L’ultima speranza della sinistra israeliana
Si chiama Merav Michaeli ed è la nuova leader del Partito Laburista, che alle prossime elezioni rischia di scomparire
Secondo i sondaggi delle prossime elezioni politiche che si terranno in Israele il 21 marzo, le quarte in circa due anni, ci sono tre partiti certi di superare la soglia psicologica dei dieci seggi e altri tre che potrebbero arrivarci superando le aspettative. Nessuno di questi è un partito di sinistra.
La sinistra israeliana ha governato il paese per decenni ed espresso leader che oggi sono considerati padri della patria come David Ben Gurion, Ytzak Rabin e Shimon Peres: eppure non indica un primo ministro da vent’anni e nelle ultime elezioni il suo consenso si è progressivamente ridotto fino quasi a sparire. La settimana scorsa il Partito Laburista, il più illustre e istituzionale fra i partiti della sinistra, ha eletto il suo nuovo leader, il decimo nel giro di vent’anni, considerato l’ultima speranza per risollevare le sorti del partito e della sua parte politica.
Lei si chiama Merav Michaeli, ha 54 anni, e secondo Haaretz ha appena ottenuto «l’incarico più difficile nella politica israeliana».
Michaeli siede nella Knesset, il Parlamento israeliano, dal 2013, e ha sempre rappresentato l’ala più a sinistra del partito. Prima di entrare in politica ha lavorato soprattutto come attivista per i diritti delle donne – è nota anche per usare sempre le forme femminili dell’ebraico, anche quelle più rare che nel linguaggio comune stanno progressivamente sparendo – e come opinionista per Haaretz. In pubblico non indossa mai del trucco. Da molti anni ha una relazione col conduttore televisivo Lior Schleien, che non ha mai formalizzato: lei lo chiama il suo non-marito. La sua ambiziosità era nota da tempo, dentro e fuori dal partito: nel 2014 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu apparve nel programma di Schleien avvertendolo scherzosamente che prima o poi sua moglie sarebbe potuta diventare primo ministro.
Ma la notorietà di Michaeli è aumentata soprattutto negli ultimi mesi, da quando a maggio si oppose alla decisione del Partito Laburista di aderire a un governo di coalizione col Likud di Netanyahu e il partito centrista di Benny Gantz, Blue e Bianco. Fu l’unica dei tre deputati del suo partito a rimanere all’opposizione: gli altri due non solo decisero di sostenere la maggioranza, ma entrarono persino nel governo. «Credo ancora nel Partito Laburista», disse all’epoca al Times of Israel smentendo di volersi dimettere, «e spero che presto avremo un’opportunità per ricostruirlo e riabilitarlo».
Pochi giorni fa ha vinto le primarie del partito col 77 per cento dei voti, battendo degli avversari semisconosciuti. La sua piattaforma politica è piuttosto semplice: «In termini di ideologia i valori del centrosinistra hanno trionfato persino in Israele», ha detto più di recente al Times of Israel: «Se guardi i sondaggi gli israeliani credono nel pluralismo, nell’uguaglianza, nella libertà religiosa. C’è persino una sottile maggioranza per la soluzione a due stati. E al momento non esiste un partito che rappresenti queste istanze».
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Michaeli dovrà faticare parecchio per rigenerare il partito e guadagnare consensi: al momento i sondaggi lo danno appena sopra la soglia di sbarramento, che in Israele è fissata al 3,25 per cento. E alle elezioni mancano poco meno di due mesi: un tempo limitatissimo per pianificare e mettere in pratica una campagna elettorale efficace, soprattutto oggi che la credibilità del partito è ai minimi storici.
I Laburisti non eleggono più di 20 deputati dal 1999, e alle ultime due elezioni hanno preso rispettivamente il 4,8 e il 5,8 per cento, sempre in coalizione con altri partiti per essere certi di superare la soglia di sbarramento. Da tempo sono percepiti come un partito che appartiene all’establishment politico, guidati da personalità di scarso spessore: il penultimo leader, Avi Gabbay, era un imprenditore ed ex ministro di Netanyahu, mentre quello uscente, Amir Peretz, una vecchia conoscenza della politica israeliana che durante il suo mandato si è fatto notare soprattutto per essersi tagliato i baffi che portava da sempre affinché gli elettori potessero «leggergli le labbra» quando diceva che non avrebbe mai governato con Netanyahu (salvo poi entrare nel suo governo dopo che gli era stato offerto l’incarico di ministro dell’Economia).
Sia Gabbay sia Peretz avevano inoltre proseguito la tradizione ormai ventennale di spostare progressivamente la linea del partito verso il centro, nel tentativo di attrarre i moderati delusi da Netanyahu; che però hanno finito per votare comunque il Likud o il partito centrista del momento (così come anche molti elettori laburisti disillusi dai propri leader).
C’è un motivo per cui quasi tutti i leader del partito degli ultimi vent’anni hanno cercato di spostarsi al centro o non si sono rifiutati di allearsi con Netanyahu: la grandissima attenzione al tema della sicurezza interna che gli elettori israeliani prestano dalla fine della Seconda intifada, cioè la seconda rivolta popolare palestinese, che si concluse nel 2005.
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Prima di allora gli attentati terroristici contro i civili israeliani erano quasi all’ordine del giorno: in quegli anni morirono più di 700 civili, più del doppio dei soldati israeliani impegnati nei combattimenti (durante il conflitto morirono anche quasi 5mila palestinesi fra miliziani e civili). Le bombe e gli attentati suicidi diventarono talmente frequenti che il governo israeliano costruì attorno a Gerusalemme e agli insediamenti israeliani della sua periferia un muro in piedi ancora oggi.
«In estrema sintesi, nel decennio prima che Netanyahu ottenesse il potere nel 2009 la paura della morte ci accompagnava ogni volta che uscivamo di casa», ha raccontato qualche tempo fa il commentatore israeliano Matti Friedman sul New York Times: «C’era la possibilità che i tuoi figli saltassero in aria sull’autobus di ritorno da scuola. Nei dieci anni successivi non è più successo. Accanto a questo fatto, ogni altro fattore scompare».
La Seconda intifada e il fallimento dell’ultimo concreto negoziato per una soluzione a due stati con i palestinesi, nel 2000, ebbero conseguenze pesantissime per il Partito Laburista, che si era posizionato come “il partito della pace”: da allora non è più riuscito a trovare il suo posto nel dibattito politico israeliano, né ad articolare una visione per il futuro del paese. Se alle elezioni del 21 marzo non raggiungesse il 3,25 per cento rimarrebbe fuori dalla Knesset per la prima volta nella storia, e quasi certamente si disintegrerebbe.
Naturalmente il tema della sicurezza non spiega da solo perché Netanyahu domini da anni il dibattito pubblico e sia arrivato in maggio al quinto mandato da primo ministro. Altri fattori rilevanti sono la progressiva polarizzazione politica che ha prosciugato l’elettorato dei moderati, spingendoli spesso verso Netanyahu, la questione demografica – gli ultraortodossi, che votano convintamente per i partiti di estrema destra, fanno molti più figli dei cosmopoliti e progressisti abitanti delle città – e l’abilità dello stesso Netanyahu nel dipingere la sinistra come scarsamente patriottica, eccessivamente legata ai palestinesi e alle ong straniere, dotata di scarsa esperienza di governo, e così via.
Michaeli sa bene che nel poco tempo a disposizione difficilmente potrà ricostruire il Partito Laburista o raccogliere i consensi che otteneva prima del dominio di Netanyahu: per questo sta valutando se presentarsi all’interno di una coalizione con altri partiti di centrosinistra, come per esempio quello appena fondato dal longevo sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai. Michaeli ha detto al Times of Israel che entrare in una coalizione «potrebbe diventare necessario» per sottrarre più voti possibili alla destra: «Ma molto dipenderà dal prezzo che dovremo pagare. Di sicuro prometto che non entrerò in un governo che farebbe cose terribili per Israele».