Com’era Roma quando diventò capitale

Perlopiù campagna, ma le cose sarebbero cambiate in fretta dopo il 3 febbraio 1871

Il Tevere e Castel Sant'Angelo, dipinto di Ippolito Caffi (Palazzo Braschi, Museo di Roma)
Il Tevere e Castel Sant'Angelo, dipinto di Ippolito Caffi (Palazzo Braschi, Museo di Roma)

Quando vogliamo riferirci a un passato vago e idealizzato, più o meno seriamente, si usa spesso l’espressione “una volta qua era tutta campagna”. Fa parte di quel campionario di frasi fatte che vengono usate di più per prendere in giro il tipo di persone che le usano, ma c’è un contesto in cui è particolarmente azzeccata: quando ci si trova in certi quartieri di Roma costruiti dopo che la città fu fatta capitale del Regno d’Italia, il 3 febbraio del 1871, 150 anni fa.

È difficile immaginarlo oggi, ma all’epoca in cui diventò capitale Roma era per due terzi disabitata. All’interno delle mura aureliane, dove oggi ci sono quartieri considerati piuttosto centrali, c’erano orti e vigne. Era insomma davvero campagna. La parte abitata era quella che oggi corrisponde al centro storico, e il Colosseo era al confine della parte urbanizzata. Oltre, verso sud, c’era poco o nulla.

Mappa di Roma del 1838. I confini in nero corrispondono alle mura aureliane. (Antonio Nibby/Wikimedia Commons).

Non erano solo gli orti e le vigne a rendere Roma diversa rispetto a oggi. Per fare solo un esempio, un elemento distintivo come i muraglioni del fiume Tevere prima degli ultimi anni dell’Ottocento non esisteva, così come non esistevano le lunghe strade che costeggiano il fiume. Semplicemente, la città digradava verso la sponda senza argini, motivo per cui c’erano periodiche esondazioni che allagavano i vicoli e le strade. Ce ne fu una particolarmente grossa il 28 dicembre del 1870, a seguito della quale si decise di costruire gli argini, completati solo nel 1926.

Come scrisse lo storico Ferdinand Gregorovius, rendere Roma capitale fece passare la città dal medioevo all’età moderna nel giro di pochi anni. Prima di Roma erano state capitali Torino e Firenze, ma quasi tutta la classe dirigente che aveva fatto l’unità d’Italia concordava sul fatto che Roma dovesse essere presa al Papa, che la governava da secoli. La città era vista come la capitale naturale del regno d’Italia, senza la quale non si poteva dire completa l’unificazione avviata nel 1861.

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È molto nota e citata la frase “fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”, attribuita a Massimo d’Azeglio. Dopo il 1871, bisognava creare anche una città che potesse svolgere le funzioni di una importante capitale: Roma era sprovvista sia di edifici che potessero accogliere adeguatamente i ministeri e gli apparati burocratici, sia di persone che potessero essere impiegate in quei ministeri e in quegli apparati. Perciò nel giro di due decenni, tra il 1870 e il 1890, a Roma furono costruiti interi quartieri e ci fu un’intensa immigrazione da tutte le parti d’Italia. Dal Nord arrivava principalmente personale qualificato per formare il ceto impiegatizio, dal Sud arrivavano soprattutto gli operai che dovevano costruire le case, i palazzi e gli uffici.

Buona parte dei rioni Esquilino e Ludovisi – vale a dire quella parte di città che parte dalla zona intorno alla stazione Termini, passa per via Nazionale e arriva fino a via Vittorio Veneto – fu costruita in questi due decenni. Si decise di costruire da quella parte proprio per la presenza della stazione, che era stata costruita in epoca pontificia dal cardinale de Merode per far salire il valore delle sue proprietà in quella zona. Si pensò che la stazione potesse essere utile per i futuri impiegati, e si proseguì quindi lo sviluppo edilizio che aveva già cominciato papa Pio IX, seppur a ritmi molto più alti.

La velocità con cui avvenne questa espansione fu dovuta a diverse cause. Sicuramente contribuì l’esigenza politica di dotarsi di una capitale al più presto, ma ci furono anche forti pressioni speculative dovute agli interessi economici dei proprietari dei terreni dove si doveva costruire. «Tra il 1870 e il 1880 il valore di quei fondi è aumentato del 5mila per cento», racconta Riccardo Santangeli Valenzani, docente di archeologia urbana a Roma Tre. «Quindi è chiaro che c’erano forti interessi a costruire tanto e in fretta. Dal punto di vista archeologico, però, l’espansione di quegli anni fu devastante».

Il Palatino – che era di proprietà dell’ex imperatore Napoleone III e lo donò allo stato italiano nel 1870 – fu reso parco archeologico insieme a tutta la zona intorno al Colosseo, mentre l’Esquilino e quello che oggi è il rione Ludovisi non ebbero lo stesso trattamento, nonostante quelle campagne fossero piene di testimonianze della Roma antica. Quello del conflitto tra progresso e conservazione del passato è un dibattito complesso, che per certi versi a Roma non si è mai chiuso. Secondo Valenzani, però, non è tanto la conservazione del monumento in sé che conta, quanto delle informazioni che i resti contengono.

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«I lavori che sono stati fatti in quel periodo sono stati seguiti dalla Soprintendenza archeologica appena creata e dall’archeologo Rodolfo Lanciani», spiega Valenzani. «Ma era un periodo in cui le influenze tardo-positiviste erano forti e non c’era un metodo per far coesistere archeologia ed edilizia pubblica. In pratica è andato distrutto quasi tutto, senza documentazione, ma non dobbiamo guardare solo alla perdita dell’oggetto in quanto tale, ma alla perdita dell’informazione che ci avrebbe potuto dire molte cose che non sappiamo».

Qualche traccia di ciò che c’era nell’Ottocento nel rione Ludovisi è rimasta: un enorme giardino, grande come una città, che arrivava fino a piazza Barberini e descritto da molte fonti dell’epoca come bellissimo e suggestivo. Nel 1886 l’aristocratico proprietario del giardino e della villa che c’era all’interno, Rodolfo Boncompagni-Ludovisi, acconsentì a lottizzare la tenuta con un accordo a tre tra il comune, la proprietà e la Società Generale Immobiliare. Lo storico dell’arte Hermann Grimm, nel suo libro La distruzione di Roma scritto proprio nel 1886, commentò così la decisione di Boncompagni-Ludovisi:

Sì, io credo che se si fosse domandato qual era il più bel giardino del mondo, coloro che conoscevano Roma avrebbero risposto senza esitare: Villa Ludovisi. Fra le cose che, divenendo Roma Capitale d’Italia, venivan prima in mente a quanti conoscevano e amavano Roma, c’era la speranza che quei giardini, con le belle fabbriche e con le statue e i quadri in essi contenuti, diventassero di dominio pubblico e fossero facilmente accessibili. Predire che sotto il nuovo Governo la villa dovesse andare distrutta, come oggi accade, e gli allori, le querce, i pini abbattuti, come oggi li vedi abbattere, sarebbe stata allora un’offesa che neanche il più acerbo nemico della nuova Italia avrebbe osato recarle, perché sarebbe sembrata un’enorme follia.

Lo sviluppo di Roma iniziato dopo il 1870 si arrestò piuttosto bruscamente dopo vent’anni, per via dello scandalo della Banca Romana che fece scoppiare la bolla speculativa, causando le dimissioni del primo governo di Giovanni Giolitti e lasciando da un giorno all’altro migliaia di persone sul lastrico o senza un impiego. Roma tornò a espandersi a ondate solo nei decenni successivi, durante il fascismo e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, quando la città si espanse in maniera piuttosto incontrollata raggiungendo le dimensioni di oggi.