Che ne sarà dei film catastrofici?
È presto per avere risposte certe (c'entra la pandemia) ma c'è già chi se lo chiede e chi fa qualche proposta (e anche qui c'entra la pandemia)
Da quando c’è la pandemia da coronavirus è capitato più di una volta che qualcuno si chiedesse – tra chi se ne occupa, e tra le tante e ben più pressanti domande – se e come avremmo continuato a guardare i film catastrofici del passato, e come sarebbero stati quelli girati o quantomeno pensati in questi mesi.
La prima domanda una risposta in parte ce l’ha: certi dati dicono infatti che un rilevante numero di spettatori ha scelto di riguardare e riparlare di vecchi film catastrofico-pandemici come Contagion o Virus letale, mentre qualcun altro ha continuato a guardare film catastrofici ma senza pandemia. Per esempio il recente e discretamente apprezzato Greenland, in cui a minacciare la Terra sono una serie di grandi asteroidi.
È presto, invece, per dire quando usciranno e come andranno i film catastrofici o apocalittici dei prossimi anni. Perché, sebbene ce ne siano diversi in lavorazione, le incognite sono ancora tante; e soprattutto perché se è sempre stato difficile prevedere oggi che cosa potrà interessare gli spettatori tra qualche mese o anno, con la pandemia di mezzo lo è diventato molto di più.
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Ciononostante, nelle ultime settimane due diversi articoli hanno provato a rispondere a questa domanda. Il primo, pubblicato su Wired a fine 2020, si era chiesto se e come i film catastrofici potranno sopravvivere alla pandemia. Il secondo, pubblicato pochi giorni fa sul New York Times Magazine, ha invece portato avanti una tesi secondo la quale, visti i tempi, i film catastrofici dovrebbero cambiare ed evolversi.
L’articolo di Wired partiva dalla considerazione che – così come i film horror – i film catastrofici siano da sempre molto legati alle paure e alle ansie del contesto storico in cui vengono fatti. Negli anni più tesi della Guerra Fredda, per esempio, si parlò spesso di distruzione nucleare o invasione aliena; negli anni Settanta e Ottanta i film si dedicarono spesso a rischi e pericoli tecnologici; e in decenni più recenti, invece, ai pericoli in arrivo dallo Spazio o alle conseguenze di gravissimi cataclismi ambientali.
È molto facile non essersene accorti, ma nel 2020 è uscito anche Songbird, un film post-apocalittico ambientato a Los Angeles nel 2024, dopo che il COVID-23, una pericolosissima mutazione del COVID-19, ha decimato la popolazione mondiale. Un film, quindi, che non ha usato grandi metafore per parlare di certe ansie e paure di questo periodo storico.
Oltre a Songbird – un film in genere ritenuto bruttissimo, oltre che evidentemente fatto con gran fretta – Wired prendeva in considerazione anche Greenland, definendolo «una reliquia dal passato» per il suo essere stato fatto prima della pandemia; Wired ne parlava anche come di uno dei più recenti esempi di un genere che «già prima della pandemia non andava benissimo e che ora potrebbe essere vicino a un punto di svolta».
La tesi di Wired, in parte condivisa da altri, è che a parte qualche rara eccezione, già da qualche anno i film catastrofici erano diventati cinematograficamente meno dominanti rispetto a quanto lo fossero stati negli anni Novanta e nei primi anni Duemila. Un po’ perché anche nel cinema le cose hanno i loro cicli, un po’ perché negli ultimi anni il posto che prima avevano avuto i film catastrofici era stato preso dai film di supereroi. Film, questi ultimi, che spesso sono anche film catastrofici, talvolta persino su scala universale e non solo planetaria.
Secondo Wired, una possibile strada per la sopravvivenza pandemica o post-pandemica dei film catastrofici consisterà nel trovare modi per parlare di questa pandemia senza parlare davvero di questa pandemia, per esempio occupandosi di zombie o vampiri, o comunque di qualche tipo di pericolo che riguarda le persone e i loro rapporti, di qualcosa che si può trasmettere. Un’altra possibile strada prevede invece che, magari sperando che la pandemia diventi solo un ricordo, anche nel cinema catastrofico ci si torni a preoccupare dei problemi ambientali, in una sorta di revival di alcuni film di un paio di decenni fa.
In entrambi i casi, però, resta il grande problema che i cinema sono chiusi; tra i tanti generi inoltre, quello dei film catastrofici è uno di quelli che più richiedevano un grande schermo per essere visti e che meglio si prestavano a una visione collettiva. Come quasi ogni altra cosa che riguarda il cinema, e in particolare i cinema, sono però solo previsioni, assai piene di incognite.
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Anziché fare analisi, l’articolo del New York Times – il cui autore è lo scrittore Peter C. Baker – sostiene invece senza mezzi termini che i film catastrofici abbiano proprio necessità di evolversi.
L’articolo parte da alcune considerazioni su The Midnight Sky, un film post-apocalittico di-e-con George Clooney che è disponibile su Netflix. Quando inizia il film, il disastro c’è già stato e Clooney interpreta uno dei pochi sopravvissuti che cercano di cavarsela in un contesto assai ostile, su cui però agli spettatori non viene spiegato quasi niente: sappiamo che è successo qualcosa, che è stato catastrofico e che l’umanità è a rischio di estinzione. The Midnight Sky in genere non è piaciuto granché. Di certo non a Baker, che ne parla come di un film vago, in cui persino i personaggi sembrano parlare e curarsi poco della catastrofe di cui evidentemente sono da poco stati testimoni.
Secondo Baker, è un problema comune a tanti altri film catastrofici, che non sono granché interessati all’evento catastrofico in sé e che spesso si limitano a riassumerlo «con un veloce montaggio di notizie di telegiornali» o con «qualche strana reazione chimica in qualche sinistro laboratorio».
Il disastro, scrive Baker, «non sembra mai essere attribuito a una causa specifica, bensì a qualcosa di nebuloso e universale: la “natura umana”, l’arroganza, certi cattivi imprenditori». Le spiegazioni che vengono date agli spettatori «sono lo stretto indispensabile per evitare troppe domande». In The Midnight Sky tutto questo è solo più evidente, ma succedeva già prima, e spesso.
Il fatto è che, secondo Baker, «un tempo andava bene e altri dettagli sarebbero sembrati distraenti e banali», mentre nel 2021 «certe domande sono diventate molto più pressanti per l’umanità»: per la pandemia ma anche per un «patchwork planetario di brutte cose che ci minacciano su vasta scala». L’idea di Baker è che, di conseguenza, anche i film catastrofici debbano provare a rispondere a domande più complesse, magari immaginando meglio e raccontando di più le premesse e le configurazioni di certe catastrofi cinematografiche.
Per rispondere a domande di certo non semplici ma più interessanti: «Come ci stiamo preparando, in quanto specie e in quanto pianeta, alle sfide del futuro? Quali e quante disuguaglianze ci saranno? Cosa possiamo cambiare?».
È evidente, comunque, che in due o massimo tre ore un film non può di certo farsi troppe domande e dare troppe risposte, specie se di una certa portata. Potrebbero forse farlo meglio, nel caso, certe serie tv e lo stesso Baker ammette che il miglior esempio di quello che vorrebbe vedere in un film finora lo ha letto in un libro: The Ministry for the Future, un romanzo di fantascienza scritto da Kim Stanley Robinson e ambientato nel futuro prossimo, che tra le altre cose parla di «disastro climatico, questioni burocratiche, finanziarie e di governo, esperimenti di geoingegneria, proteste, campi per rifugiati ed ecoterrorismo».
«Finché non avremo più film come questo» scrive Baker «il genere resterà solo uno sbiadito e distorto specchio per l’umanità».
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