La scissione da cui nacque il Partito Comunista
Cento anni fa a Livorno la sinistra italiana si divise per la prima volta, quando il Partito Socialista si spaccò su una richiesta di Lenin
Venerdì 21 gennaio 1921 un folto gruppo di uomini uscì dal teatro Goldoni di Livorno. Era mattina, pioveva, e si racconta che i loro passi fossero scanditi dall’Internazionale, il più famoso inno socialista e comunista. Un altro gruppo più numeroso era invece rimasto nel teatro, in aperto contrasto con quelli che erano usciti: entrambi i gruppi erano stati fino ad allora membri del Partito Socialista, che esisteva già dal 1892. Ma a partire da quel 21 gennaio, il partito si spaccò in due: chi era uscito si riunì in un altro teatro, fondando il Partito Comunista d’Italia.
Cent’anni fa avvenne quella che di fatto fu la prima scissione della storia della sinistra italiana, usata spesso per interpretare e raccontare le successive divisioni interne. Il Congresso di Livorno – il XVII del Partito Socialista – ancora oggi viene citato nelle discussioni intorno ai destini della sinistra, spesso a sproposito.
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Nel 1921 erano passati quattro anni dalla rivoluzione russa, tre dalla fine della Prima guerra mondiale e due dalla fondazione dei Fasci di combattimento da parte di Benito Mussolini. La società italiana stava vivendo conflitti molto aspri che coinvolgevano diverse categorie: i lavoratori nelle fabbriche e nelle campagne, gli industriali, i proprietari terrieri e il ceto politico liberale che veniva criticato da più parti. Il conflitto era intensificato proprio dalla crescente influenza del Partito Socialista, che aveva raggiunto dimensioni discrete e si era radicato sul territorio. L’Avanti, il giornale del partito, aveva una tiratura di 300mila copie al giorno.
Per capire come si arrivò alla scissione del 21 gennaio, bisogna aprire una parentesi su come era organizzato il PSI all’epoca: le varie sezioni e ramificazioni territoriali godevano di ampia autonomia, e il partito non aveva una linea unitaria. Il partito era diviso in diverse anime e correnti, di cui se ne possono individuare tre per semplicità: i “massimalisti”, i “riformisti” e la corrente comunista protagonista della scissione. I primi cercavano di perseguire l’obiettivo “massimo” del socialismo, vale a dire la rivoluzione per superare il capitalismo, mentre i secondi ritenevano – in sintesi – che fosse auspicabile una correzione del sistema attraverso le riforme e non necessariamente attraverso la rivoluzione. All’interno delle correnti c’erano ovviamente posizioni più sfumate, sostenute da gruppi e organizzazioni anche molto diversi e distanti tra loro.
Poco prima del Congresso di Livorno il leader sovietico Vladimir Lenin aveva imposto ai partiti che facevano parte della Terza Internazionale – e quindi anche al PSI – di espellere chi non aveva come obiettivo la rivoluzione. I massimalisti italiani avrebbero dovuto quindi espellere i riformisti, e fu proprio questo a provocare la scissione del 1921.
Al Congresso parteciparono tutti i membri più importanti del partito: Filippo Turati, che guidava la corrente dei riformisti, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, fondatori del gruppo torinese Ordine Nuovo, Amedeo Bordiga, leader della Frazione comunista, Giacinto Menotti Serrati, a capo della corrente massimalista. C’era anche un ospite internazionale, il comunista bulgaro Christo Kabakchev, a rappresentanza della Terza Internazionale.
Serrati non voleva espellere i riformisti come chiesto da Lenin, e per questo fu il bersaglio del discorso che Kabakchev fece al teatro Goldoni. «Non è l’Internazionale, ma è Serrati che si trova in contraddizione con i principi del socialismo rivoluzionario scientifico» disse Kabakchev. «Egli è contro l’azione rivoluzionaria dei contadini come è contro l’azione rivoluzionaria degli operai, perché egli è, in generale, contro la rivoluzione». Serrati, accusato di opportunismo, rigirò l’accusa a Kabakchev e sostenne che il problema non era l’espulsione dei riformisti, ma l’imposizione dei metodi: «Abbiamo detto a Mosca: permettete che l’epurazione si faccia nel modo più sereno e tranquillo, senza scismi nelle organizzazioni operaie. Non ci pareva di chiedere molto […]. Perché questa smania di scissura immediata e profonda? Perché teorizzare questo urto che può spezzare anche tutti quanti gli altri nostri organismi?».
La linea intransigente dei comunisti aveva l’appoggio dei sovietici, ma non aveva i numeri per essere approvata. I massimalisti, contrari all’espulsione dei riformisti, avevano la maggioranza dei delegati: la mozione dei comunisti ottenne poco più di un terzo dei voti. Bordiga a quel punto prese la parola e disse: «I delegati che hanno votato la mozione comunista abbandonino la sala. Sono convocati alle undici al teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito Comunista».
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Umberto Terracini, che aveva aderito alla mozione di Bordiga insieme a Gramsci e a Togliatti e che sarebbe stato presidente dell’Assemblea Costituente più di vent’anni dopo, andò al teatro San Marco insieme agli altri per assistere al primo Congresso del PCI (allora PCdI). In seguito raccontò così quel momento:
I delegati che rapidamente avevano occupato la platea di San Marco, non vi trovarono sedie o panche sulle quali sedersi. E dovettero restare per ore e ore ritti, in piedi. Sul loro capo, dagli ampi squarci del tetto infradicito, venivano giù scrosci di pioggia, al riparo dei quali si aprivano gli ombrelli con uno strano vedere. […] L’intero teatro, dalle finestre prive di vetri ai palchi senza parapetti, fino ai sudici tendaggi sbrindellati che pendevano attorno al boccascena, denunciava l’uso al quale esso era destinato durante la guerra: deposito militare di materiali dell’esercito.
Dopo la scissione di Livorno è stato scritto e detto moltissimo sui presunti danni del divisionismo sulla sinistra italiana, a partire dagli anni successivi in cui si ritrovò frammentata a subire l’ascesa del fascismo. Lo stesso Serrati, tre anni dopo, disse che non aderire alla mozione dei comunisti fu il più grande errore della sua vita, mentre il socialista Pietro Nenni, nel 1926, scrisse che a Livorno «cominciò la tragedia del proletariato italiano».
Tuttavia, valutando la scissione di Livorno solo alla luce del fascismo e delle successive sfortune della sinistra, si rischia di non capire i reali motivi che portarono alla rottura. Secondo Paolo Mattera, docente di storia contemporanea a Roma Tre ed esperto di storia del socialismo, in quel momento la sottovalutazione del fascismo era generale: «Tra il ’20 e il ’21 nessuno poteva prevedere cosa avrebbe fatto il partito fascista, né i liberali, né i massimalisti, né i riformisti», spiega Mattera. «Inoltre la frattura non era solo italiana ma internazionale, quindi per capire davvero i motivi della scissione è necessario guardare alla situazione contingente. Se proprio vogliamo cercare una conseguenza di lungo periodo, io la cercherei nella vocazione pedagogica nei confronti dei militanti, che spinse i comunisti a scindersi nel 1921 e che avrebbe caratterizzato il PCI anche nei decenni successivi».