I suicidi sulle navi da crociera durante i lockdown
Tra aprile e giugno scorsi ce ne furono diversi tra il personale rimasto bloccato a bordo per settimane, in quella che è stata definita «una pandemia nella pandemia»
Il 9 maggio 2020 i genitori di Jozsef Szaller, Vilmos e Ildikó, si trovavano a Domsod, un piccolo comune ungherese a circa un’ora di macchina dalla loro abitazione principale a Budapest. Erano andati a riaprire la loro casa in campagna e a riempire il frigorifero in vista dei giorni di quarantena che il figlio avrebbe trascorso lì, lontano da loro, al rientro dopo un lungo periodo in mare. Szaller, un ragazzo di 28 anni che lavorava per la statunitense Carnival Cruise Line, una tra le più grandi compagnie di crociere al mondo, era in servizio da gennaio e si trovava in quel momento a bordo della nave Breeze.
Al loro rientro a Budapest, Vilmos e Ildikó Szaller trovarono la polizia ad attenderli all’ingresso di casa. Un agente mise in contatto l’uomo con l’ambasciata ungherese negli Stati Uniti, che a sua volta gli girò un numero di telefono diretto per contattare la Carnival. Da una stanza in cui si trovavano riuniti alcuni rappresentanti dell’azienda insieme a un madrelingua ungherese, racconta Vilmos Szaller, «mi dissero che avevano trovato mio figlio morto sulla nave», senza fornire tanti dettagli. «Cosa è successo?», chiese. «Per la vostra sicurezza è meglio non parlarne», fu la risposta più volte ripetuta dall’altro capo del telefono.
Jozsef Szaller è stato trovato morto nella sua cabina a bordo della Carnival Breeze, sabato 9 maggio 2020, due giorni dopo essere stato visto vivo l’ultima volta dai suoi colleghi. La sua storia presenta diversi tratti in comune con quelle di altri membri dell’equipaggio di navi da crociera – altri tre almeno, probabilmente cinque – morti per suicidio mentre si trovavano isolati in mare nei mesi più difficili della pandemia da coronavirus, tra aprile e giugno 2020. Il sito di news Bloomberg ha raccontato in un lungo articolo le condizioni di quei lavoratori, i rallentamenti e le difficoltà nei loro rimpatri dopo quelli – prioritari – di tutti i passeggeri, i continui cambi di programma condizionati dai numerosi e ciclici divieti di attracco, la sospensione del pagamento di molti stipendi, le rigide regole stabilite a bordo per limitare i contatti e ridurre i rischi di contagi da coronavirus, e le implicazioni di tutto questo sulla salute mentale dei membri dell’equipaggio delle navi.
«Una pandemia nella pandemia» l’ha definita David Cates, direttore del dipartimento di Psichiatria e salute comportamentale al Centro Medico dell’Università del Nebraska.
La storia di Jozsef Szaller
Szaller aveva cominciato a lavorare sulle navi da crociera nel 2014, suonando negli spettacoli organizzati a bordo per i passeggeri, ed era descritto da molti suoi colleghi come un tipo socievole. Si intratteneva spesso con loro, giocando a carte e offrendo sempre giri di birre a tutti, ed era anche conosciuto per essere tra quelli che si alzavano prima al mattino. La sveglia sul suo orologio Casio era impostata alle 5:52. Dall’inizio del 2020 lavorava sulla Carnival Elation, una nave da 2.130 passeggeri e 920 membri di equipaggio, come assistente responsabile delle escursioni a terra, nei porti di scalo.
Nei primi giorni di marzo la Elation aveva fatto attracco a Grand Bahama, nell’arcipelago delle Bahamas, dove sarebbe rimasta per qualche settimana per una serie di lavori di riparazione precedentemente programmati. Le epidemie di Covid-19 sulle navi da crociera, a quel punto, avevano già cominciato a causare decine di infezioni a bordo e conseguenti complicazioni, di cui si erano occupati giornali e siti di news in tutto il mondo. A metà aprile Szaller fu quindi trasferito sulla Carnival Magic, dove rimase per due settimane. La nave, senza passeggeri, aveva autorizzato i membri dell’equipaggio a spostarsi, se volevano, nelle stanze solitamente riservate agli ospiti. Ma Szaller rimase in quella che i suoi genitori descrivono come “una cella”, una cabina senza finestre e piuttosto spartana.
La Magic era una delle navi da crociera rimaste in mare in quei mesi e impegnate in prolungate e difficoltose richieste di autorizzazione all’attracco nei porti più vicini o più utili ai rimpatri degli equipaggi. In circostanze normali, su una stessa nave si trovano a lavorare insieme centinaia di persone provenienti da diversi paesi di tutto il mondo. Alcune compagnie, inclusa Carnival Cruise Line, avevano quindi deciso di procedere a una serie di trasferimenti del personale da una nave all’altra, in funzione dei rimpatri programmati. Cercavano principalmente di riunire sulle navi i dipendenti per continente di provenienza, per evitare loro di dover poi percorrere distanze troppo lunghe per tornare a casa, una volta a terra.
C’erano inoltre da tenere in conto le ripercussioni sul traffico aereo provocate da eventuali e differenti lockdown vigenti nei paesi dai quali i dipendenti avrebbero dovuto prendere i voli per tornare a casa. Non era un’operazione semplice, insomma. Ma d’altra parte alcune compagnie decisero di non percorrere, o di percorrere solo in parte, la soluzione più pratica, anche se più costosa: organizzare voli charter per i rimpatri.
Il “lockdown” a bordo
Come sulla terraferma, anche sulle navi da crociera in mare furono introdotte dai responsabili della sicurezza sanitaria a bordo una serie di restrizioni per ridurre il rischio di contagi e circoscrivere eventuali focolai. Oltre alla quarantena obbligatoria in cabina per le persone risultate infette, era stabilito un coprifuoco generale per limitare le interazioni sociali, ed era richiesto a tutti di controllare e riferire la propria temperatura corporea due volte al giorno. Sulle navi Carnival i dipendenti potevano lasciare le stanze – sempre indossando la mascherina – soltanto a orari prestabiliti e per un tempo limitato. Quello previsto per la colazione era di poco più di un’ora, si legge in un foglio di istruzioni per il personale diffuso da Bloomberg.
La necessità di scaglionare gli accessi alle aree ristoro mantenendo il distanziamento portava inevitabilmente alla formazione di lunghe code. Sulla Carnival Magic, dove Szaller era stato trasferito dopo aver lasciato la Elation, prendere un caffè poteva richiedere di attendere anche tre quarti d’ora in fila. L’accesso a Internet era disponibile gratuitamente su alcune navi, ma secondo quanto riferito dai dipendenti la connessione era a volte piuttosto lenta, appena sufficiente per usare i social e restare in contatto con amici e familiari. Szaller ne aveva usufruito per videochiamare quotidianamente la sua fidanzata e la sua famiglia. «Cercavamo di sostenerlo emotivamente. Parlavamo, senza caricarlo troppo, ogni volta che era possibile per lui», ha spiegato il padre di Szaller.
Stando ai racconti dei colleghi e dei familiari, e mettendo insieme tutte le informazioni disponibili riguardo alle sue giornate sulla nave, Szaller trascorreva gran parte del tempo in cabina guardando serie TV che aveva scaricato sul portatile, giocando ai videogame o bevendo vino. Quando non era in stanza era spesso nell’area fumatori sul ponte 11, a prendere un po’ d’aria con gli amici. Anche le sigarette erano un problema. Si ritrovavano spesso in più di cento, in fila per prenderle al minimarket della nave. Il padre ricorda di averlo sentito scherzare sul fatto che avrebbe volentieri scambiato il suo smartphone per due pacchetti.
Intanto il tempo trascorreva sulla nave senza certezze né sui modi né sulle date di rientro per il personale, e anzi i piani subivano variazioni di continuo. Un portavoce della Carnival ha detto a Bloomberg che l’equipaggio era tenuto al corrente delle riprogrammazioni dei voli di rientro, determinate dai costanti aggiornamenti delle restrizioni di viaggio nei vari paesi. A Szaller era stato inizialmente preannunciato il rimpatrio entro Pasqua (12 aprile), prima che la data venisse posticipata per due volte, senza spiegazioni. Durante una telefonata, ricorda suo padre, raccontò di un collega rispedito in cabina all’ultimo momento quando era ormai pronto a prendere un volo per tornarsene a casa, con la valigia già fatta.
La versione del padre di Szaller sembra confermata dai racconti di altre persone in servizio sulle navi da crociera durante i primi mesi dei lockdown. «Quando sei al lavoro a bordo con un contratto da sei mesi che finisce per durarne quasi otto, in queste condizioni, e si avvicina il giorno in cui stai per tornare a casa, e quei giorni che ti separano dal rientro li conti uno per uno, e di colpo ti dicono che no, non tornerai a casa in quel giorno, l’effetto è veramente devastante», racconta in un video pubblicato su YouTube un dipendente di una compagnia di navi da crociera in servizio durante la pandemia. «So di gente arrivata persino in aeroporto, che ha poi dovuto voltarsi e tornare a bordo sulla nave perché il volo era stato cancellato», aggiunge.
Il secondo trasferimento e la morte di Szaller
Alla fine la decisione dell’operatore Carnival Cruise fu di dirigere gli ultimi dipendenti rimasti a bordo delle sue navi verso i porti dei loro continenti di provenienza. Da lì sarebbe poi stato più facile per loro raggiungere casa via terra o in aereo. Ed è per questo che Szaller – insieme al resto dell’equipaggio europeo sulla Carnival Magic – fu trasferito in scialuppa una seconda volta, finendo sulla Carnival Breeze, quella con attracco previsto in Inghilterra.
Una volta sulla Breeze, a maggio, Szaller aveva anche chiesto e ottenuto la possibilità di sistemarsi in una cabina passeggeri, più comoda. Con il padre per telefono si era detto felice di poter finalmente rivedere il sole e il mare, grazie al balcone di cui era provvista la sua nuova stanza. In quei giorni condivideva inoltre piani per il futuro, parlando con gli amici del suo desiderio di seguire un corso di fotografia una volta a casa, dopo il periodo di quarantena precauzionale che avrebbe trascorso nella casa di campagna dei sui genitori a Domsod, vicino Budapest. Nessuno dei suoi colleghi ha detto di aver mai avuto l’impressione che non stesse bene o che fosse depresso.
Tutte le operazioni quotidiane dell’equipaggio sulla Breeze erano ancora rigidamente regolamentate, come a marzo e ad aprile, ma – esattamente come sulla terraferma – le cautele e attenzioni individuali di molti erano regredite con il passare dei giorni, favorendo i riavvicinamenti. «Non avevamo molto tempo per sfogarci, e senza alcol le cose sarebbero anche potute andare peggio», ha raccontato un amico di Szaller. L’uscita dalle cabine era ammessa soltanto per i pasti e per “un’ora d’aria” due volte al giorno al massimo, e sempre con la mascherina.
La sera di mercoledì 6 maggio Szaller e altri suoi colleghi si ubriacarono insieme durante uno degli intervalli a loro disposizione per rimanere fuori dalle stanze. A fine bevuta rientrarono, ciascuno nella sua cabina. In quella settimana Szaller aveva saltato i controlli quotidiani della temperatura corporea e non aveva risposto ai messaggi. Nessuno dei suoi colleghi fece quindi troppo caso al fatto di non vederlo in giro né giovedì né venerdì. Già in altre occasioni aveva saltato i pasti, preferendo mangiare un boccone o bere qualcosa in altri orari pur di non fare la consueta fila per la mensa.
La mattina di sabato 9 maggio, stando al personale di bordo e ai documenti consultati da Bloomberg, un gruppo di persone dell’equipaggio fu mandato a verificare le condizioni di Szaller e le ragioni della sua assenza ai controlli quotidiani della temperatura. La porta della stanza era bloccata da qualcosa di pesante, e aprendone soltanto uno spiraglio una persona del gruppo allungò un braccio all’interno e sentì un corpo premere contro la porta. Attraverso la terrazza della stanza adiacente riuscirono infine a entrare nella stanza e trovarono il corpo senza vita di Szaller.
Il padre di Szaller ha ricostruito i momenti della telefonata avuta con la Carnival in cui lo avvisarono della morte di suo figlio, senza fornire dettagli.
«Ho chiesto loro dove avessero trovato il corpo. “Nella stanza”, risposero. Nella stanza dove? Sul letto? “No, non sul letto”. Nel bagno? “No, non nel bagno”. Sul pavimento? “Sì, sul pavimento”, risposero alla fine.
Soltanto procedendo per tentativi, ricorda Vilmos Szaller, la dinamica di cosa potesse essere successo cominciò a essergli più chiara. Alla fine intuì che potesse trattarsi di un suicidio, ipotesi suggerita ma non confermata esplicitamente dall’interlocutore al telefono.
Il 21 dicembre i Szaller hanno presentato alla Carnival una domanda di arbitrato per ottenere un risarcimento economico e chiarimenti sulle circostanze della morte del figlio. Sostengono che la società abbia costretto i lavoratori a trascorrere periodi troppo prolungati nelle cabine, di non aver regolarmente monitorato le loro condizioni fisiche e psicologiche, di aver colpevolmente sottovalutato la necessità di occasioni di ritrovo.
In base a un’autopsia eseguita sul corpo di Jozsef Szaller a novembre in Inghilterra, la morte sarebbe avvenuta per asfissia, probabilmente a seguito di “un gesto impulsivo ma intenzionale, sotto l’influenza dell’alcol”. Il tasso alcolemico rilevato in una precedente autopsia era risultato di tre volte superiore al limite consentito per la guida.
Gli altri suicidi e i casi sospetti
Il direttore del dipartimento di Psichiatria e salute comportamentale al Centro Medico dell’Università del Nebraska, David Cates, ha curato in un centro di quarantena nazionale allestito all’interno dell’Università alcuni dei primi passeggeri soccorsi sulle navi da crociera durante la pandemia. Oltre ai circa cento passeggeri e membri dell’equipaggio di navi da crociera morti per cause legate alla Covid-19, si calcola che almeno sei persone siano morte per cause diverse, in quelli che sono stati definiti sospetti suicidi.
Il 29 aprile 2020 un elettricista polacco in servizio sulla Jewel of the Seas della Royal Caribbean scomparve mentre la nave era ferma nel Golfo Saronico, a sud di Atene. Le immagini delle telecamere di sicurezza delle autorità greche lo ripresero mentre saltava in acqua buttandosi dalla nave. La stessa cosa successe a una cameriera ucraina, Evgenia Pankrushyna, morta il 10 maggio gettandosi dalla Regal Princess della Carnival. Nello stesso giorno un dipendente cinese della Royal Caribbean, che si trovava a bordo della Mariner of the Seas, morì in quello che diversi siti di informazione ritengono un sospetto caso di suicidio, ma che la compagnia ha ufficialmente attribuito a “cause naturali”.
Sempre a maggio un cuoco filippino, Kennex Bundaon, fu trovato morto nella sua stanza a bordo della AIDAblu, un’altra nave della Carnival, in circostanze non chiarite. La Virgin Voyages, altra grande compagnia di crociere statunitense, ha rifiutato di commentare – per ragioni di privacy – la morte “non legata alla Covid-19” di un trentaduenne dipendente filippino avvenuta il 22 maggio a bordo della Scarlet Lady, e che diversi colleghi rimasti anonimi hanno definito un altro sospetto suicidio.
Il 9 giugno Mariah Jocson, una cameriera filippina a bordo della Harmony of the Seas della Royal Caribbean, morì mentre la nave si trovava attraccata alle isole Barbados. Secondo i colleghi sentiti dal padre della ragazza, un segnale di emergenza specifico (“Alpha”) fu subito diffuso attraverso l’interfono a tutti i membri dell’equipaggio non appena il corpo di Jocson fu avvistato. Si trovava all’esterno del balcone della sua stanza, secondo quanto poi confermato anche nel rapporto della polizia. «Vogliamo soltanto la verità, sapere come hanno trovato nostra figlia, poter vedere anche soltanto una foto della scena del crimine», ha detto a Bloomberg il padre.
«Rimanere bloccato su una nave, per un tempo indefinito, in uno spazio ristretto… i segni di spunta ci sono tutti», ha detto il professore Cates, il direttore del dipartimento di Psichiatria e salute comportamentale al Centro Medico dell’Università del Nebraska, riferendosi alla diagnostica delle tendenze suicide nella pratica clinica. Sentito da Bloomberg, Cates ha citato un recente rapporto dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC, l’organo di controllo sulla sanità pubblica statunitense) sull’incremento dei pensieri suicidi nella popolazione americana. Su 5.470 persone intervistate, l’11 per cento sostiene di aver “seriamente considerato il suicidio” in un periodo di trenta giorni durante la scorsa primavera. In un precedente sondaggio, del 2018, questa percentuale era del 4,3 per cento e riferita a un periodo di dodici mesi.
La situazione sulle navi da crociera era per i lavoratori certamente alienante: «come stare su una nave fantasma», racconta un dipendente della Royal Caribbean. Le condizioni più critiche toccavano a quelli risultati positivi al coronavirus e costretti a trascorrere la quarantena in stanza. In alcuni casi, a seconda della nave e del momento della pandemia, poteva voler dire rimanere per quasi tre settimane in una cabina con lo spazio sufficiente per un letto a castello, una scrivania e un minifrigo.
Altri fattori potrebbero avere contribuito a rendere ancora più difficili le condizioni dei dipendenti bloccati a bordo delle navi da crociera. Uno di questi era l’incertezza sulle date del loro rientro e la continua riprogrammazione dei rimpatri. Inoltre diverse compagnie, inclusa la Carnival, con le navi senza passeggeri a bordo e le crociere ferme in tutto il mondo, scelsero di mettere molti dipendenti fuori servizio. Se da un lato questo permise a quei membri dell’equipaggio di allentare i ritmi di lavoro e rilassarsi un po’, dall’altro comportò la sospensione del pagamento degli stipendi. E questa situazione potrebbe avere accresciuto i pensieri e le preoccupazioni dei tanti che attraverso il loro stipendio sostenevano le spese delle loro famiglie sulla terraferma.
C’è inoltre da considerare l’influenza negativa che le notizie delle morti e in particolare dei suicidi dei colleghi esercitarono a lungo sull’equilibrio psichico ed emotivo degli equipaggi. Poco tempo dopo la morte di Pankrushyna, la cameriera ucraina morta lanciandosi dalla Regal Princess, cominciò a circolare tra i colleghi su WhatsApp e per email un filmato che mostrava il recupero del cadavere in acqua.
Van Rooyen, una collega di Szaller che aveva trascorso con lui il periodo di aprile a bordo della Elation, ha raccontato di essere arrivata a un punto di grande sfinimento dopo aver saputo della sua morte e degli altri suicidi. Ha detto che da quel momento in poi attese, restando chiusa in cabina a osservare un punto sul muro, che qualche dirigente o qualche altra figura di vertice nell’azienda comunicasse a tutti la morte di Szaller ed esprimesse cordoglio. Non accadde mai.
Per cercare di offrire un supporto psicologico al personale sia la Carnival che la Royal Caribbean attivarono una linea telefonica gestita da psicoterapeuti e altri professionisti incaricati di prestare assistenza. Diversi lavoratori sentiti da Bloomberg hanno detto di aver evitato di usufruire di questo servizio per timore di svelare fragilità che in futuro avrebbero poi potuto condizionare la loro carriera professionale. Informazioni che teoricamente sarebbero state protette dal segreto professionale.
A metà maggio i dipendenti della Majesty of the Seas protestarono contro la Royal Caribbean chiedendo che la compagnia accelerasse le operazioni di rimpatrio. Su un lenzuolo disteso e mostrato sul ponte della nave c’era scritto “Quanti altri suicidi servono?”. Proteste simili erano intanto state organizzate anche su altre navi della compagnia, come la Navigator of the Seas.
Tra marzo e aprile sia la Carnival che la Royal Caribbean avevano compiuto ogni sforzo possibile per permettere ai passeggeri bloccati sulle navi di tornare a casa, anche ricorrendo a voli charter, se necessario. Le decine di migliaia di lavoratori rimasti sulle navi protestavano per non avere ricevuto poi un trattamento simile a quello dei passeggeri, nemmeno dopo settimane.
Da un lato la protesta dei dipendenti era rivolta contro le restrizioni di viaggio introdotte dai CDC, ritenute eccessive e di ostacolo allo sbarco dei dipendenti attraverso i porti. Ma l’altro oggetto delle contestazioni era la scarsa disponibilità delle compagnie di crociere a permettere i rimpatri attraverso i voli privati. La Royal Caribbean ha attribuito le responsabilità dei ritardi nei rimpatri alle restrizioni delle autorità e alle continue variazioni di programma nel traffico aereo. Un portavoce della Carnival ha detto che la compagnia ha complessivamente speso 300 milioni di dollari e noleggiato 225 voli charter per rimandare a casa membri degli equipaggi provenienti da più di cento paesi diversi.
Le richieste della famiglia di Szaller
Il tasso alcolemico riscontrato sul corpo di Szaller è uno dei punti chiave della richiesta di arbitrato avanzata dalla famiglia. Secondo l’avvocato dei Szaller la Carnival avrebbe dovuto conoscere i rischi legati all’isolamento prolungato dei dipendenti e fornire loro un supporto psicologico appropriato, anziché la possibilità di acquistare illimitatamente bevande alcoliche. «Avevano il dovere di assicurarsi che i dipendenti fossero fisicamente e mentalmente al sicuro», sostiene il legale.
Secondo il padre, la ritrosia della Carnival Cruise a discutere delle circostanze specifiche della morte di suo figlio, fin dalle prime telefonate, rientra in una logica di difesa. Da questo punto di vista, dice, sarebbe nell’interesse dell’azienda divulgare meno informazioni possibile sull’accaduto. Tramite un portavoce la Carnival ha comunicato a Bloomberg di aver avuto con Vilmos Szaller uno scambio di almeno quindici email, e di non aver mai lasciato inevasa alcuna domanda.
Uno dei punti contestati dal padre di Szaller è perché nessuno della direzione o dello staff medico della Breeze abbia verificato il motivo per cui suo figlio saltava da più giorni il controllo della temperatura. Contattata da Bloomberg, la Carnival non ha fornito risposte a questo riguardo.
Le restrizioni introdotte dai vari paesi per contrastare l’epidemia da coronavirus rallentarono, tra le altre cose, anche le operazioni di trasferimento dei resti di Szaller, bloccati in Inghilterra dopo l’attracco della Breeze. I Szaller, che avevano scelto la cremazione della salma e hanno ricevuto le ceneri di Jozsef soltanto a luglio, sono ancora in attesa di ottenere un certificato di morte a causa dei ritardi burocratici. Problemi che potrebbero non essere finiti: come si inquadra ufficialmente, si chiede Vilmos Szaller, una morte avvenuta in acque internazionali a bordo di una nave registrata a Panama e proprietà di una società statunitense?
I genitori di Szaller hanno ricevuto in due pacchi anche gli effetti personali di loro figlio, incluso l’orologio Casio. Non hanno però ricevuto lo smartphone, che la compagnia ha detto loro di non essere riuscita a localizzare. A Bloomberg Vilmos ha raccontato di essere riuscito a farsi forza in questi mesi soltanto lavorando fino a 18 ore al giorno, senza fermarsi. Indossa sempre l’orologio Casio di Jozsef e si sveglia ogni mattina alle 5:52.
Le prospettive per chi lavora sulle navi da crociera
Da novembre scorso, scaduto il divieto imposto dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC), alcune delle compagnie più grandi hanno lentamente e parzialmente riattivato le crociere, applicando nuovi protocolli di sicurezza richiesti dalle autorità. La circolazione delle navi è tuttavia ancora molto ridotta e non è chiaro se e quando il mercato tornerà ai livelli del 2019.
Tra i dipendenti delle compagnie sono in molti a ritenere opportuna e preferibile, oltre alle misure di prevenzione dai contagi, la presenza stabile di psicologi nel personale medico a bordo, piuttosto che i servizi di supporto telefonico a distanza. Diversi gruppi di difesa dei lavoratori sulle navi hanno inoltre recentemente richiesto migliori condizioni delle cabine e maggiore attenzione sulle durate dei contratti e gli orari di lavoro. I dipendenti di livello inferiore, come per esempio i cambusieri, provengono solitamente dai paesi più poveri e firmano contratti che richiedono loro di rimanere in mare per sei mesi o più, lavorando da otto a dieci ore al giorno, sette giorni su sette.
A seconda dell’anzianità gli stipendi possono oscillare tra i 650 e i 2.000 dollari (535-1.650 euro), che corrisponde a una paga bassa per gli standard americani. Molti dei lavoratori sulle navi da crociera sostengono però che sia più di quanto potrebbero guadagnare a casa loro, e che questo lavoro includa il vantaggio di poter viaggiare in tutto il mondo.
Quasi tutti i lavoratori contattati da Bloomberg hanno espresso all’intervistatore sentimenti contrastanti riguardo all’esperienza del lockdown a bordo delle navi da crociera. Da un lato si sentono molto riconoscenti verso le aziende per il cibo, i trasporti e tutti i servizi gratuiti garantiti in attesa delle operazioni di rimpatrio. Allo stesso tempo tutti conservano un ricordo angosciante e doloroso di quel lungo periodo di incertezza trascorso in mare durante la pandemia.
Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico Italia allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare i Samaritans al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al numero 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.