Cos’è successo all’app Immuni
Durante la seconda ondata l’app di tracciamento dei contagi è stata irrilevante, e il governo Draghi dovrà decidere cosa farne
All’inizio della seconda ondata di contagi da coronavirus, nell’autunno dell’anno scorso, tra i pilastri della strategia del governo italiano per contrastare la pandemia c’era l’app di contact tracing Immuni, diffusa al pubblico nel giugno del 2020. Ma a diversi mesi di distanza, e nonostante alcuni tentativi iniziali di sostenere l’app da parte del governo, Immuni non ha dato nessun contributo di rilievo al contenimento della pandemia, e anzi è ben presto uscita sia dal discorso pubblico sia dalla strategia del governo di Giuseppe Conte: ora il suo successore, Mario Draghi, dovrà decidere se cercare di rilanciare l’app o concentrarsi su altre priorità.
I problemi con le app di contact tracing non riguardano soltanto l’Italia: in gran parte dei paesi in cui l’anno scorso ne è stata diffusa una, i risultati sono stati scarsi o quanto meno discussi, e c’è stato un certo dibattito tra chi ritiene che siano necessari aggiustamenti profondi per rendere le app davvero efficaci e chi invece si è ormai convinto che un’app non sia lo strumento adatto per cercare di tracciare i contatti durante una pandemia.
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In Italia, però, il problema è aggravato da un tasso di adozione più basso rispetto a paesi come la Germania, il Regno Unito e la Francia — alcuni dei quali hanno reso disponibile ai loro cittadini un’app di tracciamento dopo l’Italia — e dal fatto che l’app negli ultimi mesi sembra essere uscita completamente dal dibattito pubblico: la conseguenza è che l’attività di segnalazione di Immuni va a rilento da mesi ed è diventata praticamente ininfluente, come mostrano i numeri pubblicati sul sito ufficiale dell’app.
I numeri
Il compito di Immuni è avvertire chi l’ha installata che è entrata in contatto stretto con una persona che in seguito è risultata positiva. Per ottenere questo risultato, le app delle due persone si scambiano degli ID anonimi tramite la tecnologia Bluetooth, sfruttando un protocollo sviluppato da Apple e Google, che gestiscono rispettivamente iOS, il sistema operativo degli iPhone, e Android. Quando una delle due persone risulta positiva, carica sul server di Immuni i dati necessari per avvertire i suoi contatti – tramite l’app e con l’assistenza di un operatore. Le persone entrate in contatto con il positivo, in questo modo, vengono avvertite con una notifica sul telefono.
Il sito di Immuni presenta numerosi dati sulla diffusione e l’utilizzo dell’app, e sono tutti poco convincenti. I download dell’app, dopo una buona crescita in autunno, all’inizio della seconda ondata, si sono praticamente fermati: dalla fine di ottobre 2020 a metà febbraio 2021 sono passati da 9,3 a 10,3 milioni. Tra la fine di ottobre e oggi, inoltre, il numero di persone positive che hanno caricato i loro dati sull’app è passato da 1.530 a 11.300 circa, e il numero di persone avvertite tramite notifica da 36.200 a 88.200 circa.
Questi sono dati totali, che sono molto scarsi se si considera che i nuovi casi positivi da coronavirus rilevati in Italia sono stati decine di migliaia al giorno in questi mesi e che testimoniano l’irrilevanza di Immuni durante la seconda ondata. Non ci sono studi che abbiano stimato quanti contagi l’app abbia contribuito a evitare, ma è probabile che si tratti di un numero poco rilevante. Ovviamente ogni singolo contagio evitato è una buona notizia, ma negli intenti iniziali l’impatto di Immuni avrebbe dovuto essere molto più ampio e avrebbe dovuto contribuire in maniera sostanziale a contenere il contagio, cosa che non è successa.
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Una delle ragioni di questa irrilevanza è il basso tasso di adozione, di cui è responsabile almeno in parte una certa disattenzione del governo: dopo una campagna pubblicitaria di livello nazionale cominciata a settembre e proseguita per qualche settimana, voluta dal ministero per l’Innovazione allora guidato da Paola Pisano e ripresa anche da alcuni giornali, il governo non ha fatto praticamente più niente per promuovere Immuni, e anche l’opinione pubblica si è praticamente dimenticata dell’app. Una delle ragioni è che, con l’arrivo dell’inverno, l’attenzione di tutti si è concentrata sui vaccini e sulla campagna vaccinale. Con l’inizio del 2021, inoltre, la crisi del governo Conte ha contribuito a monopolizzare il discorso pubblico.
Ma la ragione più grave dell’insuccesso di Immuni riguarda il suo scarsissimo utilizzo. I download sono stati 10,9 milioni: pochi, ma si tratta comunque del 19 per cento della popolazione italiana, un dato che secondo alcune ricerche potrebbe già avere un effetto, seppure basso, sulla riduzione dei contagi. Il problema è che, dei milioni di utenti che hanno scaricato l’app, pochissimi l’hanno usata per caricare i loro dati, se positivi, e pochissimi hanno ricevuto notifiche di esposizione.
Facciamo un confronto con la Germania: alla fine di gennaio 2021, il numero dei download dell’app tedesca, che si chiama Corona-Warn-App, era il 150 per cento più alto quella italiana (25 milioni contro 10 milioni). Il distacco è importante, ma non esagerato e in parte giustificato dal fatto che la popolazione tedesca è un po’ più numerosa di quella italiana. Ma il numero di utenti positivi tedeschi che hanno caricato i loro dati sull’app è del tutto fuori scala: sono stati 240 mila contro gli 11 mila italiani: è il 2.080 per cento in più. E questo, inoltre, non significa che Corona-Warn-App sia stata un grande successo, anzi: in Germania ci sono polemiche piuttosto vivaci sul fatto che l’app, anche lì, abbia avuto scarso impatto e abbia deluso le aspettative.
Dunque, basandoci sui numeri, la ragione principale dell’insuccesso di Immuni sta nel fatto che l’app non è mai stata davvero integrata nel sistema di prevenzione sanitaria italiano.
Questo era un problema molto evidente già lo scorso autunno: per consentire agli utenti positivi di caricare i dati sul server di Immuni, infatti, era necessario che intervenissero gli operatori sanitari che comunicavano il risultato del tampone, compiendo una procedura rapida, ma a volte macchinosa. Alcune Regioni si erano perfino rifiutate di caricare i dati, considerandolo uno spreco di tempo. Le cose sono poi migliorate, ma non a sufficienza.
Per risolvere questo problema, a fine ottobre il governo aveva ordinato tramite decreto la creazione di un call center per facilitare le operazioni di caricamento dei dati. È stato l’ultimo atto rilevante del governo Conte a proposito di Immuni. Il call center è stato realizzato tra dicembre e gennaio, ma quasi non si è vista la differenza.
Il call center e il caricamento dei dati sull’app
Col decreto di ottobre, il governo aveva finanziato il call center con 4 milioni di euro, per facilitare le operazioni di caricamento dei dati e anche per fornire assistenza agli utenti di Immuni che avevano ricevuto la notifica di contatto a rischio. Quest’ultima attività è stata in gran parte tralasciata, ma il call center per caricare i dati è attivo: a gennaio 2021 è cominciata una sperimentazione in Campania, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Molise e provincia autonoma di Trento, e a partire dalla fine del mese è stato attivato in tutte le regioni.
In teoria, adesso caricare i propri dati su Immuni dovrebbe essere estremamente facile: dopo che si è ricevuto il risultato positivo di un tampone molecolare, basta comunicare all’operatore del call center (il numero è 800 91 24 91) il proprio codice CUN (codice univoco nazionale), che dovrebbe essere stato inviato dalla propria ASL via SMS o sul referto del tampone, assieme agli ultimi otto numeri della tessera sanitaria; l’operatore a quel punto si occuperà di sbloccare il caricamento dei dati.
Nelle prossime settimane, inoltre, il caricamento dovrebbe diventare ancora più semplice: Immuni dovrebbe ricevere un aggiornamento che consentirà di inserire il codice CUN e i dati della tessera sanitaria direttamente sull’app, senza bisogno di chiamare il call center. L’aggiornamento è praticamente pronto, ma manca ancora l’approvazione del Garante per la privacy.
Il call center, e in seguito l’aggiornamento dell’app, dovrebbero facilitare di molto la procedura di attivazione di Immuni e consentirle di cominciare ad avere un certo impatto, ma per ora non sta succedendo: nelle ultime settimane il numero di persone risultate positive al coronavirus che hanno caricato i loro dati non è aumentato, se non impercettibilmente.
È possibile che la situazione migliori in futuro, ma ci sono ancora due problemi rilevanti in questo sistema: il primo è che, anche con un call center centralizzato, il buon funzionamento di Immuni rimane dipendente dalla collaborazione dei servizi sanitari regionali, da cui dipende l’erogazione del codice CUN. La frammentazione del servizio sanitario è stata uno degli ostacoli più grossi all’efficienza dell’app in questi mesi, e in buona parte lo è ancora: per esempio, alcune regioni inviano il codice CUN via SMS mentre altre lo stampano sul referto del tampone, o fanno entrambe le cose. Non ci sono ancora dati precisi perché il sistema è stato reso pubblico meno di due mesi fa, ma a livello aneddotico si può dire che non sempre il codice CUN arriva.
Il secondo problema rilevante è che il governo Conte, negli ultimi mesi e almeno nella comunicazione pubblica, aveva praticamente abbandonato l’app. Sono state fatte alcune migliorìe (il call center, il futuro aggiornamento) ma non sono state comunicate in maniera sufficiente, e Immuni è uscita dal discorso pubblico.
Cosa farà il governo Draghi?
La figura centrale per capire cosa succederà a Immuni con il nuovo governo è probabilmente Vittorio Colao, il nuovo ministro per l’Innovazione.
Immuni è un progetto particolare anche perché la fase di nascita e poi di gestione dell’app è stata divisa tra più ministeri: l’app è stata voluta e sostenuta da Paola Pisano, ministra per l’Innovazione dell’ultimo governo Conte, che ha stabilito i bandi di gara e i criteri tecnici per lo sviluppo. Ma la gestione dell’app, per evidenti competenze, è stata affidata al ministero della Salute. Roberto Speranza, ministro della Salute sia nel governo Conte sia in quello guidato da Draghi, non è mai stato particolarmente entusiasta nei confronti di Immuni: non l’ha praticamente mai citata nei suoi discorsi pubblici, il livello di coinvolgimento dei funzionari del ministero nel progetto è spesso stato piuttosto ridotto, e buona parte delle operazioni è stata messa sotto la responsabilità del commissario straordinario per l’emergenza, Domenico Arcuri.
Per questo è probabile che se ci sarà un piano di rilancio di Immuni verrà di nuovo dal ministero dell’Innovazione, che con Colao ha ottenuto maggiore centralità. Il nuovo governo è ancora in fase di insediamento, Colao non ha ancora reso pubbliche le nomine del suo staff, e rispondendo a una richiesta del Post i funzionari del ministero hanno detto che la «titolarità del progetto» spetta al ministero della Salute, ma è probabile che le cose cambieranno dopo un assestamento.
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Colao, inoltre, si è già espresso più volte su Immuni e, in generale, sulle app di contact tracing nella primavera dell’anno scorso, quando fu nominato a capo della cosiddetta “task force” di esperti voluta dal governo Conte per formulare un piano sulla cosiddetta “fase 2”. In un intervento pubblicato a fine marzo sul Corriere della Sera, prima della nomina nella “task force”, Colao scrisse che il tracciamento digitale sarebbe stato efficace «solo se si utilizzeranno i dati delle reti mobili in congiunzione a una app dedicata con Gps», il che significa che, nell’idea di Colao, sarebbe stato necessario tracciare anche gli spostamenti delle persone.
Questa è una funzione che è stata esplicitamente esclusa da Immuni per ragioni piuttosto chiare di protezione della privacy, e che sarebbe molto complicato inserire: l’app si basa su un protocollo creato da Apple e Google, che vietano categoricamente la raccolta di dati sulla posizione dell’utente. Per inserire il tracciamento della posizione bisognerebbe abbandonare il protocollo di Apple e Google, rinunciare alla compatibilità con la maggior parte degli smartphone e all’interoperabilità con l’estero, e in pratica ripartire da zero — senza contare le preoccupazioni per la privacy che questo sistema genererebbe nei cittadini.
In generale Colao, che fino al 2018 è stato amministratore delegato della multinazionale di telecomunicazioni Vodafone, negli anni si è espresso più volte in maniera critica contro i presunti eccessi nella protezione della privacy digitale e contro l’anonimato online, come ha notato il giornalista ed esperto di politiche digitali Fabio Chiusi in una serie di tweet che raccolgono vecchie dichiarazioni. Non è detto tuttavia che le opinioni che Colao esprimeva da manager rispecchieranno necessariamente il suo operato da ministro.
Negli ultimi giorni, né Colao né altri esponenti del governo Draghi hanno citato in pubblico l’app Immuni.
Come va negli altri paesi
Le app di contact tracing non sono state adottate uniformemente in tutto il mondo: si può dire, anzi, che siano quasi un’esclusiva dell’Occidente. Praticamente tutti i paesi d’Europa ne hanno una, oltre a molti stati degli Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda. Alcuni paesi asiatici come Cina, Corea del Sud e Taiwan — che sono anche stati quelli che hanno avuto maggior successo nel contenimento del contagio — hanno fatto ampio uso di strumenti tecnologici e hanno anche sviluppato alcune app, per esempio per gestire le quarantene, ma non hanno app di contact tracing paragonabili a Immuni.
In generale, e con poche eccezioni, in tutti i paesi in cui è stata adottata un’app di contact tracing ci sono stati delusioni e insuccessi. Facciamo alcuni esempi.
In Germania, come già detto, l’app corona-Warn-App è diventata oggetto di polemiche, nonostante i numeri enormemente migliori di quelli di Immuni. L’impatto dell’app nel contenimento della pandemia è stato scarso, e i politici tedeschi si stanno chiedendo se la ragione sia che, a causa delle molte limitazioni imposte dal protocollo di Apple e Google per salvaguardare la privacy, i dati raccolti da Corona-Warn-App non siano sufficienti per un tracciamento efficace. Lo scorso ottobre Markus Söder, primo ministro della Baviera e una delle figure più importanti del centrodestra tedesco, definì l’app come una «tigre senza denti». La polemica si è rinnovata anche nelle scorse settimane, anche se alcuni funzionari del governo hanno ricordato che i numeri, benché ridotti, sono comunque buoni.
In Francia, il problema principale dell’app TousAntiCovid è che, per decisione del governo, non utilizza i protocolli di Apple e Google, e dunque ha seri problemi di compatibilità con gli smartphone. In Spagna, i download dell’app Radar COVID sono stati poco più di 7 milioni e le persone con test positivo che hanno caricato i loro dati sono state 50 mila in tutto: i media parlano apertamente di «fallimento». Prendendo in considerazione i progetti di vari stati, a dicembre il sito The Verge sosteneva che le app di contact tracing «non sono state all’altezza delle grandi aspettative».
Semplificando molto, le ragioni di questi fallimenti o di queste parziali delusioni sono più o meno sempre le stesse, anche se con ovvie variazioni di paese in paese: tasso di adozione scarso, poco utilizzo, cattiva integrazione con l’infrastruttura della sanità.
Alcuni governi, pur senza perdere la speranza che il contact tracing digitale possa funzionare, hanno cominciato a integrare le loro app con funzioni diverse. In Francia, Figaro ha scritto che TousAntiCovid è «meno utilizzata come sistema di tracciamento di contatti e più come mezzo di informazione»: tramite l’app, il governo invia ai cittadini informazioni utili sulle misure per contenere il contagio e sul piano vaccinale, tra le altre cose. A breve, l’app francese dovrebbe adottare un sistema che consente a chi frequenta bar, ristoranti e altri luoghi pubblici di segnare il proprio passaggio tramite la scansione di un codice QR, così da essere avvertiti nel caso in cui si verificasse un focolaio in quel luogo. Lo stesso fa l’app britannica. Anche la Corona-Warn-App tedesca ha cominciato a mostrare più statistiche e informazioni. Sono tutte funzioni che a Immuni, per ora, mancano.
Un caso almeno apparentemente positivo è invece quello britannico, che aveva avuto un inizio difficile. Il governo aveva dapprima sviluppato un’app che non utilizzava il protocollo di Apple e Google, e dopo essersi accorto che non funzionava bene l’aveva abbandonata e ne aveva rifatta un’altra daccapo, che è stata resa disponibile a settembre del 2020: si chiama NHS Covid-19 App ed è stata scaricata 21 milioni di volte in Inghilterra e Galles (Scozia e Irlanda del Nord hanno le loro app). Negli ultimi giorni è circolato molto uno studio pubblicato all’inizio di febbraio da alcuni ricercatori dell’Istituto Alan Turing e dell’Università di Oxford, che hanno studiato la correlazione tra mortalità e aree del paese in cui l’app è stata più scaricata, e hanno stimato che NHS Covid-19 App potrebbe aver evitato tra le 200 mila e le 900 mila infezioni fra novembre e dicembre del 2020.
Lo studio purtroppo si basa quasi esclusivamente sull’osservazione delle correlazioni: «non sono stati fatti studi randomizzati o sistematici», scrivono i ricercatori, ed «è possibile che i cambiamenti nell’utilizzo dell’app nel tempo e sulla base delle aree geografiche riflettano cambiamenti di altro tipo, e che la nostra analisi attribuisca in maniera errata l’effetto all’app».