Come si fa un film d’animazione

Le tecniche sono tante e si sono evolute da quando Disney riciclava le vecchie scene, ma non vuol dire che si sia smesso di disegnare

Sebbene non sia di certo una scoperta recente, in molti angoli di internet negli ultimi giorni ha avuto grande successo un breve video – visto milioni di volte – che mostra come certe scene Disney siano tra loro estremamente simili. Succedeva, in breve, perché con l’animazione tradizionale talvolta si riteneva fosse più comodo e veloce riutilizzare vecchi disegni anziché rifare tutto da capo. Ma la spiegazione più lunga di cosa c’è dietro a quel video è assai più complicata e interessante, perché permette di capire qualcosa in più del mondo vasto e vario dell’animazione. Il mondo dietro ciò che una volta chiamavamo cartoni animati, che oggi può sembrare interamente sostituito dai computer: e non è così.

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Come spiegò l’animatore e regista Norman McLaren, «l’animazione è l’arte di manipolare gli invisibili interstizi tra le immagini». Secondo McLaren, nell’animazione «ciò che accade tra un’immagine e l’altra è più importante di quello che c’è in ogni immagine». Volendo, quindi, si può dire che sia animazione qualsiasi cosa che faccia muovere cose (personaggi, oggetti o forme) che altrimenti starebbero ferme. Qualsiasi contenuto visivo che, come scrive Treccani, «viene realizzato non attraverso la riproduzione fotografica della realtà, ma producendo una nuova realtà inventata, ottenuta dalla scomposizione e dalla ricomposizione del movimento delle figure».

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Nei secoli – quantomeno dal Diciannovesimo in poi e di certo da prima che inventassero il cinema – le tecniche per animare le immagini sono state tante: da quelle riconducibili al meccanismo con cui si fanno scorrere veloci le pagine illustrate di un libro fino all’animazione computerizzata e tridimensionale degli ultimi anni. Dopo diversi tentativi e approcci, già nella prima metà del Novecento si arrivò al tipo di animazione dei primi grandi Classici Disney come Biancaneve e i sette nani o Bambi. A quella animazione – che nei suoi fondamentali non è nemmeno troppo diversa da quella di film molto più recenti come Il re leone o La bella e la bestia – si fa riferimento con il non molto fantasioso nome di “animazione tradizionale”.

L’animazione tradizionale è, per capirci, l’animazione disegnata e colorata più o meno a mano. “Più o meno” perché ovviamente (e per la fortuna di chi si è trovato a doverla fare) con il passare del tempo fu perfezionata, velocizzata e resa più efficace grazie a una serie di accorgimenti: come l’uso di fogli lucidi sovrapposti tra loro per evitare agli illustratori di ridisegnare ogni volta, per ogni immagine, tutta la scena (quando magari a muoversi era solo una bocca). O anche grazie alla scelta – molto evidente in cartoni animati come I Flintstones – di far muovere solo certe figure in primo piano e di lasciare uno sfondo fisso.

Per rispettare quello che divenne piuttosto in fretta lo standard di 24 fotogrammi al secondo (quello più efficace nel dare all’occhio l’illusione di un movimento fluido) l’animazione doveva, per ogni secondo, disegnare e colorare 24 immagini. Che vuol dire quasi 1.500 immagini per ogni minuto. È facile capire, insomma, perché si cercassero modi per semplificarsi un po’ il lavoro.

Il riutilizzo da parte di Disney di certi suoi vecchi disegni per i suoi nuovi film fu quindi, semplicemente, uno di quei modi. Già nel 2017 l’animatore Floyd Norman spiegò al canale YouTube Cartoon Hangover che alla Disney lo si iniziò a fare già dalla fine degli anni Quaranta, molto probabilmente all’insaputa del capo, Walt Disney, e che lo si fece per «risparmiare tempo e soldi». E anche perché allora non c’erano ancora le videocassette né tantomeno internet e non ci si pose il problema che qualcuno, in futuro, avrebbe potuto farci caso.

Tuttavia, Norman aggiunse di essersi convinto che la pratica «non contribuì granché a risparmiare né tempo e nemmeno soldi», perché richiedeva di passare molto tempo negli archivi per cercare le immagini che si desideravano, e poi altro ancora per adattarle al film che si stava facendo.

Il video di Cartoon Hangover spiega (e mostra) inoltre che in certi casi – di certo già a partire da Biancaneve e i sette nani – la Disney riprese scene reali, con persone in carne e ossa, per fare da base alle immagini dei suoi disegnatori, in quella che viene identificata come tecnica del rotoscopio.


Il rotoscopio, i fogli lucidi e il riutilizzo di vecchie scene sono solo alcune delle tante tecniche e soluzioni che nei decenni hanno segnato l’evoluzione dell’animazione tradizionale. Già dalla fine degli anni Cinquanta arrivò la tecnica xerografica (semplificando un po’: le fotocopie) e poi più tardi i computer, e con essi tutta una serie di modi e approcci sempre più avanzati e precisi per acquisire, disegnare, colorare ed animare immagini di ogni tipo.

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Ci fu, come sempre, una lunga transizione. Sebbene sia giusto considerare Il re leone del 1994 un film ad animazione tradizionale, è anche vero che i computer tornarono di certo utilissimi a chi ci lavorò. Non c’è dubbio, comunque, che con il primo Toy Story – uscito meno di due anni dopo e interamente realizzato in computer grafica – divenne piuttosto difficile non far caso al fatto che i cartoni animati stessero cambiando.

A proposito: diciamo (e soprattutto dicevamo fino a qualche anno fa) “cartoni animati” perché già dall’Ottocento in inglese i cartoon erano le illustrazioni umoristiche dei giornali, parola che tra l’altro riprendeva uno dei significati italiani della parola “cartone“. Sicché le illustrazioni animate, in movimento, furono chiamate animated cartoon. Come spiega Treccani, quando si parla di contenuti di animazione tradizionale sarebbe insomma meglio parlare di “disegni animati”. E, cosa più importante, non tutta l’animazione è fatta da “disegni animati” e quindi, almeno quando si parla di film, «è meglio impiegare l’espressione cinema d’animazione, che comprende sia i disegni animati sia i film di oggetti animati» e «che include ogni tipo di animazione».

Pertanto, non sono cartoni (o disegni) animati ma sono comunque “di animazione” tutti quei film o quei contenuti seriali fatti per esempio con la tecnica dello stop motion o “animazione a passo uno”, nella quale personaggi e ambienti esistono davvero (possono essere pupazzi o modellini di tanti materiali diversi) e vengono mossi fotogramma-per-fotogramma e poi fotografati fotogramma-per-fotogramma, così da creare l’illusione di un movimento rapido e relativamente fluido.

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Oltre allo stop motion e all’animazione tradizionale, del vastissimo mondo dell’animazione fanno parte anche l’animazione 2D e quella 3D e poi anche la motion graphics, nella quale ci si dedica al movimento di forme, e non di “personaggi”. Ma sono ovviamente semplificazioni: perché ci sono diverse altre categorie e sottocategorie possibili, e perché capita spesso che più di un tipo di animazione venga usato per lo stesso contenuto. Non a caso si parla a volte di animazione “tradigitale” (sia tradizionale che digitale). E nemmeno è un caso che, ormai, spesso si possa far fatica a capire dove finisca quello che qualcuno chiama “animazione” e dove inizi quello che qualcun altro chiama invece “effetti speciali”; e, allo stesso modo, dove finisca l’animazione e dove inizi la recitazione.

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È certo, comunque, che ormai nessuno più – se non per pura passione – lavori ancora sulla carta. Ormai, sia che si tratti di animazioni a due o a tre dimensioni, si lavora al computer o su apposite tavolette grafiche: strumenti che permettono di disegnare a mano ma di vedere i propri disegni su schermo. Resta impossibile, tuttavia, parlare di tutta l’animazione come di un unico mondo: Soul è diverso da Bojack Horseman, che è diverso dai Simpson.


Come per i film e le serie con attori in carne e ossa, anche nel caso dei contenuti di animazione tra le tante specificità ci sono comunque elementi comuni. Carlo Stella, produttore dello studio di animazione napoletano Mad Entertainment, racconta per esempio che al film del 2017 Gatta cenerentola lavorarono circa 30 tra animatori e animatrici. Lo studio fu «tra i primi a utilizzare per un lungometraggio il software open-source Blender» e durante tutta la produzione usò «un misto di tecniche 3D e 2D». In particolare, certe parti scenografiche furono fatte in 2D, mentre i personaggi erano sempre in 3D.

Per arrivare a quei personaggi, il procedimento produttivo non è molto diverso da quello di un film: si parte da soggetto e sceneggiatura, dopodiché ci si dedica allo storyboard, una serie di disegni che rappresenta tutti i principali momenti del film, e anche – in certi casi – a una sorta di storyboard animato, che possa già dare l’idea di certi movimenti.

Come spiega Stella, prima di iniziare la vera e propria animazione del film, bisogna anche passare dall’importantissima fase del character design – in cui, per l’appunto, si disegnano i propri personaggi nel maggior dettaglio possibile e da ogni possibile punto di vista – e dalla creazione di una serie di ambienti in cui farli muovere. «Si disegnano le bambole e poi la casa delle bambole» spiega Stella. Serve anche la cosiddetta “bibbia”: cioè l’insieme di tutti gli oggetti che andranno poi a essere usati nel film. Dopodiché – in una serie di passaggi tutt’altro che semplici – bisogna far sì che i personaggi diventino modelli 3D e che quei modelli si possano muovere con una certa credibilità nello spazio del film.

A tutto questo bisogna ovviamente aggiungere la registrazione di quelle che diventeranno le voci dei personaggi: che va fatta prima, così che gli animatori possano far muovere i personaggi in base ai tempi del parlato. Poi la colorazione e, infine, l’animazione vera e propria.


Toy Story 4, invece, fu animato così:


E, quantomeno fino a qualche anno fa, I Simpson si facevano così:


Tra la “serie di passaggi tutt’altro che semplici” che stanno in un contenuto di animazione, però, c’è davvero di tutto. Alice Guzzo – animatrice italiana che lavora per lo studio irlandese Cartoon Saloon, il cui ultimo film è stato di recente candidato ai Golden Globe – è per esempio una clean-up artist. Ci è arrivata dopo aver studiato “animation production” a Bournemouth, in Inghilterra, e spiega che il suo lavoro consiste nel fare per l’animazione 2D il corrispettivo di «quello che nei fumetti è l’inchiostratura della pagina».

In altre parole, Guzzo riceve dagli animatori la scena animata e, lavorando su una tavoletta grafica, deve far sì che tra le tante linee dei disegni ci sia uno stile uniforme e coerente con quello del resto del progetto. Per le linee di Wolfwalkers – Il popolo dei lupi (candidato al Golden Globe per il miglior film d’animazione) sono stati usati due principali stili: per alcuni personaggi «uno più grafico» e per altri uno «più stilizzato»; quali personaggi – e perché – lo si capisce meglio guardando il film.


Anche un video come questo – realizzato dall’associazione Zabbara e tratto da una fiaba per bambini del Niger – è stato realizzati con tecnica 2D, con disegni fatti a mano che sono poi stati animati in digitale attraverso una tavoletta grafica.


Di un’animazione diversa da quella di Disney, della Pixar o degli anime giapponesi si occupa tra gli altri il festival Animaphix: Rosalba Colla, che ne è ideatrice e direttrice, racconta che è nato per «valorizzare un tipo di animazione che all’estero è alla stregua del cinema live-action» (cioè con persone che recitano) ma che in Italia è spesso e ancora «considerato un prodotto di serie B, oppure relegato all’intrattenimento per bambini». Colla racconta che l’animazione italiana, che negli anni Sessanta e Settanta andava fortissimo, ebbe una sorta di «morte» che coincise più o meno con la fine di Carosello, ma che negli ultimi anni le cose stanno decisamente migliorando.

Per chi fosse interessato ad approfondire un po’, Colla consiglia – tra i tanti – i lavori di animatori come Gianluigi Toccafondo, Roberto Catani, Mara Cerri e Magda Guidi. Tra le tante cose che può essere l’animazione, spiega Colla, ci sono animazioni ancora «artigianali che nascono dalle matite e che hanno strettamente a che fare con le arti visive», ma anche – tra le tante altre cose – il corto Concatenation di Donato Sansone.


Da quando Disney ripescava vecchie scene dagli archivi per “risparmiare tempo” molte cose sono cambiate e interi film d’animazione si possono fare senza nemmeno una matita. Ma volendo si possono anche rifare come un secolo fa, quando il cinema delle origini provò a inventarsi soluzioni di ogni tipo per dare l’illusione del movimento, non necessariamente usando attori e attrici.

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Oggi di certo non c’è più bisogno di ripescare negli archivi vecchi disegni: però, nel caso di grandi produzioni e sequel di film, può tornare utile riprendere qualche file per evitarsi un po’ di lavoro. Volendo, in certi casi si potrebbe anche partire da disegni e modelli usati per un personaggio di un vecchio film per creare un nuovo personaggio di un nuovo film. Succede: per esempio quando misero la principessa Rapunzel in una scena del film Frozen. Tuttavia, se già diversi decenni fa c’erano dubbi sul fatto che quest’approccio facesse risparmiare tempo o soldi, oggi è una cosa che si fa più che altro per gioco, soprattutto nel caso di grandi film della Pixar o della Disney.

Oggi, e in realtà già da diversi anni, per risparmiare molti studi affidano a società esterne la parte finale dell’animazione, quella che secondo Norman McLaren erano gli «interstizi tra le immagini». Molto spesso, infatti, il definitivo lavoro di vera e propria animazione viene affidato a società asiatiche, in base a una pratica nota come animazione in outsourcing.

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