Cosa fare contro le varianti del coronavirus

Quella inglese e quella sudafricana sono sempre più diffuse: i ricercatori cercano di capire cosa le renda più contagiose e se riducano l'efficacia dei vaccini

Londra, Inghilterra, Regno Unito (AP Photo/Kirsty Wigglesworth)
Londra, Inghilterra, Regno Unito (AP Photo/Kirsty Wigglesworth)

Nelle ultime settimane, istituzioni sanitarie e centri di ricerca in diverse parti del mondo si sono messi al lavoro per studiare alcune varianti del coronavirus, che potrebbero influire sull’andamento della pandemia e sulla possibilità di contenerla grazie ai vaccini da poco resi disponibili. Le preoccupazioni riguardano in particolare la cosiddetta “variante inglese” (B.1.1.7) e la “variante sudafricana” (501Y.V2). Entrambe sembrano essere in grado di rendere più contagioso il coronavirus, mentre non ci sono ancora elementi chiari per sostenere che possano causare forme più gravi di COVID-19, o che rendano meno efficaci i vaccini finora autorizzati.

I ricercatori si stanno soprattutto concentrando sulle caratteristiche delle due varianti, per capire come mai si diffondano più facilmente e se possano in qualche modo influire sulla risposta immunitaria che il nostro organismo attiva per contrastare le infezioni da coronavirus. Le ricerche stanno procedendo speditamente, perché c’è la consapevolezza di dover produrre al più presto nuove informazioni, in modo da evitare un nuovo aumento dei casi positivi, che metterebbe ancora più sotto stress i sistemi sanitari nei paesi dove l’epidemia è più diffusa.

B.1.1.7 e 501Y.V2
Le due varianti erano state notate dai ricercatori tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre del 2020, attraverso l’analisi delle caratteristiche del materiale genetico del coronavirus prelevato da alcuni individui. Uno di questi studi svolti nel Regno Unito aveva portato alla scoperta della variante B.1.1.7, ricondotta poi all’aumento significativo di nuovi casi positivi rilevato nella parte sud-orientale dell’Inghilterra e a Londra. Nelle settimane successive, la variante si sarebbe diffusa molto velocemente nel Regno Unito, contribuendo al forte aumento di casi positivi, tale da indurre il governo britannico a decidere nuove limitazioni e lockdown.

La variante 501Y.V2 era stata invece scoperta in seguito ad alcune analisi condotte per comprendere le cause di un aumento sensibile di nuovi casi positivi nella provincia del Capo Orientale, una delle aeree più povere del Sudafrica. Anche questa aveva la capacità di diffondersi più facilmente, circostanza che aveva contribuito ai numerosi contagi nella zona.

Impatto
B.1.1.7 e 501Y.V2 hanno alcune mutazioni simili, che riguardano soprattutto la proteina che si trova sulle punte del coronavirus, attraverso le quali il virus riesce a legarsi alle membrane cellulari eludendone i sistemi di sicurezza. Ottenuto l’accesso, il coronavirus inietta il proprio materiale genetico (RNA) e induce poi la cellula a produrne copie, che a loro volta potranno poi infettare altre cellule. Per questo quella proteina è il principale obiettivo dei vaccini per renderla innocua, ed è anche uno degli elementi su cui fa forza il nostro sistema immunitario per provare a fermare l’infezione.

A fine 2020, un gruppo di epidemiologi britannici ha stimato che B.1.1.7 sia fino al 50 per cento più trasmissibile rispetto alle altre varianti del coronavirus in circolazione. Questo sembra spiegare perché la variante si sia affermata così velocemente nel paese, comportando un marcato aumento dei nuovi casi giornalieri e mettendo sotto forte pressione gli ospedali, con un numero crescente di ricoveri. Nella sola giornata del 12 gennaio, le autorità sanitarie britanniche hanno rilevato oltre 45mila nuovi casi positivi, 1.243 morti e il ricovero di oltre 4.200 individui.

Dal punto di vista epidemiologico, gli effetti della variante per lo meno nel Regno Unito sembrano essere chiari: sta contribuendo a fare aumentare i casi positivi, mentre non ci sono elementi per sostenere che causi forme più gravi di COVID-19. Questa circostanza non influisce comunque più di tanto sui problemi del sistema sanitario, che deve affrontare un aumento dei ricoveri, con il rischio di non potere offrire a tutti la necessaria assistenza.

Mutazioni
Per questo motivo i ricercatori sono al lavoro per capire meglio il funzionamento delle due varianti, in modo da offrire elementi più concreti a chi poi decide le politiche da seguire per provare a ridurre i contagi. Il primo passo è comprendere quali siano le differenze delle due varianti rispetto alle altre linee di evoluzione del coronavirus. Le analisi hanno mostrato che 501Y.V2 ha almeno nove mutazioni nella proteina sulle punte del virus, mentre B.1.1.7 ne ha almeno otto. Le ricerche si stanno quindi concentrando su queste mutazioni per capire quali siano direttamente responsabili della più rapida diffusione (è probabile che non sia una soltanto).

Semplificando, un virus entra in un organismo e ne sfrutta poi le cellule per replicarsi, cioè per creare nuove copie di se stesso che provvederanno a legarsi ad altre cellule per fare la stessa cosa. Questo meccanismo non è molto preciso e può portare ad alcuni errori nella fase in cui il codice genetico del virus viene trascritto per farne una copia, un po’ come avviene quando si ricopia un testo e inavvertitamente si scrive un refuso. È nell’ordine delle cose, succede di continuo in natura nei processi di replicazione del codice genetico. Il risultato di questi refusi sono mutazioni, quasi sempre innocue e che si trasmettono alle generazioni successive, accumulandosi a quelle nuove prodotte nei processi di replicazione seguenti.

N501Y
In particolare, sta suscitando interesse la mutazione N501Y che si trova in entrambe le varianti del coronavirus. Finora i ricercatori hanno scoperto che influisce sulle caratteristiche della proteina virale che avvia l’infezione nel nostro organismo. L’ipotesi è che questa differenza aiuti il coronavirus a far meglio presa sulle cellule, facilitando la diffusione dell’infezione.

Un gruppo di ricerca presso l’Università del Texas (Galveston, Stati Uniti) sta avviando alcuni esperimenti di laboratorio sui criceti, da tempo impiegati per valutare la capacità di trasmissione del coronavirus. I ricercatori vogliono capire se la mutazione porti a una maggiore concentrazione di particelle virali nelle vie aeree superiori dei criceti, rispetto alle altre varianti del coronavirus. Uno studio precedente su un’altra mutazione aveva portato a un esito simile, fornendo indizi sulle cause della maggiore trasmissibilità di alcune varianti rispetto ad altre. Una maggiore concentrazione nelle vie aeree superiori rende infatti più probabile la diffusione di quantità più grandi di coronavirus mentre si respira, o parla nel caso degli esseri umani.

Ci sono del resto già alcuni indizi su questa circostanza. Uno studio preliminare pubblicato a fine dicembre aveva indicato una maggiore presenza del materiale genetico del coronavirus nei campioni, prelevati da naso e bocca, di alcuni individui con B.1.1.7 rispetto a quelli con altre varianti del virus.

Mentre iniziano a essere più chiare le possibili cause della maggiore contagiosità, non ci sono ancora elementi per stabilire se le due varianti rendano meno efficace la risposta immunitaria, sia nel caso in cui sia indotta dai vaccini o da un’infezione vera e propria. Una delle reazioni più consistenti del sistema immunitario riguarda proprio la proteina sulle punte del coronavirus, e per questo i ricercatori si chiedono se una mutazione possa rendere meno efficace la risposta.

Vaccini
Tramite una collaborazione con l’Università del Texas, Pfizer e BioNTech hanno avviato un’analisi dei campioni di sangue prelevati dai volontari che avevano partecipato ai test clinici per verificare sicurezza ed efficacia del vaccino. La settimana scorsa è stata pubblicata una ricerca preliminare sul tema, dove non viene segnalata una particolare differenza nella capacità degli anticorpi di contrastare le varianti del coronavirus con la mutazione N501Y. La ricerca necessita comunque di ulteriori approfondimenti, anche perché ha compreso solamente 20 individui risultati positivi alla variante.

Altre analisi condotte sul siero, la porzione di sangue contenente gli anticorpi prelevata dagli individui convalescenti dalla COVID-19, non hanno portato a evidenze su una minore capacità di sviluppare una reazione immunitaria nel caso in cui sia presente N501Y. Altre mutazioni potrebbero invece influire su questi aspetti, ma sarà necessario ancora qualche giorno prima di avere elementi più concreti in un senso o nell’altro.

I vaccini finora autorizzati in Occidente, come quello di Pfizer-BioNTech e quello di Moderna, inducono una forte reazione immunitaria, soprattutto per quanto riguarda la produzione di anticorpi neutralizzanti, una delle principali difese contro un’infezione. Anche nel caso in cui le varianti dovessero determinare una riduzione nella loro efficacia, questa non dovrebbe essere così rilevante o tale da rendere inutile la vaccinazione.

Precauzioni
È bene ricordare che a oggi sappiamo che i vaccini autorizzati proteggono contro il rischio di sviluppare sintomi gravi da COVID-19, mentre non sappiamo ancora se siano in grado di rendere meno contagiosi. Ci sono indizi in tal senso, ma saranno necessari mesi prima di avere qualche elemento più concreto e per questo sarà importante continuare a utilizzare le mascherine e a praticare il distanziamento fisico.

Vaccinarsi è comunque essenziale per contenere gli effetti della pandemia, perché riduce il rischio di ammalarsi e di sviluppare sintomi gravi, che possono rivelarsi letali negli individui più esposti o nel caso in cui gli ospedali siano sopraffatti dal numero di pazienti e non in grado di offrire la necessaria assistenza.

Europa
In attesa di ulteriori elementi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha invitato la settimana scorsa i paesi europei a intensificare le limitazioni, in modo da ridurre il più possibile la circolazione della variante inglese del coronavirus in Europa.

Il problema è che al momento non tutti i paesi sono attrezzati per rilevare l’effettiva quantità di casi positivi con la variante, tramite i test di laboratorio. In Francia il tema è dibattuto da diversi giorni e si ritiene che possano esserci migliaia di positivi alla variante inglese, rispetto alle poche decine rilevate finora ufficialmente.

In Irlanda i primi casi della variante inglese erano stati rilevati intorno a Natale, ma da allora sembra abbia avuto un notevole impatto sull’andamento dei contagi. Sono stati rilevati 1.291 casi ogni 100mila abitanti nelle due settimane terminate il 9 gennaio, contro i 166 rilevati nel periodo di 14 giorni terminato lo scorso 23 dicembre. Sui dati hanno probabilmente influito i ritrovi per le feste natalizie e la riduzione temporanea di alcune misure restrittive.

Incrementi significativi dei nuovi casi sono stati rilevati anche in Belgio e in Danimarca, anche se non ci sono ancora dati completi per comprendere quanto abbia influito la variante sugli andamenti.

Anche per quanto riguarda l’Italia è difficile fare stime accurate sulla circolazione della variante inglese. Ufficialmente sono stati rilevati meno di 20 casi, ma i laboratori fanno pochi sequenziamenti e i dati sono ancora poco significativi.