Cosa succederà alle grandi città
La pandemia si è abbattuta su posti come Parigi, Londra e Tokyo quando già non se la passavano bene, e ci si chiede se possano riprendersi
L’epidemia di COVID-19 e le restrizioni introdotte dai governi di molti paesi per limitare i contagi hanno determinato numerosi fenomeni concatenati e ancora in parte sconosciuti, e tra questi una vasta rivalutazione delle principali scelte di vita compiute ogni giorno da milioni di persone. A cominciare da una delle questioni meno frequentemente messe in discussione: dove vivere. La possibilità e più spesso la necessità di lavorare da casa, unite al divieto di trascorrere del tempo insieme ad altre persone nei locali e negli spazi pubblici, hanno apparentemente indebolito il legame tra le città più ricche e popolose e i loro abitanti.
Il dinamismo, la vivacità e l’abbondanza di stimoli culturali sono state per decenni parti consistenti ed essenziali del fascino di metropoli vissute e celebrate come New York, Los Angeles, Londra, Parigi o Tokyo, ma nel giro di un anno sono stati pesantemente condizionati e ridotti. E alla luce di questa mutata situazione il costo della vita in quelle città è diventato per molte persone non soltanto più difficile da sostenere, ma anche da giustificare. Il futuro delle città in cui negli ultimi quindici anni si è concentrata un’imponente crescita di occupazione legata all’innovazione tecnologica – oggi generalmente definite “città superstar” (superstar cities) – è da diversi mesi al centro delle attenzioni di studiosi di demografia, urbanistica e analisti del settore immobiliare, tendenzialmente d’accordo sulla lettura dei dati ma ancora molto prudenti e incerti sulle spiegazioni e soprattutto sulle ipotesi per il futuro.
Si stima che negli Stati Uniti circa il 90 per cento dei 256 mila posti di lavoro creati dall’industria tecnologica tra il 2005 e il 2017 si sia concentrato soltanto in cinque aree metropolitane: Seattle, Boston, San Francisco, San Jose e San Diego. Questo ha contribuito ad accrescere, insieme agli stipendi di un sottogruppo di lavoratori qualificati, le disuguaglianze sociali all’interno delle città e quelle tra il centro e la periferia. Fenomeni simili si sono verificati negli ultimi decenni in diverse aree sviluppate in altre parti del mondo, ma già da qualche anno prima della pandemia l’espansione demografica nelle grandi città aveva subìto un rallentamento e in alcuni casi un arresto.
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Nell’analisi dei dati prevale tra gli addetti ai lavori una generale cautela, suggerita dall’impressione condivisa che, per quanto comuni ed estese siano le condizioni imposte dalla pandemia, i cambiamenti recenti nelle grandi città potrebbero avere molteplici ragioni particolari e locali. A Parigi l’agguerrita concorrenza per l’acquisto di immobili da destinare agli affitti brevi ha reso migliaia di case troppo costose per le famiglie della classe media. A Tokyo, dove la popolazione era aumentata anche in anni recenti mentre nel resto del Giappone diminuiva, migliaia di residenti continuano a lasciare la città. E a Londra, dove la popolazione è destinata a diminuire per la prima volta dal 1988, gli effetti di Brexit oltre a quelli della pandemia hanno reso la città meno attraente per i giovani laureati d’Europa e più povera di opportunità di lavoro.
In alcuni casi è come se osservassimo questi fenomeni – già di per sé mutevoli – non direttamente ma attraverso uno specchietto retrovisore. «È come provare a contare le foglie per terra durante una tempesta» spiega Curbed, il sito del New York Magazine che si occupa di settore immobiliare, architettura e urbanistica. Migliaia di coinquilini abitanti delle grandi città hanno lasciato le loro case – provvisoriamente o no – per tornare dalle famiglie nei paesi di provenienza. Le residenze estive di molti sono diventate rifugi invernali, in attesa di una normalità che non è possibile prevedere con tempi certi.
In mancanza di dati solidi relativi al censimento americano del 2020, che arriveranno non prima di luglio, diverse analisi prendono quindi in considerazione variabili meno affidabili come la quantità di rifiuti raccolti, la quantità di moduli per il cambio di indirizzo pervenuti agli uffici postali o anche i volumi e il tipo di ricerche sul sito di valutazioni immobiliari Zillow.
Molti di questi cambiamenti potrebbero avere ragioni strettamente demografiche. I “millennial” che fino alla metà del decennio scorso avevano accresciuto la popolazione delle grandi città oggi hanno famiglie e macchine, e nella ricerca di nuove condizioni di vita potrebbero ora far rientrare valutazioni precedentemente messe da parte (una casa con giardino, per esempio). Semplificando molto, scrive Curbed, le grandi città di successo richiamano persone perché sono attraenti e ne respingono una parte perché sono costose. Le città in declino attirano alcune persone perché sono convenienti ma ne respingono una gran parte perché sono noiose o insicure. E le città «stagnanti» hanno popolazioni sostanzialmente statiche, con pochi flussi in ingresso e pochi in uscita.
Non è soltanto questione di soldi, poi. La scelta del posto in cui abitare risponde anche a desideri di ordine affettivo, elemento che rende ancora più difficile fare previsioni. «Ci sistemiamo vicino alle persone che amiamo, o in certi casi il più lontano possibile da loro» scrive Curbed. Per qualcuno è rassicurante la sensazione di appartenere a un posto, per qualcun altro è emozionante quella di sentirsi sempre «stranieri». Non è facile prevedere come queste propensioni e attitudini umane si rifletteranno sulle fluttuazioni demografiche dopo la pandemia, a maggior ragione se milioni di persone che oggi possono lavorare da casa avranno intanto avuto – ed eventualmente colto – l’opportunità di lasciare le grandi città senza dover rinunciare alle loro ambizioni professionali.
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Per adesso, dopo un decennio di prezzi fuori controllo, il mercato degli affitti nelle aree metropolitane di San Francisco e di New York ha registrato un calo. «Lo stile di vita “piani alti, redditi alti” ha perso parte del suo fascino» ha raccontato al Washington Post James Chung, presidente di Reach Advisors, una società di analisi e ricerche di mercato concentrata sul settore immobiliare e sullo sviluppo economico. La pandemia non ha però provocato una “fuga” dalle città verso i dintorni ma piuttosto una crescita abbastanza omogenea delle compravendite in entrambi i mercati. «Non vedremo le città morire, le vedremo evolversi» ha detto Chung, che attribuisce la crescita del mercato all’effetto combinato dei tassi di interesse storicamente molto bassi e del disallineamento tra domanda e offerta: poche persone mettono case in vendita in un periodo in cui molte persone comprano.
Alcune aziende con sede a New York, come per esempio la società di servizi finanziari Jetty, stanno riconsiderando l’idea di sostenere alti costi di affitto per avere ampi spazi condivisi da persone che rimangono sedute tutti i giorni a una scrivania. Una delle possibilità considerate dall’azienda, ha detto il cofondatore e amministratore delegato Mike Rudoy, è quella di avere piuttosto un luogo destinato alle riunioni e agli incontri occasionali tra i dipendenti, soltanto in determinati giorni della settimana.
Con molta probabilità aumenterebbe il numero di “super-pendolari”, persone ben retribuite che scelgono di vivere fuori dalle grandi città e fanno viaggi in ufficio più lunghi ma meno frequenti. Secondo Rudoy una tendenza di questo tipo su scala più ampia – ossia non richiedere ai dipendenti di essere fisicamente presenti nelle grandi città – potrebbe peraltro permettere alle startup di assumere più facilmente persone altamente qualificate e di competere con aziende già affermate di Internet.
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Il punto, secondo l’economista Dean Baker, cofondatore del Center for Economic and Policy Research (CEPR) di Washington, non è il fascino né il potere di attrazione che città come New York e San Francisco certamente continueranno a esercitare sulle persone. Il punto è capire quante di quelle persone sceglieranno di vivere da un’altra parte e con costi minori se avranno la possibilità di mantenere il posto di lavoro. Anche se è troppo presto per dirlo, secondo Baker, qualche tendenza nel mercato immobiliare è già emersa e sembrerebbe effettivamente suggerire che le persone stiano lasciando le città più costose.
Negli Stati Uniti i dati su scala nazionale rilevati nel periodo che va da marzo ad agosto 2020 indicano un netto ma non uniforme aumento dei prezzi delle case. Sono diminuiti molto a New York (l’intera area metropolitana) e Seattle, e aumentati in città come Cleveland e soprattutto Charlotte, in Carolina del Nord. E questo scenario è compatibile con l’ipotesi di uno spostamento significativo di lavoratori verso città meno densamente abitate e meno costose.
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La previsione di Baker, che comunque raccomanda di usare molta prudenza e non tirare conclusioni affrettate, è che molte persone sfrutteranno l’opportunità di trasferirsi in zone del paese che presentino un costo della vita più abbordabile. Non significa che le grandi città diventeranno città fantasma, ovviamente, ma registreranno un calo significativo del prezzo degli immobili, e questo potrebbe voler dire anche che molti dei posti di lavoro nelle grandi aziende di quelle città non torneranno mai più. Non è detto che sia un male. «Potrebbe essere un’opportunità per creare nuovi posti di lavoro assolvendo compiti importanti come l’assistenza all’infanzia e agli anziani, e per installare pannelli solari e adeguare gli edifici rendendoli più efficienti sul piano energetico», conclude Baker.