Quand’è che una persona morta è davvero morta
Grazie a un nuovo studio sappiamo qualcosa in più su un tema misterioso e delicato, fondamentale per migliorare come espiantiamo gli organi
Negli istanti successivi alla decisione di interrompere il supporto vitale ai pazienti, in caso di accertata cessazione irreversibile delle funzioni autonome vitali, gli strumenti di monitoraggio della frequenza cardiaca, della pressione sanguigna e dei livelli di saturazione dell’ossigeno restano attivi e continuano a fornire un quadro delle condizioni del paziente. Ogni strumento utile a registrare eventuali contrazioni spontanee del muscolo cardiaco, secondo dopo secondo, segue l’evoluzione del quadro clinico fino alla morte. Quanto tempo si debba aspettare, subito dopo che il cuore ha smesso di battere, prima di dichiarare il decesso del paziente, e quanto prima di procedere eventualmente all’espianto degli organi in caso di donazione, rappresenta una delle questioni bioetiche più complesse e per molti versi inesplorate della letteratura medico-scientifica.
Un ampio studio internazionale da poco pubblicato sul New England Journal of Medicine (NEJM), una delle riviste mediche più autorevoli e rispettate al mondo, ha fornito prove del fatto che segni di attività cardiaca siano riscontrabili per un breve lasso di tempo anche in pazienti di cui sia stata precedentemente accertata la morte irreversibile. Nessuno dei casi riportati stravolge le conoscenze attuali né ricade al di fuori dei confini temporali tracciati dalle procedure standard adottate in molti paesi per fare diagnosi di morte. I risultati di questi studi e di altri eventuali ricerche future sono tuttavia ritenuti di grande importanza per il progressivo perfezionamento delle linee guida e dei protocolli per l’accertamento della morte nei pazienti i cui organi siano destinati al trapianto, circostanza in cui i tempi e i criteri per stabilire la fine di una vita possono avere immediate ripercussioni sul prolungamento di un’altra.
Lo studio pubblicato sul NEJM
Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricercatori del CHEO Research Institute di Ottawa, un ente non profit legato all’Ospedale pediatrico dell’Ontario orientale e coordinato da Sonny Dhanani, primario dell’unità di terapia intensiva pediatrica. I casi riportati – tutti con il consenso espresso delle famiglie – sono 631, a fronte di uno screening complessivo di 1.999 pazienti tra il 2014 e il 2018 in venti unità di terapia intensiva in Canada, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. È il più ampio studio internazionale finora condotto sul processo fisiologico della morte e il gruppo che lo ha condotto si è detto sorpreso della percentuale di famiglie (93 per cento) che hanno accettato di partecipare.
I ricercatori hanno monitorato per trenta minuti il quadro clinico dei pazienti dopo l’interruzione programmata dei sistemi per il supporto vitale. Almeno un medico era sempre presente al capezzale del paziente per riferire eventuali riprese di una o più funzioni vitali. E i grafici ottenuti tramite gli strumenti di monitoraggio di quelle funzioni sono poi stati analizzati a posteriori per confermare le eventuali osservazioni dei medici e determinare se ci fossero stati altri casi di ripresa dell’attività cardiaca. Lo studio ha concluso che il 14 per cento dei casi analizzati ha mostrato segni di attività cardiaca anche dopo la cessazione del battito.
Solo nell’un per cento dei casi analizzati la ripresa transitoria dell’attività cardiaca, di quella respiratoria o di entrambe era stata colta anche dall’osservazione dei medici presenti. Il periodo più breve intercorso tra la cessazione del battito e la ripresa dell’attività cardiaca – anche soltanto una pulsazione – è stato di 64 secondi, e il più lungo è stato di 4 minuti e 20 secondi. Nessuno dei casi studiati ha mostrato segni di ripresa della circolazione sanguigna né stati di coscienza, e la ripresa momentanea dell’attività cardiaca non è mai durata oltre pochi istanti. «I medici e le famiglie devono essere messi al corrente di cosa accade nel 14 per cento delle volte, ma deve anche essere messo in chiaro che questo non implica che la persona torni in vita» ha spiegato Dhanani, il medico a capo del gruppo di ricerca.
Secondo Dhanani questo genere di studi è di fondamentale importanza per la formazione di un substrato culturale in cui le famiglie di pazienti donatori di organi non siano condizionate da dubbi e incertezze. Occorre che queste persone abbiano fiducia nel fatto che la morte sia realmente avvenuta e sia irreversibile. Soltanto questa consapevolezza permette loro di riflettere sulla donazione e alla comunità medica di non provare disagio nell’aprire un dialogo in quella direzione. La raccolta di prove scientifiche in questo ambito di ricerca, secondo Dhanani, serve inoltre a contrastare gli effetti che continuano a produrre sulle persone le leggende e le storie di persone che “tornano in vita” dopo essere state dichiarate morte, alcune delle quali risalenti a epoche in cui la comprensione di molti fenomeni clinici era più limitata di quella attuale.
I dati ricavati dallo studio serviranno tra le altre cose a migliorare i termini entro i quali definire la morte dal punto di vista medico: «qualcosa di più simile a un continuum che non a un interruttore», secondo Joanna Lee Hart, specialista di terapia intensiva e ricercatrice alla Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania, a Philadelphia. «I nostri corpi sono fisiologicamente progettati per rimanere in vita, e pompano sostanze per prolungare la vita il più a lungo possibile», ha spiegato Hart, «ma una volta che il processo fisiologico della morte ha inizio è molto difficile riportare il corpo di una persona a una condizione in cui può sopravvivere».
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Quanto occorre aspettare
I risultati dello studio del CHEO Research Institute hanno fornito un’importante prova a sostegno delle attuali procedure cliniche che, in Canada come in molti paesi in Europa, prevedono di attendere cinque minuti dopo la fine dell’attività circolatoria prima di accertare la morte e procedere all’eventuale espianto degli organi. Nel caso di eventuali segni evidenti di ripresa momentanea dell’attività cardiaca o respiratoria il conteggio dei cinque minuti riparte da zero. Negli Stati Uniti, nel caso dei donatori, l’intervallo di attesa suggerito è tra due e cinque minuti dopo la cessazione delle funzioni cardiache e respiratorie. In Italia un decreto ministeriale dell’11 aprile 2008 (pdf) – a sua volta collegato a un precedente decreto ministeriale del 22 agosto 1994 e alla Legge n. 578 del 29 dicembre 1993 – stabilisce che l’accertamento della morte in caso di arresto cardiaco deve essere effettuato da un medico attraverso il rilievo continuo dell’elettrocardiogramma protratto per non meno di 20 minuti e registrato su supporto cartaceo o digitale.
La gestione del tempo – a cominciare da quello necessario per l’accertamento della morte – rappresenta nel caso delle donazioni di organi un fattore estremamente importante, e da considerare sempre in relazione ad altri eventi concatenati. Organi come i reni possono essere mantenuti irrorati da trattamenti di sostegno vitale per più di un giorno, ma altri – come il cuore – devono essere trapiantati entro poche ore. Qualsiasi ritardo lungo la catena può determinare, nei casi peggiori, la morte dei destinatari degli organi. E in generale la quantità di tempo trascorso in assenza di circolazione sanguigna influisce sul deterioramento degli organi destinati all’espianto. In ambito medico l’arco di tempo di osservazione senza attività cardiaca da attendere nel caso di pazienti donatori è definito “no touch period”.
Nella pratica clinica la distinzione prevalente nel classificare la morte nel caso di pazienti donatori di organi è tra la morte cardiocircolatoria (donor after cardiac death, DCD) e la morte cerebrale (donor after brain death, DBD). Sebbene sia cresciuta in tempi recenti la percentuale di donazioni provenienti da pazienti DCD, la maggior parte degli organi trapiantati proviene da persone dichiarate cerebralmente morte.
Una volta che i sistemi di supporto vitale vengono disattivati il cuore si contrae e rimane in breve tempo a corto di ossigeno e di sangue. Le cellule del muscolo cominciano a morire, la pressione sanguigna scende e il cuore va in arresto cardiaco. Il flusso sanguigno si ferma. A quel punto, in preparazione di un espianto di uno o più organi, i medici devono attendere un tempo minimo per assicurarsi che la perdita di circolazione sia permanente e dichiarare la morte, ma non possono attendere troppo a lungo rischiando che gli organi si deteriorino a causa della mancanza di circolazione sanguigna. Riguardo alla durata del no touch period secondo i protocolli attuali Dhanani ritiene che cinque minuti siano un tempo sufficiente.
Tutte le persone coinvolte nello studio del CHEO Research Institute avevano subìto una gravissima malattia o un incidente, per cui i medici avevano già prospettato una morte imminente. I familiari di quelle persone avevano accettato la disattivazione dei sistemi di supporto vitale e, dopo esser stati contattati dai ricercatori, avevano anche accettato che venissero registrate eventuali attività cardiache e respiratorie dopo il distacco dei sistemi. Tutti avevano inoltre accettato che non sarebbe stato effettuato alcun tentativo di rianimazione cardiopolmonare (RCP, la procedura nota come massaggio cardiaco).
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La storia di Anna Bagenholm
Lo studio pubblicato sul NEJM, che raccoglie il più alto numero di casi mai registrati per una ricerca di questo tipo, contribuisce ad accrescere il livello di uniformità e sistematicità dei dati all’interno di una materia per altri versi nota per i casi eccezionali e gli eventi rarissimi. Uno dei più raccontati e studiati negli ultimi due decenni riguarda un incidente capitato a una radiologa svedese, Anna Bagenholm, il 20 maggio 1999, mentre sciava con due colleghi sulla montagna di Kjølen nella città norvegese di Lesja, tra i Monti Scandinavi.
Erano tutti sciatori esperti e approfittarono della neve fresca per fare qualche fuoripista, ma Bagenholm – all’epoca ventinovenne – scivolò in discesa lungo la montagna e cadde a capofitto in un ruscello ghiacciato vicino a una cascata, aprendo un varco attraverso la lastra di ghiaccio. I colleghi cercarono di tirarla fuori ma Bagenholm rimase incastrata a testa in giù, tra il ghiaccio e le rocce. Avendo fortunatamente trovato una sacca d’aria riuscì a rimanere cosciente, in attesa dei soccorsi chiamati dai suoi colleghi. Dopo circa 40 minuti dalla caduta andò in arresto cardiocircolatorio, e soltanto dopo altri 40 minuti la squadra di soccorso, sopraggiunta sul luogo dell’incidente, riuscì a estrarla dal ghiaccio.
Non c’era polso, e Bagenholm non respirava: la squadra di soccorso eseguì subito la rianimazione cardiopolmonare, senza successo. Fu trasportata in elicottero all’ospedale universitario di Tromsø, il più importante nel nord della Norvegia: quando arrivò erano trascorse due ore e mezzo dall’incidente, e la temperatura corporea di Bagenholm era di 13,7 °C. «Aveva le pupille completamente dilatate, un colorito tra il bianco e il cinereo, ed era bagnata e gelida come il ghiaccio: sembrava assolutamente morta», raccontò anni dopo il dottore Mads Gilbert, allora capo dell’unità di pronto soccorso. «L’elettrocardiogramma, già collegato dai medici sull’elicottero, dava una linea completamente piatta, come tracciata con un righello», riferì Gilbert, che però decise di non dichiarare Bagenholm morta prima di aver fatto un tentativo di salvarla facendo gradualmente risalire la temperatura corporea.
La speranza di Gilbert era che in un ambiente straordinariamente freddo il cervello di Bagenholm avesse piano piano ridotto la richiesta di ossigeno. Si stima che in situazioni normali e a una temperatura di 37 °C il cervello non possa resistere più di venti minuti senza ossigeno prima di subire danni irreversibili. Ma nel caso di Bagenholm un progressivo rallentamento del metabolismo del corpo aveva forse permesso al cervello di resistere con molto meno ossigeno (quello fornito attraverso la continua rianimazione cardiopolmonare, dopo che Bagenholm era stata tirata fuori dal ghiaccio).
Per diverse ore i sistemi di rianimazione in ospedale pomparono sangue e ossigeno nel corpo di Bagenholm. Per far risalire la temperatura corporea il sangue veniva pompato fuori dal corpo, riscaldato e ossigenato, e poi ripompato nel sistema arterioso di Bagenholm. A parte un paio di lampeggi sul cardiofrequenzimetro, Bagenholm non diede alcun segno di vita fino al giorno dopo l’incidente, quando il suo cuore ricominciò a pompare sangue autonomamente. Dopo 12 giorni Bagenholm aprì gli occhi, ma a causa dei danni ai nervi periferici ci volle un intero anno prima che fosse di nuovo in grado di muoversi e di camminare.
Oggi Bagenholm, che poi si riprese completamente, lavora nello stesso ospedale di Tromsø in cui fu salvata ventuno anni fa. Il suo caso fu studiato in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica britannica The Lancet e la sua storia è ritenuta un punto di svolta nell’approccio medico alla morte per ipotermia. Prima del 1999 nessun paziente nell’ospedale di Tromsø era sopravvissuto a un’ipotermia come quella capitata a Bagenholm. Tra il 1999 e il 2013, secondo uno studio poi condotto da Gilbert, nove pazienti su ventiquattro nello stesso ospedale sono sopravvissuti dopo un arresto cardiocircolatorio per ipotermia.