Il cugino di Walter Alasia
Il nuovo libro di Giuseppe Culicchia racconta una storia terribile, per lui e per l'Italia
Il nuovo libro del romanziere torinese Giuseppe Culicchia è una storia molto particolare per lui e per l’Italia in generale, delicata e tragica: Culicchia ha deciso di rivelare pubblicamente che Walter Alasia era suo cugino, e di raccontare la storia della sua giovinezza e della loro relazione.
Walter Alasia è un nome tristemente famoso nella storia italiana dello scorso secolo: nel suo nome si creò un gruppo terroristico attivo soprattutto a Milano – la “Colonna Walter Alasia” – che eseguì diversi attentati e omicidi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Il gruppo si era staccato dalle Brigate Rosse (il principale movimento terroristico di sinistra del tempo) e aveva preso il nome da un giovane brigatista che era stato ucciso a vent’anni dalla polizia, andata ad arrestarlo: per cercare di fuggire Alasia aveva a sua volta ucciso due agenti.
Culicchia era più piccolo di lui di nove anni, ma gli era legato con infantile adorazione. Il tempo di vivere con te, pubblicato da Mondadori, racconta la contraddizione – anzi la convivenza – nella stessa persona di un “mostro”, raffigurato così pubblicamente e responsabile della morte di due agenti di polizia, e di un ragazzo amabile e amato da tutta la famiglia, e il dolore della famiglia stessa, cercando di mettere insieme i pezzi della storia personale e di quella italiana per costruire delle spiegazioni. La morte di Alasia è raccontata oltre la metà del libro.
Scrive Giorgio Manzini nel suo Indagine su un brigatista rosso: “A Sesto San Giovanni, in via Leopardi, la mattina del 15 dicembre 1976. Dieci poliziotti si appostano agli angoli di un caseggiato popolare che dà sulla strada. Fa freddo, è ancora buio. Altri cinque uomini infilano la scala G, si fermano sul primo pianerottolo, davanti a una porta con una targhetta d’ottone, Alasia. Due hanno giubbetto e maschera antiproiettile; i tre in cappotto sono Vito Plantone e Sergio Bazzega dell’antiterrorismo, Vittorio Padovani commissario di Sesto. Hanno un mandato di perquisizione per Walter Alasia, ex studente, vent’anni, famiglia operaia. Suonano, un trillo secco, intimano, ‘Polizia, aprite’, picchiano col calcio del fucile. Si spalanca la porta, compare un uomo in pigiama, bianco di capelli. È Guido Alasia, il padre di Walter. In fondo al breve corridoio una donna in camicia da notte. È Ada Tibaldi, la madre di Walter. Entra Sergio Bazzega, si dirige verso l’ultima porta a destra, quella di Walter. Lo segue Vittorio Padovani. Walter Alasia è già in piedi, accanto al letto del fratello Oscar. Rivoltella in pugno, scosta la porta, allunga il braccio, spara su Sergio Bazzega e su Vittorio Padovani un intero caricatore. Richiude, ricarica l’arma, indossa calzoni e giubbotto, s’avvicina alla finestra del balcone, alza la tapparella, si butta nel cortile, il salto di un metro. Parte una raffica. Colpito alle gambe Walter Alasia cade, resta raggomitolato sulla ghiaia. C’è concitazione in cortile, si sente gridare, alcune finestre si illuminano. Passa qualche minuto, si avvicina la sirena di un’autoambulanza. Esplodono gli ultimi colpi. È un solo proiettile che uccide Walter Alasia”.
Che cosa ti passa per la testa in quella manciata di minuti che intercorre tra il tuo ferimento e l’istante in cui vieni freddato come un cane mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre? Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi al viso e alla voce di tua madre. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi a quando eri bambino e lei ti prendeva in braccio. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi ai pranzi a casa dei nonni. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi ai tuoi compagni di scuola. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi ai pomeriggi in cui andavamo a prendere il sole al ponte del Diavolo. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi alle notti che hai dormito a Grosso sul divano di finta pelle rossa. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi alla prima volta che hai fatto l’amore. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi a mio padre che ti prende in giro per quanto sono lunghi i tuoi capelli. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi ai libri che hai spedito a Gabriella. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi alle nostre corse per i prati di Grosso. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi alle scritte che hai tracciato quella notte sui muri di Nole. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi al profumo delle paste di meliga delle Benne. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi all’odore dei lacrimogeni. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi agli occhiali che hai dimenticato a Pavia. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi ai documenti che hai nascosto in casa. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi ai pacchi che scaricavi nel periodo in cui lavoravi alle poste in Stazione Centrale. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi al pomeriggio che hai strappato le ultime foto che ti ha fatto tuo padre. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi alla voce di Oscar che poco prima ha gridato il tuo nome. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi agli occhi blu di tua madre identici ai tuoi. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi alle ferite che ti dilaniano le gambe. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi al volto del poliziotto a cui hai sparato. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi ai tuoi disegni nell’album che conservi nella scrivania dove studiavi da ragazzino. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi a quando d’estate non avevi voglia di fare i compiti delle vacanze. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi alle istruzioni che hai ricevuto in caso di cattura. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi che dovrai resistere agli interrogatori e alle torture e non parlare. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi che hai tanto male e che avresti bisogno di cure. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi che vorresti che tua madre ti tenesse per mano. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre avverti un rumore di passi sulla ghiaia del cortile. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi al cortile dei nonni nella casa di Nole. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre pensi a non so che cosa accadde perché prese la decisione forse una rabbia antica generazioni senza nome che urlarono vendetta gli accecarono il cuore dimenticò pietà scordò la sua bontà la bomba sua la macchina a vapore. Mentre sei lì solo steso a terra nel gelo di quel mattino di dicembre non fai più in tempo a pensare niente perché quei passi si arrestano a pochi centimetri da te.
Io in quegli stessi istanti dormo. Mia madre mi sveglierà tra un paio d’ore. Quest’anno frequento la prima media alla Bernardo Vittone di Mathi Canavese. Mi piace una compagna di classe, Valeria. Dato che il 15 dicembre cade di mercoledì, quando mi sveglierò sarò contento per due motivi: primo, perché il mercoledì si va a scuola e andando a scuola rivedrò Valeria; secondo, perché il giorno dopo, giovedì, abbiamo ginnastica e potrò giocare a pallacanestro. Prima di addormentarmi ho pensato: se giovedì faccio qualche canestro e grazie ai miei punti la mia squadra vince poi te lo racconto, Walter. Vedrai, diventerò bravo come te che alleni addirittura le ragazze della squadra femminile di Sesto. Forse è questo che sto sognando, in attesa che mia madre mi svegli riportandomi alla realtà.
E tua madre? Stava sognando anche lei quando gli uomini dell’antiterrorismo l’hanno riportata alla realtà? E se sì, che cosa? Sognava di te? Di quando eri bambino? Scrive Giorgio Manzini: “Racconta Ada Tibaldi: ‘Mi sono svegliata subito, ho il sonno leggero. Non ho guardato la sveglia, non ho pensato che ora fosse. Faccio le punture e capita che mi vengano a chiamare anche di notte, inquilini della casa. Mi alzo, accendo la luce del corridoio, guardo nello spioncino della porta. Vedo due quasi inginocchiati, sull’orlo della scala, con qualcosa sulla faccia, come una maschera quadrata. Non mi viene in mente la polizia, penso che sia uno scherzo, penso che siano gli amici di Walter, che andavano e venivano a qualsiasi ora. Non ero preoccupata. Chi è? chiedo. Polizia, aprite, mi rispondono. È una voce ferma, dura, non poteva essere uno scherzo. Non me la sento di aprire, vado a svegliare mio marito, lo scrollo per una spalla. Se gh’è? fa lui. Polizia, dico io. Polizia? Rovescia le coperte, si alza, si mette a cercare le chiavi. Battono contro la porta col calcio del fucile, aprite, aprite, sappiamo che è in casa. Mio marito trova le chiavi, apre e si spalanca la porta, mentre nella stanza dei ragazzi c’è qualcuno che si muove, ma è questione di secondi. Vedo entrare un uomo giovane, coi baffi, che con un foglio in mano va dritto verso la camera di Walter. C’è un altro subito dietro, anche lui giovane, ma non faccio in tempo a guardarlo perché Walter è già sulla porta e si mette a sparare. Non avevo mai sentito colpi di rivoltella, erano come scoppi di mortaretto. L’uomo coi baffi si gira, fa un lamento, cade nel ripostiglio, all’indietro, la faccia che ha cambiato di colpo colore. Non posso togliergli gli occhi di dosso, penso che sia morto, e Walter continua a sparare, tanti colpi. Basta, per carità, gli grido, ma lui sposta il braccio e spara sull’altro, che però io non vedo cadere. Poi Walter mi guarda senza dire una parola. Ha la faccia tranquilla, nessun segno di agitazione. Ma cos’hai fatto? gli grido, ma lui accosta la porta. Ho il cervello vuoto, come paralizzato. Vedo che stanno tirando per i piedi l’uomo che era caduto nello sgabuzzino e sento un rumore metallico, come se strisciassero dei chiodi. Mi metto davanti alla porta dei ragazzi, sento la tapparella che si alza, poi sento un ah, come un mi fa male, mi hanno beccato. Mi scostano, mi prendono per un braccio, mi portano in soggiorno, dove c’è mio marito sdraiato sul divano. Ma io ritorno nella stanza dei ragazzi, mi affaccio alla finestra e vedo Walter disteso su un fianco, con le gambe piegate. Corro in soggiorno, l’hanno ammazzato, dico a mio marito, e lui forse non capisce. È pallido, disfatto, un vecchio. La casa è piena di gente che va, viene, parla, grida, esce, ritorna. Bastardo, sento dire e sento anche la voce di Oscar che protesta, ma è mio fratello. Poi sento la sirena dell’ambulanza e ancora dei colpi, colpi di rivoltella, mi sembra. Viene Oscar e mi dice di non preoccuparmi, che Walter l’avevano solo ferito alle gambe. Mio marito stava male, bisognava chiamare un dottore. Telefoni pure, mi dicono, ma è Oscar che telefona, e io mi avvolgo in una coperta di lana che mi avevano buttato addosso. C’era un freddo da battere i denti e io ero con una camicia da notte leggera. C’era un poliziotto giovane con i capelli lunghi e la barba seduto vicino a noi, e io ogni tanto, cos’è successo in cortile? Lui rispondeva che non c’era da preoccuparsi. Non riuscivo a pensare agli altri due, pensavo solo a Walter, e chiedevo di Walter a tutti quelli che andavano e venivano. Allora un brigadiere coi gambali che si era messo proprio sulla porta mi dice che loro non ammazzano la gente, che sparavano solo alle gambe. Avevo quasi la certezza che Walter non fosse morto ma lo stesso facevo domande, perché non potevo avvicinarmi alla finestra. Poi, in mezzo a quella confusione, gente in divisa, gente in borghese, forse pezzi grossi della polizia, vedo arrivare un inquilino del terzo piano con addosso una giacca di lana della moglie. S’intrufola dentro, va alla finestra, guarda attraverso le fessure della tapparella, si volta e mi dice, ma signora Alasia, Walter è ancora là fuori. Erano passati venti minuti, mezz’ora, e se Walter era ancora in cortile doveva essere morto. Ma io non accettavo l’idea della morte, non potevo credere che Walter fosse morto. Faccio per alzarmi ma non mi lasciano, mi dicono di stare seduta. Si accorgono dell’inquilino, lo investono, ma chi è?, cosa fa?, lo sa che adesso lei non va più via?, e lo portano fuori. Arriva il medico, dice che ha fatto fatica ad arrivare perché ci sono camionette dappertutto. Visita mio marito, che si è ripreso, e io continuo a chiedere di Walter, se è ancora là, cos’è successo in cortile. Mi dicono, non lo sappiamo, lo sapremo, lo portano in ospedale, non si preoccupi. Ero con questo filo di speranza, non riuscivo a vedere Walter morto, lo immaginavo in un letto d’ospedale, con qualcuno attorno che lo curava. Ogni tanto mio marito mi parlava, sottovoce, ma perché?, e io non sapevo cosa dire. Era già chiaro, giorno fatto, ci dicono di vestirci. Davanti a tutti? Non si preoccupi, rispondono. Mi metto sottana e golf, mi infilo il paltò e un poliziotto in blue-jeans, un ragazzo, mi prende sottobraccio e mi fa, signora, là fuori sono come avvoltoi, si tiri su il bavero, mi stia vicino. Avevo sempre provato rabbia quando in televisione vedevo certa gente disperata e i fotografi attorno che fotografavano quella disperazione. Mi tiro su il bavero, esco, sento un mormorio, vedo una gran folla. Tiro dritto, salgo in macchina con tre poliziotti, mi portano in Questura, mi mettono in una stanza piena di borse e di sedie. Fumo una sigaretta dietro l’altra e loro sono gentili, signora, non si preoccupi, stia calma. Passa un’ora, forse due, e mi spostano in uno stanzone dove c’era mio marito. Ci sediamo uno di fronte all’altra, ci guardiamo, e allora si avvicina un uomo coi capelli grigi, la pipa in bocca, che appoggia le mani sul bordo del tavolo: ma non lo sapete che vostro figlio era delle Brigate Rosse? Volete piangere per quel delinquente là? Io ho abbassato la testa e non l’ho più rialzata’”.