Chi è Aung San Suu Kyi
La leader del Myanmar arrestata in un colpo di stato è stata una delle dissidenti più famose del mondo, prima di essere accusata di tollerare le persecuzioni dei rohingya
Aung San Suu Kyi, la leader di fatto del governo del Myanmar che è stata arrestata lunedì nel corso di un colpo di stato da parte dell’esercito, è una figura politica complessa che è al centro della storia del suo paese da oltre 30 anni: dapprima come attivista per la democrazia, leader nonviolenta e prigioniera politica vincitrice del premio Nobel per la Pace, che ha trascorso 15 anni agli arresti domiciliari; poi come capo dell’opposizione, dopo la sua liberazione nel 2010; e infine come leader di fatto del Myanmar, dopo la vittoria alle elezioni del 2015, le prime davvero libere in 25 anni.
Suu Kyi, che durante la sua prigionia era probabilmente la dissidente più famosa e celebrata del mondo, negli anni più recenti ha deluso molti dei suoi sostenitori soprattutto perché il suo governo, che in parte ha continuato a dipendere dal potere dei militari, ha dapprima ignorato e poi difeso la persecuzione della minoranza musulmana dei rohingya, compiuta dai militari a partire dal 2017 e considerata da molte organizzazioni internazionali come un genocidio. In Occidente, molti commentatori hanno chiesto che le fosse ritirato il premio Nobel, mentre altri hanno interpretato la difesa delle azioni dell’esercito da parte di Suu Kyi come un atto di realismo politico e un tentativo di preservare il fragile processo di democratizzazione del Myanmar.
Suu Kyi è nata nel 1945 a Yangon ed è figlia di Aung San, eroe nazionale birmano e uno dei personaggi più famosi della storia moderna del paese. Aung San ottenne l’indipendenza del Myanmar dal Regno Unito dopo anni di lotta ma fu assassinato nel luglio del 1947, pochi mesi prima dell’indipendenza, che divenne ufficiale nel gennaio del 1948.
La madre di Suu Kyi, Khin Kyi, rimase una figura di una certa importanza, e nel 1960 fu nominata ambasciatrice in India. Si trasferì a Nuova Delhi con i suoi due figli, ma soltanto due anni dopo l’esercito birmano organizzò un colpo di stato e instaurò una dittatura militare nel paese. Suu Kyi, che al tempo aveva 17 anni, non sarebbe più tornata in Myanmar, a parte qualche visita occasionale, per 28 anni.
Suu Kyi frequentò dapprima le scuole di Nuova Delhi, poi si trasferì nel Regno Unito e si laureò a Oxford, dove studiò filosofia, politica ed economia. Trascorse un periodo a New York, lavorando per l’ONU, e nel 1972 sposò Michael Aris, uno storico ed esperto di buddhismo tibetano. I due si stabilirono a Oxford ed ebbero due figli, e per qualche tempo trascorsero una vita tranquilla.
Il New Yorker, in un ritratto pubblicato qualche anno fa, ha raccontato che Suu Kyi non smise mai di badare alla vita politica in Myanmar, e che si sentisse in un certo modo in dovere di recuperare l’eredità di suo padre, del quale in quegli anni pubblicò una breve biografia. Secondo il New Yorker, poco prima di sposare Aris, Suu Kyi gli inviò una lettera per spiegargli che se fosse stato necessario si sarebbe impegnata per il suo paese: «Ti chiedo soltanto una cosa, che se mai il mio popolo avrà bisogno di me, tu mi aiuterai a compiere il mio dovere nei suoi confronti».
Nel 1988 Khin Kyi, che al tempo viveva a Yangon, ebbe un infarto, e Suu Kyi tornò in Myanmar per accudirla. Trent’anni di dittatura militare avevano impoverito il paese, che era diventato uno dei più poveri del mondo. Proprio in quei mesi, a Yangon erano in corso grandi proteste studentesche: il generale Ne Win, che era stato l’autore del colpo di stato del 1962 che aveva instaurato la dittatura militare e che aveva governato in periodi alterni fin da allora, si dimise dalla carica di presidente. Quando, a partire dall’agosto del 1988, studenti e operai cominciarono a scendere in piazza per chiedere la fine della dittatura, i militari repressero le proteste con la violenza, e centinaia di persone (più probabilmente migliaia) furono uccise.
Suu Kyi si fece coinvolgere nel movimento per la democrazia. Anche se non aveva esperienza politica, in virtù della sua storia familiare un gruppo di ex militari, intellettuali e studenti le chiese di formare e guidare un nuovo partito, la Lega nazionale per la democrazia (NLD), e lei accettò.
Il 26 agosto del 1988 tenne il suo primo discorso pubblico a Yangon presso la pagoda Shwedagon, il luogo più sacro del buddhismo birmano, davanti a tantissime persone (si stima tra le 300 mila e il milione). «Come figlia di mio padre, non posso rimanere indifferente davanti a quello che sta accadendo», disse, lanciando «la seconda lotta per l’indipendenza nazionale».
Suu Kyi trascorse un anno di intenso attivismo politico, ispirata dalle teorie nonviolente di Mahatma Gandhi, in India, e dal movimento per i diritti civili di Martin Luther King, negli Stati Uniti. Nel maggio del 1989 il governo militare cedette alle pressioni e annunciò elezioni per l’anno successivo, ma poco dopo l’annuncio, Suu Kyi fu messa agli arresti domiciliari, senza processo, per aver «messo in pericolo lo stato». La NLD vinse la maggioranza assoluta, ma i militari ignorarono il risultato del voto.
Dei 21 anni tra il 1989 e il 2010, Suu Kyi ne avrebbe trascorsi più di 15 in prigione o ai domiciliari, chiusa nella villa della sua famiglia a Yangon.
In quegli anni, divenne uno dei prigionieri politici più famosi del mondo, oggetto dell’attenzione internazionale e di tantissime campagne per chiederne la liberazione. Ricevette il Nobel per la Pace nel 1991, e negli anni successivi fu più volte liberata e di nuovo arrestata: fu rilasciata per la prima volta nel 1995, ma fu messa ancora ai domiciliari nel 2000, rilasciata nel 2002 e poi di nuovo arrestata nel 2003. Parte del periodo di detenzione, Suu Kyi lo trascorse in isolamento, anche se periodicamente ricevette visite da membri del governo. In diversi momenti ebbe problemi di salute che la costrinsero al ricovero in ospedale.
Uno degli episodi più celebri e terribili della prigionia risale al 1999, quando a suo marito Michael Aris, che si trovava nel Regno Unito, fu diagnosticato un tumore in fase terminale. Il regime impedì ad Aris di andare in Myanmar per visitare Suu Kyi, ma si offrì di liberare la dissidente affinché potesse raggiungere suo marito a Oxford. Lei, sapendo che non sarebbe più stata in grado di tornare in Myanmar una volta uscita dal paese, si rifiutò. Aris morì pochi mesi dopo.
Nel 2010 il regime militare, che aveva cominciato a intraprendere una timida transizione verso una forma di governo più democratica, indisse le prime elezioni in vent’anni. Impedì a Suu Kyi di partecipare, ma la liberò sei giorni dopo, il 13 novembre.
Suu Kyi e la NLD rientrarono in politica. Lei fu eletta in parlamento durante un’elezione suppletiva del 2012, divenne capo dell’opposizione e annunciò che si sarebbe candidata alla presidenza alle elezioni del 2015. La NLD vinse le elezioni, ma a Suu Kyi fu impedito di accedere alla presidenza a causa di una riforma costituzionale fatta approvare dal regime militare nel 2008, che rendeva inaccessibile la presidenza a chiunque avesse sposato un cittadino straniero. La clausola, probabilmente, fu inserita proprio per evitare che Suu Kyi diventasse presidente.
Suu Kyi fece nominare presidente un suo fedele alleato, Htin Kyaw, e creò per sé la carica di consigliere di stato, che le consentì di gestire il governo in maniera ufficiosa.
Fino al suo arresto, è stata anche ministra degli Esteri. La Costituzione del 2008, però, continua a tenere il governo civile sotto la tutela dei militari: tra le altre cose, all’esercito spetta un quarto di tutti i seggi parlamentari, sufficienti per esercitare potere di veto su qualsiasi emendamento costituzionale, oltre che il controllo esclusivo sul ministero dell’Interno e su quello della Difesa. A partire dal suo ingresso in carica, Suu Kyi ha dovuto condividere il potere con i militari, cercando di mantenere un certo equilibrio.
Durante i suoi cinque anni di governo, Suu Kyi ha deluso gran parte delle aspettative che erano state riposte in lei. Sotto la sua guida, il processo di democratizzazione del Myanmar non è praticamente avanzato, anzi: in alcuni casi la situazione è peggiorata. Secondo gli esperti, per esempio, negli ultimi anni la stampa è diventata meno libera, anche a seguito di alcuni casi molto noti di giornalisti arrestati per aver criticato l’esercito o per aver raccontato cosa stava succedendo nelle aree di conflitti etnici. Anche internet è diventato oggetto di una censura crescente.
Suu Kyi e la NLD non hanno fatto praticamente niente per eliminare o modificare le leggi volute dal regime militare che minano la libertà d’espressione, e il numero dei prigionieri politici arrestati negli ultimi anni è tornato ad aumentare in maniera consistente.
Soprattutto, Suu Kyi è stata accusata di aver prima ignorato e sminuito e poi difeso la persecuzione della minoranza dei rohingya da parte dell’esercito. I rohingya, che professano fede islamica in un paese a stragrande maggioranza buddhista, sono considerati una delle minoranze più perseguitate del mondo: non godono del diritto di cittadinanza e da decenni sono ostracizzati dallo stato. Cominciata nell’agosto del 2017 con gli scontri tra l’esercito birmano e i ribelli rohingya nello stato del Rakhine, nell’ovest del paese, vicino al Bangladesh, la persecuzione divenne nel giro di poche settimane una campagna di violazione sistematica dei diritti umani, uccisioni indiscriminate, saccheggi e stupri di massa. Decine di migliaia di persone furono uccise, decine di migliaia di donne stuprate, e centinaia di migliaia di rohingya furono costretti a fuggire in Bangladesh. Diverse agenzie dell’ONU, organizzazioni umanitarie e governi hanno definito la persecuzione dei rohingya come un genocidio.
Suu Kyi ignorò la crisi dei rohingya nelle sue apparizioni pubbliche finché non divenne troppo grande per essere tralasciata. In seguito adottò la posizione ufficiale dell’esercito, dicendo che le violenze erano da entrambe le parti (cosa vera soltanto inizialmente: nel giro di poco tempo la repressione dell’esercito si trasformò in persecuzione etnica) e definendo l’operato dei militari come un’operazione anti terrorismo (effettivamente alcuni gruppi rohingya erano pesantemente infiltrati dal terrorismo islamico, ma davanti all’azione di genocidio dell’esercito birmano la questione era poco rilevante).
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Molti commentatori cercarono di giustificare la posizione di Suu Kyi come un atto di realismo politico: la leader birmana, secondo questa interpretazione, sarebbe stata costretta ad approvare l’operato dell’esercito per preservare il delicato equilibrio che sosteneva il suo potere, e di conseguenza il processo di democratizzazione. Molte di queste ipotesi sono state smentite quando, nel dicembre del 2019, Suu Kyi si presentò personalmente all’Aia, nei Paesi Bassi, davanti alla Corte internazionale di giustizia, per difendere il suo paese dalle accuse di genocidio, descrivendolo come un «conflitto armato interno» e dicendo che le accuse erano frutto di «un quadro incompleto e fuorviante della situazione nel Rakhine».
Già negli anni precedenti, diversi governi e associazioni umanitarie avevano condannato Suu Kyi per la sua inazione e ritirato importanti onorificenze. Si parlò di ritirarle il Nobel, anche se poi non se ne fece nulla, più che altro per ragioni burocratiche. Oltre che nella regione del Rakhine, Suu Kyi è stata accusata di non aver fatto niente per placare i conflitti etnici anche in altre regioni del paese, come per esempio nello stato settentrionale del Kachin, dove migliaia di persone di religione cristiana sono state costrette a fuggire nella confinante Cina.
Benché la reputazione di Suu Kyi sia stata quasi completamente rovinata in Occidente, la leader è rimasta molto popolare in patria. Nel novembre dell’anno scorso la NLD aveva vinto le elezioni ottenendo la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento e si stava preparando a formare un nuovo governo, prima che l’esercito, che aveva definito le elezioni come illegittime, compisse un altro colpo di stato.
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Non sono ancora chiare le motivazioni dei militari: da settimane nel paese si parlava della possibilità di un loro intervento, ma molti lo ritenevano improbabile perché grazie alla Costituzione l’esercito mantiene un discreto controllo sulla vita politica del paese. Alcune interpretazioni iniziali, avanzate per esempio dall’Economist, sostengono che il colpo di stato sia stato voluto soprattutto dal capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing, che sarebbe dovuto andare in pensione quest’anno ma che, invece, nutriva ambizioni politiche personali e non sopportava l’idea che l’esercito potesse perdere importanza in futuro.