Fellini spiegato da Scorsese
In un saggio per Harper's Magazine, il regista americano lo chiama “Maestro” e spiega cosa può insegnare al cinema del futuro
Martin Scorsese è un regista al quale, oltre che fare cinema, piace molto parlare e scrivere di cinema. Un anno fa lo aveva fatto per spiegare le tante cose che non gli piacevano nei film della Marvel e in gran parte del cinema degli ultimi anni, e più recentemente ha scritto per Harper’s Magazine un lungo saggio (di quasi 5mila parole) dedicato «a Federico Fellini e all’arte perduta del cinema». Il saggio si intitola “Il Maestro”: scritto così, in italiano, anche nella versione originale.
Il testo si apre con una sorta di prologo molto newyorkese: parla del giornale Village Voice, della Fifth Avenue, di Broadway e di alcuni grandi film in cui poteva imbattersi un «giovane uomo, alla fine dell’adolescenza» nel 1959, leggendone i titoli fuori dai cinema o studiandone le recensioni sulle riviste.
Scorsese – nato a New York nel 1942 – fa poi un salto in avanti fino a un presente in cui «l’arte cinematografica è stata sistematicamente svalutata, umiliata, emarginata e ridotta al suo minimo comune denominatore: “il contenuto”». Secondo Scorsese, fino a circa 15 anni fa, quando nel cinema si parlava di contenuto lo si faceva per metterlo in relazione con la forma. Negli ultimi anni “contenuto” è invece diventato ogni tipo di immagine in movimento: «un film di David Lean, il video di un gattino, una pubblicità del Super Bowl, il seguito di un film di supereroi, l’episodio di una serie tv».
Tutta questa introduzione serve a Scorsese per dire che un tempo c’era un terreno più fertile per permettere a grandi registi di «reinventare il cinema». Scorsese cita tanti esempi – Godard, Bertolucci, Antonioni, Bergman, Imamura, Ray, Cassavetes, Kubrick, Varda, Warhol, Welles, Bresson e Huston – ma scrive che al centro di tutto c’era Federico Fellini, «un regista che tutti conoscevano e un artista il cui nome era sinonimo del cinema e di quello che poteva fare». Un nome che «evocava un certo stile, un certo atteggiamento verso il mondo», e che divenne addirittura un aggettivo. Scorsese scrive:
Negli anni Sessanta, Fellini fu più di un regista. Come Chaplin, Picasso e i Beatles, era più grande della sua stessa arte. A un certo punto nemmeno si trattava più di questo o quel film, ma di come tutti i suoi film fossero un unico grande gesto scritto che attraversava la galassia. […] L’unico paragone nel cinema era con Alfred Hitchcock, ma Hitchcock era qualcosa d’altro: un marchio, un genere a sé. Fellini era il virtuoso del cinema.
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Con riferimento alla storia di Fellini, Scorsese ricorda come «iniziò nel neorealismo», addirittura contribuendo alla sua “invenzione”, ma finì poi per rappresentare «il suo opposto», affermandosi come «un favolista, un mago, un affabulatore».
Parlando del film I Vitelloni – uscito in Italia nel 1953 e arrivato negli Stati Uniti tre anni dopo – Scorsese spiega come sia stato il più personale di Fellini e che, sebbene parlasse di cinque amici di Rimini, anche a lui che lo vide a New York «sembrava di conoscere quei ragazzi da tutta la vita, come se fossero del suo stesso quartiere». Scorsese scrive che a un certo punto della sua vita lui «fu uno di quei ragazzi» e che il suo Mean Streets prese le mosse proprio da quel film di Fellini.
Con riferimento alla sua storia personale, ricorda invece che La strada – che negli Stati Uniti arrivò nel 1956 – lo vide per la prima volta in televisione, nella sua famiglia di origini italiane, che quindi trovò particolarmente toccanti certi suoi momenti. Più in generale spiega invece che La strada fu il film «in cui Fellini divenne davvero Fellini», per il quale «aveva lavorato e sofferto di più», tra le altre cose scrivendo un copione di oltre 600 pagine.
Ovviamente c’è anche spazio per La Dolce Vita: in questo caso Scorsese ricorda l’esperienza di averlo visto nel 1961 in una sala piena di gente. «Ci sedemmo, si spensero le luci e potemmo assistere a un maestoso e terrificante affresco cinematografico» fatto da un artista che «aveva trovato il modo di esprimere l’ansia della minaccia nucleare e la sensazione che niente più avesse senso perché tutto e tutti potevano essere annientati in un istante». Ma c’era anche, scrive Scorsese, l’amore per l’arte del cinema, «e di conseguenza per la vita stessa». Qualcosa di simile a quello che «stava succedendo nel rock and roll» con i dischi della “svolta elettrica” di Bob Dylan, o il White Album dei Beatles e Let It Bleed dei Rolling Stones, a loro volta «espressioni di ansia e disperazione e, allo stesso tempo, esperienze entusiasmanti e trascendenti».
Portando avanti il parallelismo tra Fellini e Dylan, Scorsese scrive che più o meno nello stesso periodo entrambi si trovarono a essere adorati, con tutti i loro ammiratori che aspettavano trepidanti di vedere cosa avrebbero fatto dopo. E per entrambi, la soluzione fu «guardarsi dentro». Nel caso di Fellini la soluzione fu fare 8½, «un arazzo intrecciato dai suoi sogni» le cui scene sono state viste innumerevoli volte da Scorsese, che comunque dice di chiedersi ancora – lui, uno che di certo se ne intende – «come ha fatto? com’è possibile che ogni movimento, ogni gesto, ogni folata di vento sembri perfettamente al suo posto? com’è possibile che ogni cosa sembri inquietante e inevitabile, come in un sogno?».
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Scorsese spiega anche che la bellezza di 8½ sta di certo nella sua celebratissima parte visiva, ma anche nei suoni, nei confronti dei quali «Fellini era tanto creativo quanto lo era con le immagini». Scorsese scrive anche che 8½ fu il film che gli fece capire cosa poteva essere il cinema e fin dove poteva arrivare. E aggiunge che «di fatto nel film si vede Fellini mentre fa il film davanti ai nostri occhi, perché il processo creativo è la struttura».
«8½» ha scritto Scorsese «è la più pura espressione di amore per il cinema che ci sia».
Ad Amarcord, uscito nel 1973, Scorsese dedica poche righe e scrive che lo trova «meno audace» dei precedenti. Scrive invece di aver molto apprezzato Il Casanova di Federico Fellini: un film «freddo come il ghiaccio, più freddo dei più profondi cerchi dell’inferno dantesco».
Verso la fine del suo lungo saggio, Scorsese racconta che conobbe Fellini nel 1970 – quando gli consigliò un «magnifico ristorante» per mangiare un buon piatto di lasagne – e che finì per «conoscerlo abbastanza bene da poterlo chiamare amico». Racconta anche di quanto gli piacque vedergli dirigere un film, di come fosse sempre uno «showman» e di come provò – senza riuscirci e rimanendoci molto male – a far distribuire negli Stati Uniti La voce della Luna, l’ultimo film di Fellini.
Tornando alle premesse del suo saggio, Scorsese scrive poi che «non si può chiedere all’industria cinematografica, per come è ora, di prendersi cura del cinema» perché c’è troppa enfasi sul concetto di “industria” e che, per provare a cambiare le cose, «c’è bisogno di capire cosa è cinema e cosa non lo è».
«Federico Fellini» ha scritto Scorsese «è un buon punto da cui partire».
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