La catastrofe urbana di Roma
Christian Raimo racconta i problemi edilizi e abitativi della capitale, protagonista dell'ultimo numero di Passenger
È uscito il nuovo numero di Passenger, il libro-rivista sui viaggi della casa editrice Iperborea, dedicato a Roma, la prima città italiana. L’uscita coincide con il 150esimo anniversario dell’istituzione di Roma Capitale, che Passenger racconta in tutte le sue contraddizioni attraverso le voci di alcuni scrittori italiani contemporanei, quasi tutti romani. Nicola Lagioia – autore di La città dei vivi, uno dei successi del momento – descrive la notte romana traboccante di vita, Francesco Piccolo raccoglie 39 appunti per un libro su Roma, Letizia Muratori fa un itinerario acustico della città, Matteo Nucci accompagna lungo le rive del Tevere e della loro storia, Francesco Pacifico racconta la Lovegang, un gruppo di musicisti nati negli anni Novanta e cresciuti tra Monteverde e Testaccio.
Tutte le foto del numero – che come al solito è ricco di infografiche, illustrazioni, saggi, reportage e consigli di romanzi e canzoni – sono state scattate da Andrea Boccalini, fotoreporter e ritrattista che ha iniziato a lavorare in Guatemala, documentando il lavoro minorile e le richieste contadine di riforma agraria, per poi interessarsi al mondo del jazz e dei suoi protagonisti. I suoi lavori sono stati pubblicati sul New York Times, su La Repubblica e su Rolling Stone.
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I numeri di The Passenger usciti finora hanno parlato di Parigi, Svezia, Turchia, India, Brasile, Berlino, Norvegia, Grecia, Portogallo, Islanda, Paesi Bassi e Giappone. Oltre che sul sito, potete seguire la rivista su Instagram, Facebook e Twitter.
Di seguito, un estratto dall’articolo dello scrittore e giornalista Christian Raimo che racconta i problemi edilizi e abitativi della città che straborda, si affastella in municipi giganteschi, contiene immense distese verdi che si alternano a case popolari scrostate e in rovina, complessi residenziali fallimentari, come il famoso Serpentone, e il centro commerciale Porta di Roma con 18 milioni di visite annuali.
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L’eco della caduta
di Christian Raimo
Non ho mai vissuto fuori da Roma più di trenta giorni di seguito, forse venti giorni di seguito, forse diciotto. È questa la ragione per cui ogni volta che leggo un libro, un reportage, una guida che parli della mia città sono pronto a liquidarli: non conoscete Roma quanto me, penso, non l’avete subita quanto me.
Le librerie di Roma, anche fuori dal circuito turistico del centro storico, ospitano da qualche anno una sezione apposita sulla città; prima era uno scaffale, oggi è un reparto, cosicché la battaglia tra me e l’esercito delle narrazioni romane si fa sempre più ostica. Monografie di mille pagine, testi di urbanistica con grandi foto, ma soprattutto una fiumana di guide segrete, anomale, singolari alla Roma inedita, sconosciuta, imprevista, bizzarra. Il turismo altro, controcorrente, fuori dagli itinerari consueti, nella Roma sotterranea, catacombale, in quella moderna invece che nella antica, nella città razionale invece che nella città barocca, chiede di dare retta a lui e non ad altri: sfodera scatole misteriose in cui illude ci sia un gioco d’artificio, una psicomagia per rendersi immortali nella città eterna almeno per un weekend.
Nell’era del turismo globale, Roma vende se stessa nel modo che le riesce meglio: dichiarando di essere comunque un’eccezione. Non prima inter pares, ma caput mundi, urbe per antonomasia, civitas terrestris specchio della civitas dei. Come la nobiltà in disgrazia, persino nel declino sa di rappresentare un culmine: quale caduta dell’impero è stata più rovinosa, non si sente ancora l’eco del crollo in ogni reliquia di duemila anni fa? La grande bellezza non è quella del passato, ma quella della sconfitta: non solo il potere di far fallire le feste, come recita il protagonista del film di Sorrentino, ma la letizia di assistere al disastro, di contemplare la catastrofe, le salme lasciate in terra. Persino del degrado Roma si proclama un’eroina: i cassonetti traboccanti, le stazioni della metro chiuse per mesi, il traffico pervasivo e permanente non rendono l’idea. Abituata alla retorica della catastrofe, alle pianete dell’apocalisse, la città eterna non lascia scuse: è soltanto consapevole di poter sopravvivere a qualunque suicidio.
La grandeur romana è inattaccabile, perché è così anche nell’aver concepito i mostri. Il serpentone di Corviale è l’esempio più facile. Oggi magari i turisti allungano il percorso del tour organizzato e da San Pietro arrivano fin qui, per passare col pullman davanti al monstrum, al palazzo lungo un chilometro, al Serpentone, alla Navicella spaziale, al Transatlantico, al Colosso. È davvero innegabile l’attrattiva che esercita questo gigante edilizio adagiato sulle colline del Portuense e che riassume in sé lo spaesamento di non poter abbracciarlo con lo sguardo, il fascino kantianamente sublime della massa sterminata di cemento, e anche quella seduzione tutta contemporanea per l’estetica del fallimento. Corviale è questo: un luogo (anche suo malgrado) simbolico di una dialettica dell’illuminismo che lo converte da subito in un incubo piranesiano, da quando negli anni Settanta fu progettato da Mario Fiorentino, che provò a incarnarvi l’utopia dell’edilizia popolare in spazi collettivi, secondo il modello dell’Unité d’habitation di Le Corbusier a Marsiglia. Ma questo spirito idealistico si era trasformato nel suo opposto già prima che gli appartamenti venissero consegnati agli assegnatari Iacp. La città-che-doveva-essere-modello (con mille famiglie ad abitare in verticale e una sorta di agorà tutta sviluppata su un piano – il quarto – con negozi, botteghe, teatri) per anni ha invece significato il contrario: degrado, periferia, disagio, alienazione. Come le Vele a Scampia, lo Zen a Palermo, Quarto Oggiaro a Milano, i prodotti critici di amministrazioni comunali distratte, incompetenti o malamente datesi in pasto ai palazzinari. L’ostilità è stata tale da dar vita a leggende metropolitane come quella secondo cui il Palazzone toglieva l’aria a Roma, impedendo con la sua mole il flusso rinfrancante del Ponentino; oppure l’altra che voleva che Mario Fiorentino fosse morto d’infarto alla vista del suo figlio frankesteiniano completato.
Un chilometro e passa di case senza servizi, ascensori rotti, appartamenti occupati privi di allacci per le utenze – è ancora lì; la mitologia concreta di ogni fallimento urbanistico. Decenni di progetti di riqualificazione, alcuni anche molto ben fatti, non riescono a scalfire l’epifania dell’inconcepibile.
Oppure Malagrotta, che è stata la discarica più grande d’Europa, una buca grande come un intero smisurato quartiere. Dal 1974 al 2013 ci sono stati sversati i rifiuti di Roma: 240 ettari, fino a cinquemila tonnellate al giorno. Una catena montuosa di monnezza, di proprietà del mefistofelico Manlio Cerroni, che oggi gestisce ancora una parte consistente della lavorazione dei rifiuti romani. Nato nel 1926 a Pisoniano, in provincia di Roma, a 94 anni è ancora inarrestabile. Qualche anno fa si è aperto un blog personale dove risponde ogni giorno con lettere ai giornali, strali dannunziani e velate minacce.