Il futuro degli uffici
Il New Yorker ha raccolto idee e previsioni di amministratori delegati e società che si occupano di spazi di lavoro, chiedendosi se la pandemia li abbia cambiati per sempre
Negli ultimi decenni una serie di lente e silenziose rivoluzioni nella progettazione degli spazi di lavoro, il più delle volte con l’obiettivo di migliorare la produzione, ha coinvolto sempre più intensamente gli ambienti destinati a ciò che generalmente definiamo lavoro d’ufficio. Intanto il progresso tecnologico ha fornito una serie di strumenti il cui utilizzo ha avuto a sua volta ampie ripercussioni sulle pratiche e sulle abitudini dei lavoratori. Poi, nel 2020, un evento puntuale e dirompente come la pandemia da coronavirus da un lato ha messo a rischio il futuro stesso degli uffici per come li conosciamo, e dall’altro ha offerto opportunità senza precedenti di ripensarli e di ragionare sui motivi della loro stessa esistenza.
John Seabrook, giornalista del New Yorker, ha fornito numerosi spunti di riflessione in un lungo articolo, dopo aver parlato con progettisti e CEO di grandi aziende e aver partecipato a una serie di riunioni in cui manager e staff di quelle società stanno cercando di coniugare in soluzioni a lungo termine la necessità attuale del lavoro a distanza e il valore irrinunciabile dello spazio di lavoro fisico.
A cosa serve un ufficio
Seabrook parte da una domanda: «a cosa serve un ufficio?».
È un posto in cui i nuovi arrivati apprendono dai colleghi esperti? Un modo per i capi di tenere d’occhio gli scansafatiche? Una piattaforma di collaborazione? Una fonte di amici e relazioni sociali? Una tregua dalla famiglia? Una ragione per uscire di casa? Perché a quanto pare il lavoro, ossia quello per cui gli uffici erano fatti, è possibile farlo da qualche altra parte.
Secondo un recente sondaggio della piattaforma di servizi freelance Upwork, negli Stati Uniti il 27 per cento del lavoro nel 2021 sarà svolto in remoto. I lavoratori americani che si sono già trasferiti o stanno pensando di farlo – e molti di loro lontano dai grandi centri – sono circa 20 milioni. Prima della pandemia il mercato immobiliare nell’area di San Francisco era il più caro di tutto il paese, New York inclusa. Ora, secondo una stima del gruppo immobiliare commerciale CBRE, la percentuale di aree ed edifici sfitti a San Francisco è di oltre il 16 per cento, la più alta mai registrata.
Fino a prima della pandemia, osserva Seabrook, le risorse digitali permettevano di fatto di trascorrere tutto il giorno in uno spazio virtuale pur da uno spazio fisico condiviso con altre persone. Era tuttavia condivisa da molti l’impressione che l’utilizzo di quegli strumenti, che oggi permettono di lavorare da casa, già allora ponesse il rischio di un indebolimento delle relazioni umane faccia a faccia. «La tecnologia digitale non dovrebbe sostituire la connessione tra persone, dovrebbe favorirla quando ci sono limitazioni di spazio e tempo» ha detto al New Yorker l’amministratore delegato di Microsoft Satya Nadella.
Secondo Nadella, terzo amministratore delegato della società dopo Steve Ballmer e Bill Gates, l’efficienza della collaborazione a distanza in contesti lavorativi è in parte fondata sul «capitale sociale», una risorsa accumulata lavorando in presenza di altre persone ed esaurita lavorando a distanza. «Forse stiamo bruciando una parte del capitale sociale costruito prima, in questa fase in cui lavoriamo a distanza», aveva detto a maggio al New York Times. È anche vero però che quando osservi le persone lavorare da casa, e magari anche le incursioni di bambini rumorosi o di animali domestici invadenti, «sviluppi un diverso tipo di empatia verso i tuoi colleghi» ha aggiunto lo stesso Nadella.
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L’esempio di R/GA
R/GA è una delle più grandi società di consulenza e marketing al mondo, con sedi a New York, San Francisco, Londra, Berlino, Buenos Aires, Shanghai, Sydney, Tokyo e altre città. Fornisce servizi ad aziende come Slack, Reddit e Airbnb. La sede di New York – dove i costi di affitto in un grattacielo a Manhattan possono ammontare a 20mila dollari (circa 16.500 euro) per dipendente all’anno – è considerata uno degli uffici più all’avanguardia di tutta la città, progettato dallo studio di architetti Foster and Partners. Da quando a marzo i cento dipendenti della sede di San Francisco hanno cominciato a lavorare da casa, ha spiegato il consigliere delegato David Corns, «la produttività è salita alle stelle».
Nei primi sondaggi interni condotti da R/GA dopo il lockdown, i dipendenti si erano in larghissima parte detti soddisfatti del lavoro a distanza. Verso giugno e luglio tutti dicevano di avvertire molto la mancanza dei colleghi, ma in generale erano pochi quelli che pensavano di tornare al lavoro in ufficio cinque giorni a settimana. L’idea di lavorare in sede soltanto per pochi giorni a settimana, da uno a tre, raccolse invece una certa approvazione. I risultati dei sondaggi più recenti hanno infine indicato che i dipendenti a casa finivano per lavorare tutto il tempo, perché erano presi dall’ansia e dalla paura di fornire prestazioni insufficienti, o semplicemente perché non avevano altro da fare.
Erano inoltre emersi progressivamente altri punti deboli, nella pratica del lavoro quotidiano a distanza. Mancavano per esempio le interazioni spontanee tra colleghi, e il personale con figli piccoli aveva avuto un’esperienza di lavoro molto diversa rispetto a quella degli altri colleghi. Era inoltre risultato alquanto difficile integrare i nuovi assunti e introdurli da remoto nella cultura aziendale.
D’altra parte, l’erosione della cultura aziendale e gli altri svantaggi erano e sono considerati da molti trascurabili rispetto a una serie di benefici. Le riunioni su Zoom, secondo alcuni pareri annotati nei sondaggi, permettevano di «sentire più voci» e rispettare i turni per parlare: di fatto coinvolgere un maggior numero di dipendenti. «New York ha smesso di comportarsi come se fosse New-York-e-tutto-il-resto», ha scritto un dipendente di un’altra sede alludendo a un’autoreferenzialità della sede centrale nello svolgimento del lavoro aziendale.
R/GA ha quindi integrato i risultati dei sondaggi nei rapporti che ha presentato ad architetti e designer di società esterne incaricate di riprogettare gli spazi di lavoro, a cominciare dalle sedi principali, e di fornire un prototipo di uffici R/GA del futuro. Il New Yorker ha parlato con alcune di quelle aziende. Gensler è la più importante nel campo della progettazione e design di ambienti di lavoro al mondo. Ha realizzato tra le altre cose la famosa e celebrata sede di Campari America all’interno del Grace Building (incluso il Boulevardier Lounge, uno dei bar più noti di tutta Manhattan). O+A, a cui si è rivolta R/GA, è un noto studio di interior design di San Francisco fondato nel 1991 da Verda Alexander e Primo Orpilla, capo dell’azienda. Ha creato gli spazi di lavoro per aziende come Facebook, Uber e Yelp (peraltro clienti a loro volta di R/GA). E Arup è una multinazionale britannica di servizi professionali di ingegneria, architettura e design, con oltre 16mila dipendenti sparsi in 96 sedi in 35 paesi.
Il bisogno di introdurre protocolli di sicurezza
Dopo marzo 2020, nei mesi successivi ai lockdown, i progettisti di spazi di lavoro destinati alle grandi aziende si sono trovati di fronte alla necessità di rendere compatibili quegli spazi con determinati protocolli di sicurezza. E l’obiettivo di quei protocolli sembrava contraddire apertamente i principi che avevano ispirato i progettisti: anziché avvicinare le persone nei team di lavoro serviva adesso tenerle distanti. Ai progettisti era chiesto di ripensare gli spazi in modo da facilitare la pulizia delle superfici, il distanziamento fisico e il ricambio d’aria.
Negli Stati Uniti la pandemia ha inoltre lasciato emergere con rinnovata evidenza una serie di lacune nella regolamentazione dei luoghi di lavoro in materia di sicurezza. L’Occupational Safety and Health Administration (OSHA), il dipartimento statale che si occupa degli standard di sicurezza e d’igiene nei posti di lavoro, ha da sempre concentrato maggiori attenzioni su settori come l’edilizia, l’industria manifatturiera e la sanità. Nemmeno la pandemia è servita a spostare una parte di quelle attenzioni sugli uffici, sugli impiegati che li occupano per lunghe parti della giornata e sui rischi per i datori di lavoro in caso di contagi in azienda. Senza contare che l’amministrazione Trump, scrive Seabrook, ha in generale concentrato gli sforzi sulla deregolamentazione per le imprese e non sulla creazione di nuove norme. «Migliaia di lavoratori si sono lamentati con l’OSHA, e l’OSHA ha detto loro che sono da soli», aveva spiegato al Washington Post lo scorso giugno David Michaels, ex capo del dipartimento durante l’amministrazione Obama.
Nuovi studi, più estesi e solidi di quelli pubblicati in precedenza, suggeriscono che per ridurre il rischio di contagi da coronavirus l’uso di dispositivi di protezione individuale e il ricambio frequente dell’aria siano misure molto più importanti rispetto alla pulizia delle superfici e all’installazione di barriere in plexiglas. All’inizio dell’estate scorsa c’era invece stato un momento in cui i cubicoli da ufficio sembravano destinati a ricomparire un po’ dappertutto, in una versione con le pareti trasparenti come unica differenza sostanziale.
A lungo era anche circolata l’idea che gli oggetti, specialmente quelli di uso frequente e condiviso in ufficio (caffettiere, pulsanti degli ascensori, rubinetti, maniglie), potessero essere un veicolo di contagio. Aziende come Gensler cominciarono quindi a raccogliere informazioni sulle proprietà antimicrobiche del rame rispetto alla plastica e al cartone. Ma la ricerca in quella direzione fu abbandonata quando successive ricerche scientifiche, già da agosto, descrissero come improbabile il contagio attraverso le superfici.
Una certa attenzione fu allora riposta sulla segnaletica e sulle accresciute responsabilità dei grafici nella creazione di avvisi destinati ai cartelli da appendere negli uffici. Qualcuno provò a usare anche un po’ di umorismo, scegliendo messaggi meno scontati: “Abbraccia quello starnuto”, per dire di usare la piega del gomito e non le mani, o anche “Lavati le zampe”. L’importante era che tra gli impiegati circolassero tutte le informazioni indispensabili riguardo al distanziamento, al lavaggio frequente delle mani, all’uso delle mascherine e ai corretti percorsi da seguire in entrata e in uscita dagli uffici.
Molti di quei segnali non sono mai stati nemmeno utilizzati: i lavoratori che sono tornati a lavorare in sede sono una ristretta minoranza. Google, per esempio, ha recentemente posticipato la riapertura degli uffici a settembre. E in generale, secondo dati raccolti dall’organizzazione non profit Partnership for New York City, formata dai CEO delle principali società e imprese di New York, soltanto il dieci per cento degli impiegati di Manhattan è rientrato in ufficio. Una crescita significativa di questa percentuale prima della prossima estate sembra improbabile.
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Le nuove idee per gli uffici
Dopo aver sviluppato un kit di procedure e strumenti specifici per affrontare l’epidemia in corso, il capo dello Studio O+A, Primo Orpilla, ha chiesto al suo staff di immaginare in una prospettiva più ampia nuovi tipi di spazi adattabili a qualsiasi scenario simile a quello generato dall’epidemia di COVID-19. La richiesta era di concentrarsi sul tipo di attività richiesta ai dipendenti delle aziende, rispettando caratteristiche che potrebbero diventare standard nei luoghi di lavoro dopo la pandemia.
Seabrook, che ha partecipato a una riunione di gruppo di O+A su Zoom, ha riportato prima di tutto una proposta largamente condivisa dallo staff: una sorta di ampio spogliatoio, un ambiente in cui svestirsi e indossare gli abiti (Donning/Doffing Room). In questo spazio sarebbero inclusi una stazione per il controllo della temperatura, stanze di isolamento per eventuali casi sintomatici rilevati tramite termoscanner, postazioni da cui passare obbligatoriamente per lavare le mani, armadietti per riporre gli oggetti e le scarpe utilizzati all’esterno.
Sono poi state messe sul tavolo altre proposte, tutte con l’obiettivo di favorire una più chiara divisione degli spazi sulla base dei tipi di attività previste all’interno. Un ambiente, l’area “Stazione Radio”, potrebbe essere opportunamente attrezzato per i collegamenti audio e video con i lavoratori da remoto. Un’altra area, il “Campo di addestramento”, sarebbe destinata ai neoassunti, e una meno estesa, l’area “Risciò”, alle necessità di piccoli spazi privati chiusi. All’interno degli uffici sarebbero poi presenti varie attrezzature pensate per ridurre il contatto, ove possibile, come macchine da caffè contactless, costruite con sensori, e distributori d’acqua a pedale.
I turni di lavoro “misti”
Poco prima dell’autunno scorso R/GA aveva subaffittato il piano inferiore della sua sede principale a New York, in linea con una tendenza generale che ha visto aumentare in città lo spazio disponibile in questa forma di locazione. Il piano superiore diventerà uno spazio di lavoro “ibrido”, con alcuni impiegati presenti fisicamente a turno e la maggior parte in remoto, come ha raccontato il CEO Sean Lyons al New Yorker. Con meno spazio a disposizione le stesse scrivanie saranno condivise da impiegati diversi durante la settimana. L’idea di Lyons è di prevedere mediamente per ciascun dipendente due giorni a settimana in remoto e tre in ufficio, ma ammettendo una certa elasticità.
Secondo un sondaggio interno condotto da R/GA, uno dei timori principali dei dipendenti rispetto alla prospettiva di lavorare da remoto è di perdere opportunità rispetto ai colleghi presenti in sede e di essere poi guardati negativamente una volta tornati in ufficio. «C’è molta preoccupazione riguardo alla possibilità che le aspettative e i processi finiscano per favorire quelli fisicamente presenti», si legge nel riepilogo dei risultati del sondaggio.
Benché approvata e sostenuta da molte aziende, l’idea di una presenza parziale dei dipendenti presenta una serie di rischi per i datori di lavoro. Secondo Ethan Bernstein, docente alla Harvard Business School, «è come prendere il peggio di entrambi i mondi: meglio piuttosto rimanere tutti in virtuale». Nel caso degli uffici “ibridi” i costi immobiliari resterebbero sostanzialmente invariati e in più l’azienda correrebbe il rischio di uno scontro con i lavoratori da remoto eventualmente penalizzati da una cultura aziendale più vicina e bendisposta nei confronti di quelli presenti in sede. Senza contare il possibile disagio di alcuni nel condividere con altri colleghi gli stessi spazi e strumenti, a turno, e non trovare più i loro oggetti personali al loro posto, o ritrovarli insieme ad altri in un’area comune.
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Gli aspetti negativi degli open space
La pandemia ha reso più incerto, tra le altre cose, il futuro degli uffici progettati con la struttura degli open space. Il fatto che in un’unica stanza si ritrovi a lavorare una quantità potenzialmente crescente di persone implica un aumento dei rischi di contagio. La riduzione degli spazi individuali negli open space è infatti una tendenza che si registra già da tempo. In momenti di difficoltà economica, le aziende tendono come prima cosa ad accrescere la densità del personale all’interno degli uffici. E questo, scrive il New Yorker, è più facile e rapido da realizzare nel caso di un open space che nel caso di un ufficio progettato con i cubicoli, come dimostra una tendenza cominciata fin dalla crisi finanziaria del 2008.
Si stima che i datori di lavoro americani destinassero nel 2010 una media di 18 metri quadrati a ciascun impiegato, e che già dal 2017 quella cifra sia scesa a 12. La risposta dei lavoratori di fronte alla progressiva riduzione di questo spazio è stato il tentativo piuttosto diffuso di provare a costruirne uno virtuale indossando un paio di cuffie. «Chiuso in questo guscio del suono puoi sentirti il re di un ufficio sconfinato, finché non levi lo sguardo dal monitor», sintetizza Seabrook.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Harvard Business Review, «le interazioni faccia a faccia sono diminuite del 70 per cento circa dopo che le aziende hanno introdotto gli open space, e nel frattempo sono cresciute in compenso le interazioni tramite dispositivi elettronici». Gli autori dello studio sono lo stesso Bernstein, docente della Harvard Business School, e Ben Waber, presidente della società Humanyze, che si occupa di analisi dei dati sui luoghi di lavoro. Hanno utilizzato smartphone e sensori per tenere traccia delle interazioni faccia a faccia e di quelle digitali durante una transizione tra le due differenti tipologie di struttura – da cubicoli a open space – in due aziende statunitensi tra le migliori 500 per fatturato secondo la lista annuale di Fortune.
Il paradosso, prosegue il New Yorker, è che a dare forma agli uffici moderni è stata proprio l’industria tecnologica alla base della produzione degli strumenti che oggi per molti lavoratori rappresentano una sorta di “rifugio” e che permettono in certi casi di fare del tutto a meno di quegli spazi fisici. La storia del rapporto tra le aziende tecnologiche e il lavoro da remoto è in questo senso già abbastanza lunga e significativa. Nel 2009 in IBM il quaranta per cento del lavoro era già in remoto, ma dopo un calo degli utili nel 2017 l’azienda chiese ai dipendenti di tornare tutti in ufficio o avrebbero perso il posto. Qualcosa di simile capitò anche in Yahoo, quando nel 2012 l’ex CEO Marissa Mayer vietò ai dodicimila dipendenti dell’azienda di lavorare da casa. Nel 2016 circa un terzo di quei dipendenti aveva lasciato Yahoo, e nel 2017 Mayer stessa lasciò il suo incarico.
Le prospettive per le grandi aziende di Internet
Nei mesi della pandemia le grandi aziende di Internet da una parte hanno ampliato il loro patrimonio immobiliare, e dall’altra sono state il modello più citato e spesso celebrato di lavoro a distanza. Ai dipendenti di Twitter è stata offerta la possibilità di lavorare da casa «per sempre», se lo desiderano, anche dopo l’emergenza attuale. Facebook – che ha 80 uffici in tutto il mondo e circa 56mila dipendenti, di cui più di 4mila assunti nel 2020 – ha detto di aspettarsi che entro il 2030 metà del lavoro dell’azienda sarà in remoto. E intanto, a settembre scorso, ha comprato per circa 300 milioni di euro un complesso immobiliare da 37mila metri quadrati a Bellevue (Washington), ceduto dall’azienda americana di abbigliamento sportivo REI.
Microsoft consentirà di lavorare da casa fino alla prossima estate a quasi tutti i suoi dipendenti, eccetto quelli la cui presenza in sede sia ritenuta essenziale. Nel frattempo sta lavorando all’estensione del contratto immobiliare multimiliardario relativo al suo campus a Redmond (Washington).
Secondo Jared Spataro, vicepresidente dell’area Modern Workplace di Microsoft, la pandemia sta accelerando «una seconda trasformazione digitale»: la creazione di un ufficio virtuale basato su servizi di cloud che colleghi tra di loro i vari desktop, ossia i punti da cui i dipendenti lavoreranno, siano essi presenti fisicamente in ufficio o lavorando da remoto. «Crediamo che ogni azienda avrà bisogno di investire in spazi di lavoro digitali per ciascun dipendente» ha detto Spataro, aggiungendo che alcune aziende stanno già muovendosi in direzione dello sviluppo di piattaforme e strumenti proprietari.
Una delle caratteristiche principali di queste piattaforme, secondo Spataro, sarà la versatilità e la compatibilità con un’ampia gamma di dispositivi tecnologici. E questo comporterà un’estensione sia degli spazi virtuali che del tempo condivisi dai lavoratori, oltre che un tracciamento continuo delle operazioni in corso, con tutte le implicazioni sul piano della privacy e del benessere mentale dei dipendenti. Serviranno quindi nuove regolamentazioni, dettagliate e appropriate, riguardo alla quantità e qualità dei dati da condividere tra lavoratori e azienda, concorda Spataro, ma «questo è compito del governo, non di Microsoft».