cui si sapeva pochissimo. Con me c’era anche Roberto Stella, presidente dell’Ordine dei medici di Varese. Tornammo insieme in taxi verso l’aeroporto di Fiumicino. Roberto è stato il primo medico morto di COVID-19, l’11 marzo».
Nella serata di venerdì 21 febbraio nella sede dell’azienda sanitaria di Bergamo si tiene una riunione a cui partecipano 150 medici di famiglia per condividere le prime informazioni in merito alla strategia per evitare eventuali contagi. Quasi tutti i medici sono senza mascherina, perché il coronavirus è considerato ancora lontano.
Francesco Zambonelli: «Mia mamma è morta nella notte tra il 21 e il 22 febbraio. Ero in ospedale con lei. Vidi le infermiere che indossavano le mascherine. Non le avevano mai indossate fino a quel giorno. Tutti giravano senza problemi: parenti e amici, senza nessun tipo di protezione. Nessuno sapeva nulla».
Sabato 22 febbraio i famigliari di Ernesto Ravelli chiamano un’ambulanza. Viene ricoverato nel reparto di chirurgia dell’ospedale di Alzano Lombardo. In tarda serata Ravelli viene sottoposto a un tampone.
Silvano Donadoni, sindaco di Ambivere (BG) e medico di famiglia: «Ero a un congresso medico a Firenze. Sabato mattina tra i presenti iniziarono a circolare voci su un possibile caso di coronavirus a Bergamo e notai un po’ di agitazione, soprattutto in alcuni miei colleghi bergamaschi. Lasciai il congresso per andare in un paio di farmacie dove riuscii a comprare una cinquantina di mascherine».
Giacomo Angeloni, assessore di Bergamo: «Ero a Roma per un appuntamento di lavoro. Alle 18:30, in aeroporto, arrivai al check-in e l’addetto mi disse: “Lei è proprio sicuro di andare a Bergamo? In Lombardia sono pieni di Covid”. Pensavo fosse inutile allarmismo».
II. Domenica 23 febbraio
Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano Lombardo: «Mi sono svegliato molto presto, come tutti i giorni. La prima cosa che ho fatto è stata creare un gruppo su WhatsApp con tutti i sindaci della media Val Seriana per fermare le sfilate di Carnevale. Troppo rischiose. Era una scelta che doveva essere presa da tutti, non solo da alcuni comuni. Alle 10 sono andato in municipio, ho scritto l’ordinanza per tutti e l’abbiamo pubblicata subito. Qualche ora dopo vidi sui social la notizia della chiusura del pronto soccorso dell’ospedale di Alzano».
Nel primo pomeriggio di domenica 23 febbraio, all’ospedale di Alzano Lombardo arrivano gli esiti dei tamponi eseguiti sui due casi sospetti. Entrambi i tamponi sono positivi. La direzione sanitaria chiude il pronto soccorso. Viene eseguito il tampone ad alcuni degli operatori sanitari entrati in contatto con i pazienti positivi. Le pagine social delle associazioni di soccorso avvertono che il pronto soccorso è chiuso. A quel punto tutti sanno che c’è almeno un caso di coronavirus in provincia di Bergamo.
Maria Giulia Madaschi, responsabile della RSA di Alzano Lombardo: «Mi chiamò una persona in servizio in ospedale, dove avevo lavorato anche io. “Guarda che è stato chiuso il pronto soccorso e probabilmente ci sono due casi di COVID-19”, mi disse. Ero a casa. Chiamai subito l’RSA e dissi di chiudere tutto. I pochi parenti che erano in visita sono stati allontanati. Da quel pomeriggio non è più entrato nessuno».
Angelo Giupponi, medico responsabile del 118 in provincia di Bergamo: «Alle 14 ci trovammo con i responsabili delle associazioni di soccorso per capire cosa fare. Decidemmo che la provincia di Bergamo avrebbe avuto un’ambulanza dedicata al trasporto dei casi Covid. Meno di ventiquattro ore dopo ci siamo resi conto che la situazione era ingestibile».
Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano Lombardo: «Ho saputo della chiusura del pronto soccorso dai social. Chiamai in ospedale e mi confermarono la notizia dopo un’ora. Ragiono con la testa di allora: nel momento in cui i due pazienti furono portati a Bergamo pensai che il problema fosse stato circoscritto».
Giorgio Gori, sindaco di Bergamo: «Quando ho sentito dei primi due casi, Alzano Lombardo ci sembrava quasi lontana. È un paradosso, visto che è a pochi chilometri dalla città».
Francesco Zambonelli: «Abbiamo portato mia madre alla camera mortuaria. C’è stato un grande via vai. Nel pomeriggio di domenica, quando si è diffusa la notizia dei casi di coronavirus, è venuta meno gente perché aveva paura. Una paura legittima. Mio padre, nel frattempo, da due giorni non stava bene».
Maria Giulia Madaschi, responsabile della RSA di Alzano Lombardo: «Quel pomeriggio ho fatto il primo ordine di nuovi camici per gli operatori della RSA. Ho telefonato a uno dei fornitori e gli ho chiesto di portare i dispositivi di protezione già il giorno dopo. Poi ho chiamato i miei genitori e ho detto loro di non andare all’oratorio a giocare a carte. Mia mamma mi ha anche sgridato».
Nel pomeriggio tutti i sindaci della provincia di Bergamo ricevono un messaggio su WhatsApp, inviato dall’azienda sanitaria. È un invito a presentarsi nel tardo pomeriggio nella sala Oggioni del centro congressi Giovanni XXIII, in centro a Bergamo.
Silvano Donadoni, sindaco di Ambivere e medico di famiglia: «Ho pensato a una cosa banale: vado in un luogo chiuso con tante persone, quindi mi porto la mascherina. Anche se ero convinto che l’avrebbero data a tutti, all’ingresso. Invece quando sono arrivato mi sono accorto che ero l’unico a indossarla. “Vengo io da un altro pianeta oppure c’è qualcuno che non ha capito niente?”, mi chiesi».
Alle 19 quasi tutti i 243 sindaci bergamaschi sono seduti uno accanto all’altro nel centro congressi, senza mascherine, per ascoltare le parole del presidente della Regione Attilio Fontana in collegamento video. In quel momento, le indicazioni delle autorità sanitarie internazionali raccomandavano l’uso delle mascherine al solo personale sanitario.
Giorgio Gori, sindaco di Bergamo: «Ci siamo guardati e ci siamo detti: “chissà se è una buona idea”. Ci siamo andati tutti senza mascherina e senza alcun tipo di preoccupazione. La riunione, poi, sarebbe stata completamente inutile».
[Testimonianza originale, durante la riunione dei sindaci]. Massimo Giupponi, direttore generale ATS Bergamo: «Abbiamo tutto quello che serve per avere una guida su quello che c’è da fare. Che tutto questo accada nell’arco di due giorni dalla scoperta del primo caso mi sembra un elemento fortemente positivo. Che in tutta la regione Lombardia tutti i sindaci abbiano avuto la possibilità di avere un confronto, di domenica sera, mi sembra un ulteriore elemento di come il sistema sia in condizione di reggere. La cosa peggiore da fare è andare ognuno per la propria strada e contestare le scelte che sono state fatte. Il nostro territorio è pronto per gestire questa situazione: è pronto perché alcune delle azioni che sono state presentate come un auspicio le stiamo già facendo».
[Testimonianza originale, durante la riunione dei sindaci]. Carlo Alberto Tersalvi, direttore sanitario di ATS Bergamo: «Ci siamo incontrati e stiamo lavorando con le tre aziende sociosanitarie secondo le indicazioni che ci sono state date in Regione. Alle 20:50 abbiamo tre casi conclamati, su Tgcom ho visto che parlano di quattro. Quelli conclamati sono tre. Vuol dire che sono quelli che abbiamo riscontri certi da laboratorio. Ne abbiamo altri che sono sotto indagine. Al momento, in tempo reale, sono solo tre. Su questi si è ravvisato un lavoro di sorveglianza sanitaria per l’individuazione dei contatti e cercare di capire come seguire i casi. Due hanno fatto riferimento al presidio di Alzano. Su questa questione di Alzano: d’accordo con il sottoscritto, in attesa di ricevere indicazioni precise, con il dottor Locati [Francesco Locati, il direttore generale dell’ASST Bergamo Est, ndr] si è deciso di sospendere l’accesso al pronto soccorso finché regione non ci dà indicazioni precise. Siccome i due pazienti sono stati degenti del presidio si tratta di capire il comportamento più idoneo. Il dottor Locati è in contatto con la parte sanitaria di regione per seguire la situazione».
Silvano Donadoni, sindaco di Ambivere e medico di famiglia: «Al termine dell’incontro mi avvicinai a un dirigente di ATS, che mi disse: “Cosa fai con la mascherina?”, quasi a deridermi. Gli risposi che era lui a doverla indossare. È finita lì, ma da quella serata ho capito che eravamo partiti male».
Alle 20:46 nella chat WhatsApp dei dipendenti dell’ospedale di Alzano Lombardo viene inviato un messaggio: «Ps (pronto soccorso, ndr) riaperto. Si riprende la normale turnazione. Che nessuno diffonda alcun dato di pazienti. In nessun modo siete autorizzati a diffonderli. Chi non si attiene all’indicazione se ne assumerà eventuali conseguenze».
Alle 23 Ernesto Ravelli muore all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dove era stato trasferito nel primo pomeriggio.
III. La mancata zona rossa
Da lunedì 24 febbraio in Lombardia un’ordinanza chiude le scuole, i mercati, i cinema, i teatri e i musei. Sono sospesi tutti gli eventi. Ma non c’è un lockdown: le persone possono uscire di casa e incontrarsi. Non c’è ancora il divieto di assembramento.
Francesco Zambonelli: «Il funerale di mia mamma è stato celebrato lunedì 24 febbraio. C’erano una settantina di persone. Partecipò anche mio papà, anche se non stava bene. Aveva una tosse fortissima, ma riusciva ad alzarsi e uscire di casa. Dopo il funerale incontrai un amico, infermiere all’ospedale di Bergamo. Mi consigliò di fare un tampone a mio papà. L’unico modo per averlo era andare in ospedale, con il rischio di ammalarsi».
Maria Giulia Madaschi, responsabile della RSA di Alzano Lombardo: «Abbiamo continuato con la linea della chiusura della RSA perché sarebbe stato troppo rischioso aprire. Non abbiamo fatto entrare nemmeno i volontari. Il pensiero è stato: “Se abbiamo il coronavirus dentro la RSA, non contamineremo altri. Se ce l’ha qualcun altro, non ce lo porteremo dentro”. Quel giorno ricevemmo alcune mascherine, un’ultima scorta che si sarebbe rivelata molto importante nelle settimane successive».
Angelo Giupponi, medico responsabile del 118 in provincia di Bergamo: «A un giorno dall’attivazione dell’ambulanza dedicata solo ai casi sospetti, ci siamo resi conto che quel mezzo aveva lavorato ininterrottamente per 24 ore. La situazione stava già peggiorando».
Martedì 25 febbraio in provincia di Bergamo muoiono altri due anziani. I casi ufficiali di positività salgono a 16.
In questi giorni tutti sono inconsapevoli del pericolo. Molti amministratori invitano alla calma, pur continuando a chiedere il rispetto delle lasche norme di prevenzione. «Bergamo is running», come «Milano non si ferma», sono i messaggi più condivisi sui social. Il tempo e le morti riveleranno che gli inviti a non farsi spaventare dal coronavirus erano stati avventati.
Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano Lombardo: «Il 27 febbraio decidemmo di prevedere la chiusura alle 18 di tutti i locali della media Val Seriana. La linea doveva rimanere intransigente. Fu una posizione impopolare, anche perché c’erano altri sindaci che dicevano di riaprire. Ricevemmo molti insulti dai cittadini. Non fu facile».
Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo: «Inviammo una raccomandazione a tutti i medici della provincia di Bergamo. Era un manifesto da appendere in sala d’attesa per dire agli assistiti che l’accesso sarebbe stato solo su appuntamento. Già in quel periodo era molto difficile acquistare le mascherine. È stato uno dei motivi che ha provocato il disastro sul territorio. Quando è esplosa l’epidemia, i medici sono andati in giro a fare visite proteggendosi come potevano».
Riccardo Munda, medico di famiglia a Selvino: «Iniziai a visitare molte persone a domicilio. Moltissimi anziani. Qui a Selvino la gente è forte e spesso si sente così forte che è difficile farsi dire i sintomi. Tendono a sottovalutare il problema e poi le condizioni degenerano. Per questo andai a vedere come stavano tutti i pazienti. Ho fatto 500 visite a domicilio in tre mesi».
Francesco Zambonelli: «Mio papà iniziò a stare molto male venerdì 28 febbraio. Aveva 39 di febbre, non riusciva a reggersi in piedi. Chiamai il 112 e dissi che l’avrei portato al pronto soccorso di Alzano. Fu l’ultima volta che lo vidi».
Cesare Maffeis, medico e direttore generale della RSA di Cene, in Val Seriana: «Sabato 29 febbraio inviai una lettera a Regione Lombardia per chiedere la chiusura di tutte le RSA. In quei giorni pensavo che serviva un po’ di coraggio, a tutti. Ci obbligarono a tenerle aperte».
Rainiero Rizzini, responsabile della sala operativa dell’emergenza urgenza all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: «Non c’era ancora la percezione dell’emergenza sanitaria. Quale era il paziente sospetto? Quello che veniva dalla Cina. In realtà ci accorgemmo in fretta che il problema ormai era già in casa nostra. Domenica 1 marzo ci fu il primo caso di positività nel personale della sala operativa dell’emergenza urgenza».
Francesco Zambonelli: «Domenica 1 marzo arrivò l’esito del tampone fatto a mio papà: positivo. Lo trasferirono all’ospedale Papa Giovanni di Bergamo».
Giorgio Gori, sindaco di Bergamo: «Durante il pomeriggio del 3 marzo mi preoccupai molto. Era uscito un lancio di agenzia in cui Giovanni Rezza (direttore della prevenzione del ministero della Salute, ndr) diceva che sarebbe servita la zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro a protezione della città di Bergamo. Da lì partirono tentativi di comunicazione con Roma, da cui arrivavano solo notizie frammentarie. “Forse domani”, dicevano. Regione Lombardia si chiamò fuori dicendo di non avere poteri».
[Testimonianza originale del 5 marzo]. Giulio Gallera, assessore al Welfare della Regione Lombardia: «C’è stato un incremento di 25 decessi tra mercoledì 4 e giovedì 5 marzo. Si tratta di persone molto anziane, over 70 anni, della zona rossa, del Lodigiano e alcuni anche nella Bergamasca. Nello specifico, su Bergamo, i dati evidenziano che la più grande crescita da mercoledì a giovedì, più 114 casi, avviene proprio nella provincia bergamasca: si tratta di pazienti positivi che sono fortemente concentrati nella Val Seriana. I dati sono questi, i tecnici stanno facendo la loro valutazione e notizie informali ci dicono che i tecnici stanno chiedendo misure ufficiali, ma non abbiamo informazioni dal governo. Al di là dell’assunzione di un provvedimento restrittivo, invitiamo i cittadini di quella zona a ridurre la loro vita sociale, a essere molto attenti e prudenti».
Giorgio Gori, sindaco di Bergamo: «Il 5 marzo ricevetti una mail da una dirigente sanitaria, che non conoscevo e che stava lavorando nell’unità di crisi della Regione. Mi scrisse a tarda ora, e con molta franchezza mi espose la situazione: abbiamo un indice R0 a due. Il 45 per cento dei casi è sintomatico, il 10 per cento necessita di terapia intensiva. Di questo passo non basteranno i letti di terapia intensiva. Da lì in poi ci sono state solo conferme di quella visione che in quel momento mi sembrava fin troppo pessimistica».
Francesco Zambonelli: «Riuscimmo a tenerci in contatto con mio papà via telefono. Era vigile. Percepimmo però che le sue condizioni si stavano aggravando e che pensava di non farcela. Si capiva da come parlava».
In provincia di Bergamo ci sono 537 casi positivi. Molti sono concentrati in Val Seriana: 71 sono a Nembro, 35 ad Alzano Lombardo, 25 ad Albino, 17 a Villa di Serio, 12 a Seriate, 8 a Gazzaniga. Nella città di Bergamo i contagiati sono 54.
Nel tardo pomeriggio di giovedì 5 marzo nelle strade di Alzano Lombardo e Nembro si vedono furgoni dei carabinieri che perlustrano la zona. Circa 300 tra carabinieri, poliziotti e militari della Guardia di Finanza sono alloggiati in alcuni alberghi, in pianura, in attesa della zona rossa. Venerdì mattina, 6 marzo, le strade sono ancora aperte.
[Testimonianza originale del 6 marzo] Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano Lombardo: «Se verrà fatta la zona rossa penso che nessuno si permetterà di commentare o giudicare la scelta. L’importante è che ce lo dicano, magari con un po’ di anticipo. Ho chiamato la prefettura. Mi hanno detto di essere pronti. Voglio essere lucido e non farmi distrarre troppo. La cosa importante è la questione sanitaria, promuovere le buone pratiche e il rispetto delle regole. Questa incertezza sta diventando protagonista e non va bene. Ho qui le ordinanze pronte. Stiamo organizzando i volontari della Protezione civile. Siamo consapevoli che in questo momento deve esserci qualcuno che decide e gli altri che eseguono».
Nella tarda serata di sabato 7 marzo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte firma un decreto che invita a «evitare in modo assoluto» gli spostamenti «in entrata e in uscita, nonché all’interno dei territori». Il decreto vale in tutte le province della Lombardia, oltre a quelle di Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Asti e Alessandria.
IV. L’emergenza
Maria Giulia Madaschi, responsabile della RSA di Alzano Lombardo: «Ricordo che tra il 7 e il 10 marzo molti ospiti iniziarono a stare male. È stato un momento molto difficile. Non sapevo cosa ci aspettasse».
Angelo Giupponi, medico responsabile del 118 in provincia di Bergamo: «All’ospedale di Bergamo stavano convertendo i reparti. Noi anestesisti correvamo a intubare gente. Intubavi a seconda dei posti che venivano dichiarati liberi nelle rianimazioni nel resto della regione. Se ti dicevano che avevano trovato tre posti, intubavi tre pazienti. In una notte ho intubato cinque persone. Dovevi scegliere solo quello che in quel momento era messo peggio. I nostri ospedali andarono in crisi rapidamente. Ogni 16 minuti arrivava un paziente Covid “brutto”, in gravissime condizioni».
Francesco Zambonelli: «Dal 10 marzo non riuscimmo più a comunicare al telefono con mio papà. Se ne stava andando».
Rainiero Rizzini, responsabile della sala operativa dell’emergenza urgenza all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: «L’effetto è stato quello di una bomba chimica scoppiata in Val Seriana. L’onda d’urto ha poi travolto anche la città di Bergamo».
Cesare Maffeis, medico e direttore generale della RSA di Cene, in Val Seriana: «La media Val Seriana è stata una perfetta polveriera. Senza interruzioni urbanistiche e aziendali. C’è un unico ospedale dove vengono fatte migliaia di prestazioni specialistiche ogni anno, centinaia ogni giorno. Persone che poi hanno incontrato la mamma, il nonno, il papà, la zia».
In pochi giorni il numero di chiamate di soccorso per motivi respiratori aumenta fino a superare la soglia di 500 chiamate in un solo giorno. Domenica 8 marzo i contagi ufficiali sono quasi mille, quattro giorni dopo saranno 2.136. Sono i numeri ufficiali che arrivano dai pochi tamponi a disposizione. In realtà in tutta la provincia ci sono migliaia di positivi malati.
Mercoledì 11 marzo Diego Bianco, 46 anni, operatore del 118 e collega di Rainiero Rizzini, sta male. Viene sottoposto a un tampone. Venerdì 13 marzo arriva l’esito: è positivo. Nella notte tra venerdì e sabato Bianco muore nel letto di casa a causa della COVID-19.
Rainiero Rizzini, responsabile della sala operativa dell’emergenza urgenza all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: «Fino a quel momento molti pensavano che morissero solo gli anziani. Diego era un uomo di 47 anni, in salute. Non aveva avuto nessun problema che potesse metterlo a rischio. La sua morte è stato un duro colpo per tutti noi in un momento di grandissima tensione. Oltre a perdere un collega ci siamo resi conto della nostra assoluta vulnerabilità. “Possiamo morire”, abbiamo pensato tutti. È stato devastante. Siamo riusciti a reagire anche grazie alla moglie di Diego, che ci ha sostenuto e ci ha dato la forza di andare avanti».
Maria Giulia Madaschi, responsabile della RSA di Alzano Lombardo: «Sentivo sempre le sirene. La sera, la mattina, di notte. Le sentivo anche a casa. Le sirene delle ambulanze e le campane delle chiese. Sono suoni che mi hanno martellato il cervello».
Il numero dei morti aumenta giorno dopo giorno. Moltissime persone muoiono in ospedale. Molte altre si aggravano in poco tempo e moriranno nelle loro case. Sono i morti non contemplati nei bilanci ufficiali perché non sottoposti a un tampone.
Angelo Giupponi, medico responsabile del 118 in provincia di Bergamo: «Molti hanno parlato di un problema delle terapie intensive, ma quello era l’ultimo passo. Prima c’era il problema dei pazienti che morivano a casa, dei pazienti che morivano nelle ambulanze in attesa. Siamo arrivati a otto ore di attesa prima di entrare in pronto soccorso. E non perché i nostri colleghi erano lì a girarsi i pollici, ma perché ti dicevano che non avevano più letti dove mettere la gente».
Francesco Zambonelli: «Il 13 marzo mi chiamò un medico dell’ospedale di Bergamo, dove era ricoverato mio papà. Mi disse che non sapeva se mio papà sarebbe arrivato a domani. Chiesi se fosse possibile andare a vederlo un’ultima volta. Mi disse che se mi avesse dato una tuta per proteggermi dal virus sarebbe stata una tuta in meno per i suoi colleghi, medici e infermieri. Anche loro erano al limite. Non erano pronti, non eravamo pronti. Mio papà morì il giorno stesso».
Il 18 marzo la prima colonna di mezzi militari trasporta decine di salme nei cimiteri di molte città del Nord Italia, dove saranno cremate. Nel solo mese di marzo circa 1.300 anziani sono morti nelle RSA di tutta la provincia. A Nembro e Alzano Lombardo la mortalità è aumentata di oltre il 600%. Nei mesi di marzo e aprile 2020, in provincia di Bergamo sono morte seimila persone in più rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti. In quei due mesi i decessi ufficiali per COVID-19 sono stati 2.971.