“Luci della città”, novant’anni fa
Fece ridere e fece piangere, e la scena più famosa richiese a Charlie Chaplin settimane di lavoro e centinaia di tentativi
Il 30 gennaio 1931 a Los Angeles, in California, ci fu l’anteprima di Luci della città: scritto, diretto, prodotto e interpretato da Charlie Chaplin, che ne compose anche le musiche. Chaplin, allora poco più che trentenne, già era tra le persone più famose al mondo; e lo era anche l’uomo che lo accompagnò a quell’anteprima: il fisico Albert Einstein, che ancora era cittadino tedesco e aveva conosciuto Chaplin durante un tour degli Universal Studios, diventandone amico.
Einstein e sua moglie Elsa furono quindi tra gli spettatori che, quella sera al Los Angeles Theatre, celebrarono con una standing ovation la fine della proiezione del film, durante la quale molti risero e molti piansero (anche Einstein, pare). Una cosa che successe diverse altre volte. Anche il New York Times, per esempio, scrisse che alla prima proiezione newyorkese, di qualche giorno successiva a quella californiana, non mancarono, nell’ora e mezza del film, lacrime e pianti, ma anche allegria e spensieratezza. La parte che fece più ridere fu questa:
Ma piacque molto anche la scena in cui il personaggio di Chaplin ingoiava un fischietto:
La scena che fece piangere maggiormente fu probabilmente l’ultima, molto famosa. Arriva dopo che il vagabondo Charlot (il più noto personaggio di Chaplin) si è innamorato di una fioraia cieca che lo scambia per miliardario e dopo che Charlot (anche a causa di una sua fortuita amicizia con un miliardario alcolizzato) passa attraverso una gran serie di vicissitudini tra il tragico e il comico (spesso entrambe le cose insieme) e finisce pure in prigione. La fioraia, che nel frattempo non è più cieca, lo vede senza sapere che è lui, e gli porge un fiore. Poi però si riconoscono.
La scena più famosa però è probabilmente un’altra, quella in cui Charlot e la fioraia si incontrano per la prima volta. È la scena che deve mettere le basi per tutto quello che succederà più avanti e preparare, tra le altre cose, il nuovo incontro che conclude il film. Non a caso, quindi, Chaplin ci dedicò grandissime attenzioni. È stato scritto che la rigirò centinaia di volte: secondo certe versioni 342, secondo altre addirittura 451. Ed è certo che Chaplin iniziò a girarla nel febbraio 1929 e ci riprovò anche nell’aprile del 1930, perché non ne era soddisfatto e perché aveva bisogno che comunicasse bene tante cose, tutte praticamente senza dialoghi; in particolare l’importante malinteso in base al quale la fioraia credeva che anziché essere un vagabondo Charlot fosse un miliardario.
Qualche anno fa uscì anche un dietro le quinte che mostrava una delle tentate riprese:
In generale, comunque, Chaplin dedicò grandissime attenzioni a tutta l’opera, arrivando a girare 95 chilometri di pellicola, per un film che alla fine era lungo solo 2 chilometri. Ci fu anche un periodo durante il quale Chaplin licenziò Virginia Cherrill, l’attrice quasi debuttante che interpretava la fioraia.
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Alla fine, però, tutto si incastrò come doveva, e oltre che ad Einstein e ai primi spettatori che lo videro novant’anni fa (quando già andava di moda il sonoro ed era di certo un azzardo fare ancora un film muto, seppur con alcuni suoni) è continuato a piacere a pubblico, critica e addetti ai lavori. Tra gli altri a Orson Welles, che ne parlò come del suo film preferito, a Stanley Kubrick (che lo mise tra i suoi cinque preferiti) e ad Andrei Tarkovsky, che disse di Chaplin: «È l’unica persona che ha attraversato la storia del cinema senza nemmeno l’ombra di un dubbio. I film che ci ha lasciato non diventeranno mai vecchi».
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Secondo il critico Roger Ebert, Luci della città è il miglior film per «capire tutte le note del genio di Chaplin», perché «contiene la comicità, il pathos, la pantomima, la naturale coordinazione fisica, il melodramma, la volgarità, la grazia e, ovviamente, Charlot: un personaggio che si dice fu, per un po’, la più famosa immagine al mondo».
Chaplin, comunque, qualche anno dopo avrebbe mostrato di sapersela cavare assai bene anche con il sonoro, facendo uno dei più grandi discorsi della storia del cinema.