L’epoca di Tom Brady
A 43 anni il quarterback più vincente nella storia del football americano giocherà il decimo Super Bowl di una carriera che ha dell'incredibile
di Pietro Cabrio
La stagione di National Football League (NFL) che si concluderà con il Super Bowl di domenica notte era iniziata a settembre con un grande cambiamento: il passaggio di Tom Brady, il quarterback più vincente nella storia del football americano, dai New England Patriots ai Tampa Bay Buccaneers, due squadre completamente diverse. I Patriots, con sei Super Bowl vinti dal 2001, erano stati la miglior squadra della NFL negli anni Duemila mentre i Buccaneers avevano trascorso tredici anni senza nemmeno arrivare ai playoff. L’arrivo di Brady ha capovolto gli equilibri, in una sola stagione. Con lui i Buccaneers non solo hanno raggiunto i playoff, ma sono arrivati al Super Bowl dopo diciotto anni di attesa; senza di lui i Patriots hanno addirittura mancato i playoff, come non succedeva da undici stagioni.
L’apparente scambio di ruoli tra Buccaneers e Patriots riassume bene la figura di Brady, uno sportivo che da noi non è così conosciuto ma che negli Stati Uniti, dove il football è lo sport più popolare, può essere paragonato soltanto a LeBron James. La sua carriera ha dell’incredibile e la sua storia è profondamente radicata nella cultura americana. Negli ultimi vent’anni Brady ha partecipato da protagonista a nove edizioni del Super Bowl, la finale del football americano e l’evento più seguito negli Stati Uniti, non solo tra quelli sportivi. Di queste nove finali — tutte giocate con i Patriots — ne ha vinte sei. Domenica notte, alla sua decima partecipazione, ha la possibilità di arrivare a sette, tre in più del leggendario quarterback Joe Montana, considerato il migliore di sempre nel suo ruolo, prima dell’arrivo di Brady.
La sua storia non ha niente a che vedere con quella di tanti altri campioni accompagnati da grandi aspettative fin da adolescenti, i cosiddetti predestinati come lo sono stati Micheal Jordan e LeBron James. Al draft del 2000 — l’evento in cui le squadre di NFL scelgono i migliori giocatori provenienti dalle università — fu scelto addirittura alla 199ma chiamata: secondo le valutazioni fatte dalle squadre, quell’anno c’erano 198 giocatori migliori di lui, e tra questi cinque quarterback più quotati. Brady dovette aspettare addirittura due giorni chiuso in casa prima di ricevere una chiamata, quella dei New England Patriots, che comunque lo scelsero come riserva delle riserve: quarto nel suo ruolo in ordine di preferenza.
Ma già allora Brady era abituato a non essere molto considerato, e questa viene descritta ancora come la sua forza più grande. A San Mateo, cittadina californiana dove è cresciuto in una famiglia per metà di Boston e per l’altra del Minnesota, era conosciuto perlopiù come il fratello minore di Nancy, Julie e Maureen, le tre sorelle maggiori, note in zona per i loro successi nel softball e nel calcio. Al liceo, nonostante già si distinguesse per avere un buon lancio, dovette passare da un camp all’altro prima di essere considerato dalle maggiori università americane. Anche quando venne scelto dai Wolverines, storica squadra di football dell’Università del Michigan, si ritrovò come terzo quarterback di riserva e passò un anno senza giocare.
Il suo problema principale era quello di sembrare uno qualunque. Nel rapporto scritto su di lui in vista di quel famoso draft della NFL gli osservatori furono d’accordo nel definirlo «sveglio e intelligente, con caratteristiche da leader, calmo e misurato in ogni situazione» ma anche «magro e smilzo tanto da sembrare un grissino, senza presenza e forza fisica, con scarsa mobilità e in difficoltà a improvvisare». Oltre a questo, prima di scegliere il football aveva avuto la possibilità di intraprendere una carriera nel baseball. Fece dei provini con i Seattle Mariners e nel 1995 fu selezionato dai Montreal Expos, oggi conosciuti come Washington Nationals. L’incertezza sul suo futuro da professionista contribuì a farlo scendere nelle graduatorie, anche se Brady fu sempre convinto nello scegliere il football.
Le osservazioni fatte su di lui dalle squadre di NFL non erano completamente sbagliate, in effetti. Brady non dimostrava nessuna grande dote atletica. Nella corsa era abbastanza lento, frenato da un’altezza di 1 metro e 93 centimetri e gambe piuttosto lunghe, e i suoi movimenti erano visibilmente sgraziati. Ma le abilità da quarterback – capire il gioco, decidere in fretta, lanciare rapidamente e con precisione – erano indipendenti da tutto questo. A detta dei suoi allenatori all’Università del Michigan, Brady era il più furbo, il più scaltro e il più motivato di tutti. Aveva inoltre una dedizione assoluta nei confronti del football, per la quale passava intere giornate a studiare i libroni degli schemi o a riguardare vecchi filmati di gioco, abitudini che ha sempre cercato di migliorare.
Nel 2000 venne quindi selezionato dai Patriots come quarto giocatore nel suo ruolo, ma questo non gli impedì di presentarsi al proprietario della franchigia, il miliardario Robert Kraft, come «la miglior decisione che avesse mai preso». Al primo anno in New England venne mandato in campo solo una volta e fece appena in tempo a fare un lancio di cinque metri. Ma sotto la protezione dell’esperto quarterback titolare, Drew Bledsoe, e dopo essersi fatto notare negli allenamenti e soprattutto nelle riunioni di squadra, con osservazioni e domande mai scontate, scalò le gerarchie fino a diventare la prima riserva.
La sua carriera, e di conseguenza la storia del football americano, cambiarono il 23 settembre 2001, nello stesso mese in cui, dopo l’attacco terroristico al World Trade Center di New York, era cambiata anche la storia degli Stati Uniti. Nella partita di stagione regolare contro i New York Jets, Bledsoe prese un colpo che gli causò una emorragia interna e dovette farsi ricoverare. Brady lo sostituì: entrò in campo e non lo lasciò mai più, una cosa per nulla scontata nel football, dove la tradizione vuole che un giocatore infortunato ritrovi il suo posto una volta guarito.
Brady impiegò una manciata di partite per diventare decisivo e nelle successive dieci, con diciotto touchdown lanciati, portò i Patriots fino al Super Bowl di New Orleans in cui i St.Louis Rams divennero la prima squadra a perdere una finale all’ultima giocata. Il merito fu di Brady, che negli ultimi secondi della partita, sul risultato di parità, invece di fare scadere il tempo per portarla ai supplementari si prese la responsabilità di continuare a lanciare per far avanzare la squadra fino al punto da dove poi il kicker Adam Vinatieri ottenne i tre punti decisivi. I Patriots andarono in vantaggio senza che i Rams avessero più tempo per rispondere. Brady fu eletto miglior giocatore del Super Bowl alla sua prima partecipazione, dando inizio alla lunga “dinastia” vincente dei Patriots, la stessa che pare proprio essersi esaurita con il suo trasferimento in Florida.
Alcuni fra i quasi duecento giocatori che gli furono preferiti nel 2000 non sono mai arrivati a giocare in NFL. Altri si sono ritirati da tempo senza mai avvicinarsi ai suoi livelli, altri ancora sono durati giusto una decina di partite. Nel frattempo Brady si è preso tutto quello che ha potuto. Come ha spiegato di recente Giorgio Tavecchio, l’unico giocatore italiano in NFL, in uno speciale di Dazn (che domenica trasmetterà il Super Bowl in Italia): «Brady ha questa magia attorno a lui, sembra una marea che alza tutti. Ci giocai contro una volta, ci massacrò». E a 43 anni compiuti non sembra avere intenzione di fermarsi. Nel Super Bowl di domenica notte, che i Tampa Bay Buccaneers giocheranno in casa contro i Kansas City Chiefs, campioni in carica dalla passata stagione, affronterà il miglior quarterback della nuova generazione, Patrick Mahomes, più giovane di diciotto anni, che l’anno scorso ha firmato uno dei contratti più ricchi nel mondo dello sport professionistico.