Lo stallo sulla rotta balcanica, spiegato
Centinaia di richiedenti asilo sono bloccati da settimane fra Bosnia e Croazia, e non ci sono soluzioni facili
Da settimane i giornali italiani ed europei si occupano delle condizioni difficilissime in cui si trovano centinaia di richiedenti asilo bloccati in un paesino della Bosnia-Ezegovina, Lipa, non lontano dal confine con la Croazia. La situazione è ulteriormente peggiorata alla fine di dicembre dopo l’incendio del campo dove erano alloggiati: ora i circa 850 richiedenti asilo rimasti sono stati sistemati in tende di fortuna, mentre altri 900 circa vivono in condizioni simili in altre zone della regione. La scorsa settimana quattro parlamentari europei del Partito Democratico hanno visitato le tende di Lipa e chiesto alle autorità locali ed europee di intervenire: ma nonostante la rinnovata attenzione che hanno ottenuto, soprattutto in Italia, difficilmente si troverà una soluzione per risolvere il problema.
In teoria la “rotta balcanica”, che parte dalla Grecia e risale la penisola balcanica fino ad arrivare nei paesi dell’Europa occidentale, fu chiusa nel 2016, quando l’Unione Europea concluse un controverso accordo con la Turchia per impedire le partenze verso la Grecia. Allo stesso tempo, i paesi dell’Europa orientale rafforzarono il controllo delle proprie frontiere.
In pratica la rotta non si è mai chiusa, anche se dal milione di persone transitate nel 2015 si è passati a numeri assai più ridotti negli anni successivi, nell’ordine delle decine di migliaia all’anno. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), l’agenzia ONU che si occupa di migranti, soltanto nel 2020 sono stati registrati 39.648 migranti in Serbia e 16.150 in Bosnia-Erzegovina, i due paesi più interessati dalla rotta.
Nell’Unione Europea, va ricordato, esistono pochissime vie di ingresso legali per gli stranieri, e al momento sono scarsamente garantite anche per le persone che chiedono asilo.
Le persone arrivate in Bosnia, un paese che non fa parte del’Unione Europea, sono in piccola parte richiedenti asilo che sono riusciti ad arrivare in Grecia sfuggendo ai controlli delle autorità turche e greche; ma in gran parte sono persone in viaggio ormai da anni, e che fino a qualche mese fa erano nei campi per migranti sparsi nel paese, in attesa che la Grecia esaminasse le loro richieste di protezione. Negli ultimi tempi però il governo greco di centrodestra ha sospeso più volte l’accettazione delle richieste d’asilo avanzate dai nuovi arrivati, tagliato i fondi per l’accoglienza, osteggiato il lavoro delle ong e respinto illegalmente migliaia di migranti verso la Turchia.
«È molto difficile dare una spiegazione completa alle motivazioni che spingono le persone a lasciare la Grecia e spostarsi verso nord per raggiungere gli altri paesi europei», ha detto al Guardian Stephan Oberreit, capo di Medici Senza Frontiere in Grecia, «ma è chiaro che i ritardi crescenti nelle procedure di asilo e di riunificazione familiare, le condizioni disumane in cui vengono tenuti i richiedenti asilo e l’assenza di protezione e di percorsi di integrazione, spingono le persone verso un viaggio pericoloso alla ricerca di sicurezza e dignità».
In Bosnia-Erzegovina, però, la situazione non è certo migliore e difficilmente si sbloccherà a breve.
La Bosnia-Erzegovina è uno stato molto povero e attraversato da anni da tensioni etniche che hanno portato a un frazionamento del governo centrale e delle amministrazioni locali, che non riescono a gestire in maniera efficace lo stato: figurarsi un’emergenza umanitaria.
«Con la sua attuale struttura costituzionale, la Bosnia non ha la capacità di affrontare crisi come questa, che richiede una certa centralizzazione del processo decisionale», ha detto a Euronews il giornalista e analista bosniaco Refik Hodzic. A questa difficoltà strutturale si aggiunge il fatto che due delle componenti etniche della popolazione bosniaca, cioè i serbi e i croati, guardano con grandissima diffidenza ai richiedenti asilo che provengono dal Medio Oriente e dal Nord Africa, in linea con l’ostilità dimostrata negli ultimi anni da tutti i paesi dell’Europa orientale. «I politici serbi e croati possono fare le barricate e hanno inquadrato la cosa come un’invasione musulmana», aggiunge Hodzic.
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Sebbene Lipa si trovi in una regione a maggioranza etnica musulmana, al momento la presidenza di turno della Bosnia-Erzegovina è nelle mani del presidente espresso dalla comunità serba, Milorad Dodik, che da mesi ripete che non ha intenzione di costruire campi per richiedenti asilo nelle regioni a maggioranza serba e che più in generale spetterebbe all’Unione Europea occuparsi della questione, dato che praticamente nessuna delle persone in arrivo dalla Grecia ha intenzione di fermarsi in territorio bosniaco.
L’Unione Europea però ha un approccio contraddittorio. Da un lato si è impegnata per migliorare le condizioni dei richiedenti asilo: dal 2018 al 2020 ha speso infatti circa 89 milioni di euro per il sistema di accoglienza in Bosnia-Erzegovina, la maggior parte dei quali – circa 75 milioni di euro – attraverso fondi all’OIM, che li ha investiti soprattutto nelle spese di manutenzione dei campi. Dall’altro lato però si aspetta che dei richiedenti asilo arrivati in territorio bosniaco si occupi la Bosnia, negando loro il diritto di chiedere protezione in Europa come previsto dai trattati europei. Né Frontex né la Commissione Europea hanno preso provvedimenti sulle violenze e gli abusi compiuti sistematicamente dalla polizia croata di confine nei confronti dei richiedenti asilo che cercano di lasciare la Bosnia.
Nel corso del 2020 migliaia di richiedenti asilo sono stati respinti illegalmente dalle autorità croate col tacito appoggio di quelle europee: fra di loro c’erano anche 800 minori, secondo una stima del Dansk Flygtningehjælp, una ong molto attiva in Bosnia. Zohra, una richiedente asilo che in Afghanistan lavorava come avvocata, ha raccontato al Guardian che i suoi quattro figli non vogliono seguirla nei suoi tentativi di superare il confine e arrivare in Croazia: «piangono perché hanno paura di essere respinti o di essere presi a calci, com’è successo l’ultima volta».
«Le responsabilità dell’Unione Europea sono chiare», ha detto Eve Geddie, direttrice dell’ufficio di rappresentanza di Amnesty nelle istituzioni europee: «L’attuale crisi umanitaria è una conseguenza della politica di rafforzare i propri confini bloccando migliaia di persone nell’estrema periferia del territorio europeo o nei paesi confinanti».
In realtà il Parlamento Europeo ha provato più volte a trovare una soluzione alla gestione dei migranti in Europa, prima approvando una riforma del Regolamento di Dublino, il collo di bottiglia legislativo che obbliga decine di migliaia di migranti a rimanere nei paesi di primo ingresso, poi proponendo l’introduzione di un permesso di soggiorno speciale per le persone che intendono chiedere una forma di protezione internazionale. Entrambe le proposte sono state respinte dal Consiglio dell’Unione Europea, l’organo comunitario dove siedono i rappresentanti dei governi nazionali dei 27 stati membri.
A settembre l’attuale Commissione Europea ha proposto un nuovo piano per riformare il Regolamento di Dublino, ma da allora non sono stati fatti passi in avanti. In un discorso tenuto durante l’ultima sessione plenaria del Parlamento Europeo, la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson ha rivendicato che dopo l’incendio del campo di Lipa le autorità bosniache hanno montato tende e impianti di riscaldamento dietro la pressione della Commissione. Allo stesso tempo però Johansson ha spiegato che la Bosnia-Erzegovina deve «prendersi le proprie responsabilità» e «aprire centri per migranti in tutto il paese», con l’obiettivo di «trovare soluzioni nel lungo termine».