Il giorno in cui La Fenice bruciò di nuovo
Venticinque anni fa il teatro veneziano fu distrutto per la seconda volta da un incendio doloso che rischiò di bruciare un pezzo di città
di Pietro Cabrio
In un anno normale dicembre e gennaio sono i mesi in cui Venezia è meno affollata. La città è fredda e umida, l’acqua alta continua a ripresentarsi e le prenotazioni diminuiscono. La sera del 29 gennaio 1996, un lunedì, Venezia era così: fredda, buia e semideserta. Alle nove si poteva trovare giusto qualcuno che tornava dal lavoro o rientrava dai pochi locali ancora aperti. Anche il Teatro La Fenice era chiuso, e nel tardo pomeriggio, come ogni giorno, il custode Gilberto Paggiaro aveva fatto il giro del teatro in vista della chiusura, senza sapere che sarebbe stato l’ultimo a vederlo intatto, così com’era stato ricostruito 160 anni prima.
All’interno del teatro, nel ridotto del loggione, due elettricisti addetti alla manutenzione avevano innescato un incendio lasciando accesa una fiamma ossidrica. Nei loro piani sarebbe dovuto essere un incendio controllato e di poco conto, appena sufficiente per giustificare come causa di forza maggiore i ritardi che avevano accumulato nei lavori di manutenzione ed evitare di pagare delle penali che avrebbero peggiorato i conti già malmessi della loro azienda. Non andò così, anzi: divenne un incendio colossale che rischiò di bruciare un intero sestiere di Venezia.
L’incendio divampò nel soffitto intorno alle 20.40 e la prima segnalazione arrivò da un albergo nei pressi del teatro pochi minuti prima delle 21, orario in cui dalla sede dei Vigili del Fuoco di Ca’ Foscari partì la prima squadra. Al loro arrivo i pompieri trovarono il primo di una lunga serie di inconvenienti che quella sera si rivelarono decisivi: i canali circostanti La Fenice erano stati chiusi per scavi e per questo motivo prosciugati. Le barche non poterono quindi avvicinarsi per avere un accesso diretto al teatro. Dall’entrata principale ancora non si vedeva nulla, al che i vigili salirono nelle abitazioni ai piani alti dei residenti che avevano segnalato un forte odore di fumo. Da lì videro che le fiamme avevano già attaccato il tetto e che la situazione era critica.
Alle 21.18 l’incendio arrivò a coinvolgere tutto l’edificio principale, costituito in gran parte da materiale altamente infiammabile: tantissimo legno, e poi vernici, tessuti e cartapesta. I vigili entrarono nel teatro soltanto per constatare come l’incendio non fosse in alcun modo controllabile: già dopo venticinque minuti non c’era più nulla da fare. Si pensò quindi di affrontarlo dall’esterno, dalle calli e sopra i tetti delle case circostanti. Per aggirare i canali in secca venne impiegata una motobarca normalmente utilizzata per gli incendi sulle grandi navi, che però dovette attraccare all’imbarcadero di Santa Maria del Giglio, sul Canal Grande, distante quasi cinquecento metri dalla Fenice. Questo complicò ulteriormente le operazioni: ci vollero infatti chilometri di tubazioni e una pressione ben più alta del normale per farvi arrivare l’acqua.
Con La Fenice ormai persa, i vigili dovettero pensare a difendere Venezia, una città allora sprovvista anche del minimo sistema antincendio e formata da un labirinto sconnesso di case con tetti in legno che nella sua storia aveva avuto spesso a che fare con il fuoco, oltre che con l’acqua, anche in modo tragico. I tizzoni ardenti e la cenere che presto iniziarono a cadere sopra tutto il sestiere di San Marco costrinsero le squadre di vigili, nel frattempo arrivate anche da Mestre, Treviso e Padova, a spostarsi velocemente sopra i tetti, per evitare che andasse bruciato un pezzo di città.
I crolli all’interno del teatro si susseguirono per tutta la notte fino a “svuotarlo” completamente. Le fiamme, viste a occhio nudo anche dalla terraferma, illuminarono Venezia come una torcia. Verso le undici di sera, viste le difficoltà nel raggiungere l’incendio, venne usato in via del tutto eccezionale un elicottero antincendio normalmente impiegato per gli incendi boschivi. Volando quasi alla cieca, i due piloti a bordo, Roberto Tentellini e Lucio Donà, fecero la spola tra il bacino di San Marco e la Fenice per 122 volte fino alle quattro di notte, dando tregua ai vigili sul posto.
Con le prime luci del giorno ci si rese effettivamente conto che per la seconda volta in oltre duecento anni di storia il Teatro La Fenice era stato raso al suolo da un incendio: dell’edificio principale rimasero in piedi soltanto le pareti. Fin lì era stato uno dei teatri più caratteristici al mondo, reso unico dalla sua collocazione a due passi da piazza San Marco e dall’acustica perfetta della sala teatrale, la stessa ad aver ospitato il maggior numero di opere prime in assoluto, da Gioachino Rossini a Giuseppe Verdi, da Igor Stravinskij a Karlheinz Stockhausen. Era stato edificato nel Settecento da una società di palchettisti veneziani precedentemente sfrattata dal vecchio Teatro San Benedetto, e per questo motivo gli fu dato il nome dell’uccello mitologico che rinasce dalle sue ceneri, quasi un presagio di quello che sarebbe accaduto. Fu ristrutturato per l’arrivo di Napoleone nei primi dell’Ottocento e nel 1836 distrutto da un primo grande incendio, allora partito da una stufa, che fu spento grazie alle catene di secchi con cui i veneziani fecero arrivare l’acqua dai canali circostanti. Venne riaperto un anno dopo. Dal 1930 era di proprietà del comune di Venezia.
Il 30 gennaio 1996 la città si risvegliò senza una delle sue più grandi istituzioni, la cui distruzione avrebbe occupato gran parte del dibattito pubblico e della politica locale per almeno un decennio: da una parte le indagini, dall’altra la ricostruzione, entrambe complicate. I primi undici testimoni sentiti nelle indagini preliminari diedero undici versioni diverse dei fatti. Le indagini dovettero risalire ai presunti colpevoli incrociando tutte le discrepanze fino a giungere a una conclusione: tutte le ditte impegnate in quel momento nei lavori di manutenzione al teatro erano finite in un groviglio di ritardi collegati l’uno con l’altro, e la ditta veneziana Viet era quella messa peggio, perché già in difficoltà economiche e in ritardo dai due ai quattro mesi: con 250.000 lire di penale per ogni giorno di ritardo, avrebbe rischiato di perdere 30 milioni e il titolare, Enrico Carella, non poteva permetterselo.
Nelle indagini preliminari venne fuori che tre settimane prima dell’incendio del 29 gennaio, uno dei custodi della Fenice aveva trovato una fiamma ossidrica lasciata accesa, probabilmente dagli stessi operai della Viet. Un altro custode disse di aver visto Carella aggirarsi sopra il tetto del teatro il giorno prima dell’incendio. La posizione del titolare e quella di suo cugino, il dipendente ventiseienne Massimiliano Marchetti, fu aggravata dai tentativi di condizionare le testimonianze degli altri dipendenti della ditta. Carella e Marchetti vennero condannati in primo grado a sette e sei anni di reclusione. Le condanne furono confermate in appello nel 2002 e dalla Cassazione nel 2003. Carella riuscì a scappare in Messico ma fu catturato dall’Interpol nel 2007 ed estradato in Italia. Fu condannato al pagamento di una multa anche il direttore del cantiere per non aver preso precauzioni adeguate. Dal processo emerse inoltre l’inadeguatezza dei sistemi antincendio e una certa confusione nell’amministrazione del teatro.
Nel frattempo si decise di ricostruirlo il più fedelmente possibile al progetto originale, servendosi però di materiali e tecnologie possibilmente migliori. Nel settembre del 1996 venne pubblicato il bando per la ricostruzione, vinto da un’associazione temporanea di imprese (ATI) con a capo la Holzmann, con un progetto dell’architetto Aldo Rossi. I lavori furono molto lenti e nel 2001 il Commissario per la ricostruzione decise di rescindere il contratto con la ATI, che aveva continuato a prorogare la data di conclusione dei lavori. Nel 2001 fu indetto un nuovo bando, vinto da un consorzio di quattro imprese. Alla ricostruzione parteciparono soprattutto artisti e artigiani di Venezia e provincia. Il 2004 fu l’anno della riapertura.