Perché i gestori degli impianti sciistici sono arrabbiati
Più che per il prolungamento della chiusura, per il ritardo con cui è stata comunicata: domenica sera i gatti delle nevi preparavano le piste per oggi
I gestori degli impianti di risalita e molti amministratori locali hanno accolto con rabbia e frustrazione la decisione di rinviare l’apertura delle piste da sci almeno fino al 5 marzo. Nel tardo pomeriggio di domenica 14 febbraio, poche ore prima dell’annuncio della decisione del governo, in molte località sciistiche i gatti delle nevi stavano preparando le piste in vista dell’apertura degli impianti di risalita, fissata oggi in Lombardia, Piemonte e Valle d’Aosta, e mercoledì 17 febbraio in Veneto.
Il lavoro degli impiantisti è stato fermato dall’ordinanza firmata dal ministro della Salute, Roberto Speranza, che ha prolungato la chiusura per quasi tre settimane. Il rinvio è stato deciso in seguito al parere del Comitato tecnico scientifico che ha sconsigliato la riapertura degli impianti a causa della preoccupante diffusione delle cosiddette varianti del coronavirus, più contagiose. Nel comunicato diffuso domenica sera, il ministero ha detto che il «governo si impegna a compensare al più presto gli operatori del settore con adeguati ristori».
Già pochi minuti dopo l’annuncio del prolungamento della chiusura, ci sono state proteste di molti operatori e dei presidenti delle Regioni che nelle ultime settimane avevano lavorato per garantire la riapertura degli impianti in sicurezza con regole e accorgimenti per provare a evitare code e assembramenti, che apparentemente sono stati giudicati comunque inevitabili dal governo.
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Più che la conferma della chiusura – è la terza volta che l’inizio della stagione sciistica viene rinviato – a far arrabbiare gli operatori è stata la gestione delle comunicazioni che negli ultimi giorni ha portato a sprecare lavoro e risorse economiche. In vista della riapertura, soprattutto in Lombardia, in Piemonte e in Valle d’Aosta, i gestori degli impianti avevano investito decine di migliaia di euro per preparare le piste, assunto i lavoratori stagionali, e iniziato a vendere migliaia di skipass che ora dovranno essere rimborsati. Ristoranti e rifugi avevano ordinato merce deperibile, i negozi avevano fatto rifornimenti di abiti e materiale tecnico.
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Il problema delle risorse investite nella fase di preparazione è stato parzialmente attutito in Veneto, dove il presidente Luca Zaia aveva firmato un’ordinanza per riaprire mercoledì 17 febbraio (questo aveva ritardato alcune operazioni completate invece nel weekend in Piemonte, Lombardia e Valle d’Aosta). Nelle province autonome di Trento e Bolzano, in zona arancione, la riapertura era già stata compromessa da una preoccupante crescita dei contagi.
Le conseguenze sono significative per tutta la delicata economia della montagna, già instabile a causa dello sviluppo spesso controverso e poco sostenibile del settore degli impianti di risalita. Negli ultimi anni hanno chiuso molte piccole stazioni, e si è intensificato il dibattito sul futuro di quelle più grandi, considerato da molti problematico non soltanto per l’impatto ambientale ma anche per la quantità di investimenti richiesti, in primo luogo per sopperire all’ormai comune mancanza di neve naturale (che, invece, proprio quest’anno abbonda).
A questo punto è difficile dire se si riuscirà a riaprire dal 5 marzo, oppure se la stagione sciistica si può considerare finita. «Siamo furiosi, sembra una presa in giro», commenta Valeria Ghezzi, presidente nazionale dell’ANEF, l’associazione degli imprenditori funiviari. «Era stato lo Stato a darci il via libera nel pieno rispetto delle normative. Ci aspettiamo almeno che l’ultima frase del comunicato stampa del governo (quella relativa ai ristori immediati, ndr) abbia un’applicazione immediata e urgente».
La stessa richiesta è stata fatta dal presidente del Veneto, Luca Zaia. In un’intervista al Corriere della Sera, Zaia ha spiegato che oltre ai cosiddetti ristori, cioè gli indennizzi per la mancata riapertura, saranno necessari anche dei risarcimenti. «Perché in questo caso, nella prospettiva di riaprire a breve, gli operatori avevano già battuto le piste e messo le indicazioni, bar, ristoranti e rifugi avevano fatto magazzino, gli stagionali si erano diretti in montagna», ha detto Zaia. «A tutte queste persone dici di no il giorno prima? Non ci sono parole per descrivere la rabbia, motivata, dei nostri operatori». Zaia ha anche spiegato che il turismo è la prima industria del Veneto e che rappresenta 18 miliardi sui 160 di prodotto interno lordo. Dei 70 milioni di turisti che ogni anno arrivano in Veneto, il 66% viene dall’estero. «Significa che il Veneto oggi è in ginocchio. Nonostante il blocco dei licenziamenti, ha già perso 65 mila posti di lavoro, di cui 35 mila nel turismo», ha detto Zaia.
La posizione di Zaia è condivisa anche dal presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che ha definito la chiusura improvvisa “inaccettabile”: «Non siamo scienziati e al primo posto verrà sempre la tutela della salute. Ma quello che è accaduto spero sia l’ultima volta perché non è più tollerabile».
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Domenica sera il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ha parlato della decisione del governo come «una mancanza di rispetto inaccettabile da parte dello Stato che dovrebbe garantire i suoi cittadini, non vessarli». Lunedì mattina alla Piana di Vigezzo, 1.720 metri nel comune di Craveggia, nella provincia del Verbano-Cusio-Ossola, in Piemonte, gli impianti sono stati aperti violando l’ordinanza del governo.
«Ancora venerdì la Regione ci aveva assicurato l’apertura e noi abbiamo predisposto tutto, in sicurezza, per riaprire. E così lo abbiamo fatto», ha detto Luca Mantovani, uno dei titolari della società che gestisce gli impianti nella valle piemontese.
In Lombardia sui siti internet di molti comprensori sciistici era stato predisposto un countdown per scandire l’attesa fino al giorno della riapertura. Il conto alla rovescia si è fermato a poche ore dal via. Il comprensorio Valtorta-Piani di Bobbio, tra le province di Lecco e Bergamo, aveva già venduto novemila skipass e assunto una trentina di lavoratori stagionali. «Quello a cui ci stanno sottoponendo è un gioco al massacro che non può che generare rabbia», spiega Massimo Fossati, presidente di ANEF Lombardia e gestore del comprensorio Valtorta-Piani di Bobbio. «Perché se oggi ci dici di aprire e noi assumiamo, domani non ci puoi dire di stare chiusi: non è rispettoso né per chi ha assunto né per chi è stato assunto».
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Jonathan Lobati, presidente della comunità montana Valle Brembana, in provincia di Bergamo, dice che fino alle 19 di domenica a Foppolo, la più nota località sciistica della valle, i gatti delle nevi battevano le piste. Il comunicato del ministero ha fermato tutto. «Questa disorganizzazione è una violenza nei confronti di un mondo che probabilmente qualcuno ritiene solo per i ricchi. Ma non è così», dice Lobati. «Le perplessità e i dubbi del Comitato tecnico scientifico c’erano già da giovedì. Perché non è stato fatto un provvedimento venerdì? I gestori avrebbero evitato spese per preparare le piste, le assicurazioni, le assunzioni dei dipendenti poi annullate. Sarebbe stato meglio dire fin dall’inizio dell’inverno che quest’anno la stagione sarebbe saltata».
Anche Roberto Failoni, assessore al Turismo della provincia autonoma di Trento, pensa che sarebbe stato meglio evitare comunicazioni contraddittorie a pochi giorni di distanza. Negli ultimi mesi Failoni ha organizzato molti confronti con i gestori degli impianti per individuare regole anti contagi e garantire comunque la riapertura. «Dovevano dirlo subito che gli impianti sarebbero stati chiusi tutta la stagione: avremmo risparmiato lavoro e rabbia», spiega Failoni. «Non oso pensare a come si sentano gli amici lombardi e piemontesi. Le decisioni prese a poche ore dall’apertura degli impianti stupiscono, anche perché non credo che il problema sia emerso domenica».
Marco Bussone, presidente dell’Unione nazionale dei comuni montani, è preoccupato per la sfiducia che queste decisioni potrebbero generare nei confronti delle istituzioni. Secondo Bussone le aree montane si sentono già poco considerate dalla politica e le scelte fatte negli ultimi giorni non aiutano. «Che lo stato non riesca a farsi sentire vicino è un problema molto serio. Purtroppo c’è la percezione che alcune persone vengano aiutate e molte altre invece siano dimenticate. C’è troppa distanza tra il centro, dove vengono prese le decisioni, e quella che viene considerata periferia. Ritengo che sia peggio consentire assembramenti nelle grandi aree urbane senza capire come gestirli piuttosto che aprire alcune piccole stazioni e impianti all’aria aperta con un sistema di gestione studiato nei minimi dettagli dagli operatori e dalle Regioni».