I lavori forzati nei campi di detenzione dello Xinjiang
Stanno diventando sempre più diffusi, ha raccontato Buzzfeed, ed è una storia che potrebbe anche coinvolgere alcune grandi multinazionali
Un’inchiesta di Buzzfeed pubblicata alla fine di dicembre ha raccontato come negli ultimi tre anni, nella regione dello Xinjiang, il governo cinese abbia costruito decine di fabbriche destinate a sfruttare il lavoro forzato di alcune delle persone più discriminate del paese, appartenenti alla minoranza etnica degli uiguri. Diverse fabbriche sarebbero state costruite all’interno o nei pressi dei campi di detenzione (o “di rieducazione”, come li chiama il regime cinese) messi in piedi dal governo per colpire gli uiguri, in uno sforzo che la comunità internazionale ha più volte definito “pulizia etnica” e “genocidio“.
Secondo un’inchiesta del Washington Post e del Tech Transparency Project, inoltre, all’interno delle fabbriche che sfruttano i lavori forzati degli uiguri verrebbero costruiti componenti usati nell’assemblaggio di prodotti di grosse multinazionali, come Apple, Amazon e Tesla.
Le sistematiche persecuzioni e violenze contro gli uiguri – etnia di maggioranza musulmana, prevalente nella regione autonoma dello Xinjiang ma nettamente minoritaria se si considera tutta la Cina – sono un tema di cui si parla da tempo sempre più insistentemente. Negli ultimi tre anni, inchieste giornalistiche e indagini di organizzazioni internazionali hanno evidenziato l’enorme estensione della macchina repressiva cinese contro gli uiguri, fatta di detenzioni di massa, campagne di rieducazione forzata e sistemi di strettissima sorveglianza (tra cui i sistemi di riconoscimento facciale). L’inchiesta di Buzzfeed, l’ultima parte di un progetto giornalistico più ampio e finalizzato a raccontare la repressione contro gli uiguri in Cina, si è concentrata su un aspetto particolare: cioè su come il governo cinese stia ampiamente sfruttando gli uiguri per produrre beni per il consumo interno e l’esportazione.
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Secondo Buzzfeed, almeno 135 dei centinaia di campi di detenzione costruiti negli ultimi tre anni nello Xinjiang avrebbero al loro interno fabbriche destinate allo sfruttamento del lavoro forzato, strutture spesso identificabili nelle foto satellitari grazie ai loro tetti blu o rossi.
È difficile verificare in modo indipendente se tutte queste fabbriche facciano affidamento sul lavoro forzato, a causa del rigidissimo controllo esercitato dal governo cinese sulle strutture e sui detenuti. Secondo diverse testimonianze raccolte da Buzzfeed, tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi le persone detenute nei campi gestiti dal governo cinese sono state costrette a lavorare nelle fabbriche anche contro la propria volontà, non ricevendo nulla in cambio o ricevendo delle somme misere di denaro.
Dina Nurdybai, rinchiusa in un campo di rieducazione nel 2017 e nel 2018, ha raccontato che durante la sua detenzione fu costretta a lavorare in una fabbrica all’interno del campo: stava tutto il giorno in un cubicolo chiuso dall’esterno, cucendo tasche sulle uniformi scolastiche. «Hanno creato questo posto d’inferno e hanno distrutto la mia vita», ha detto Nurdybai.
Altre fabbriche che sfruttano il lavoro forzato di persone appartenenti alle minoranze etniche cinesi sono state costruite anche al di fuori dei campi di detenzione di massa, e al di fuori dello Xinjiang. Buzzfeed ha individuato fabbriche di questo tipo distribuite su una superficie di quasi 2mila chilometri quadrati (di cui 1.300 chilometri quadrati occupati da strutture costruite solo durante il 2018). Anche in questi casi non è facile stabilire con precisione in quali fabbriche venga usato il lavoro forzato, e in quali no, anche perché negli ultimi anni il governo cinese ha avviato un programma finalizzato a far uscire le persone dalla povertà, spostando i lavoratori agricoli delle zone rurali nelle fabbriche: è stato quindi più facile per il regime nascondere trasferimenti forzati legati a motivazioni etniche dietro a un programma economico potenzialmente rivolto a una categoria di persone più ampia.
Secondo il centro studi australiano Australian Strategic Policy Institute, per gli uiguri e gli appartenenti ad altre minoranze etniche provenienti dallo Xinjiang, come i kazaki, rifiutare questi trasferimenti previsti dal programma governativo contro la povertà è «estremamente difficile», perché sono lavori «legati strettamente all’apparato di detenzione cinese e alla politica di indottrinamento» imposta dal regime. Le persone costrette a spostarsi nelle fabbriche vengono sorvegliate in maniera costante e sistematica, e vivono nella paura di essere mandate nei campi di detenzione o punite in altri modi.
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Secondo gli studi svolti da C4ADS, organizzazione senza scopo di lucro con sede a Washington, le fabbriche all’interno dei campi di detenzione sono profondamente legate all’economia dello Xinjiang.
Confrontando la posizione delle fabbriche trovata da Buzzfeed con i registri delle imprese cinesi compilate dal governo, C4ADS ha individuato 1.500 aziende che si trovano dentro o a fianco delle strutture di produzione: e di queste, 92 indicano le importazioni e le esportazioni come parte delle loro attività, e negli ultimi anni hanno trasferito beni in molti paesi del mondo, tra cui Sri Lanka, Kirghizistan, Panama, Francia e Stati Uniti. Il dipartimento di Stato americano ha stimato che in Cina le persone costrette a lavorare forzatamente – sia uiguri sia appartenenti ad altre minoranze etniche dello Xinjiang – sono 100mila.
Negli ultimi mesi si è parlato molto anche della storia del probabile coinvolgimento di alcune multinazionali nella faccenda. Secondo il Washington Post e il sito The Information, alcune multinazionali avrebbero fatto pressioni sul Congresso statunitense per affossare una legge che prevede il divieto di importare negli Stati Uniti beni prodotti in Cina usando il lavoro forzato degli uiguri. Tra queste aziende, ci sarebbero anche Apple, Nike e Coca-Cola. La legge è stata comunque approvata alla Camera statunitense nel settembre 2020, ma deve ancora essere discussa e votata al Senato.
In particolare è stata molto criticata la posizione di Apple, che in più di un’occasione si è schierata contro la pratica dei lavori forzati. Nel 2019 Apple disse di avere svolto 1.142 controlli lungo tutta la sua catena produttiva in 49 diversi paesi con l’obiettivo di rafforzare le regole contenute nel codice di condotta dell’azienda: questi controlli furono effettuati anche in Cina, ma non furono trovate prove dell’uso del lavoro forzato nella produzione, ha detto il portavoce di Apple, Josh Rosenstock. Lo scorso luglio Tim Cook, CEO di Apple, testimoniò di fronte al Congresso statunitense definendo i lavori forzati «ripugnanti» e aggiungendo che la sua azienda non li avrebbe mai tollerati. Cook aggiunse che Apple avrebbe terminato qualsiasi rapporto con aziende che sfruttavano i lavori forzati nel loro processo produttivo.
Secondo alcuni documenti trovati dal Tech Transparency Project, tuttavia, la condotta di Apple non sarebbe così trasparente: l’azienda Lens Technology, che produce componenti per Apple, tra gli altri, sfrutterebbe il lavoro di migliaia di lavoratori uiguri provenienti prevalentemente dalla regione dello Xinjiang. Katie Paul, direttrice del Tech Transparency Project, ha detto al Washington Post: «La nostra indagine mostra che l’uso del lavoro forzato da parte di Apple nel suo processo produttivo va ben oltre ciò che l’azienda ha riconosciuto. Apple sostiene di prendere misure straordinarie per tenere lontana la sua catena produttiva da questo tipo di problemi, ma le prove che abbiamo trovato erano ampiamente disponibili su Internet».
L’Australian Strategic Policy Institute ha invece individuato 82 multinazionali che usano nel loro processo di produzione componenti prodotti dai lavoratori uiguri fuori dallo Xinjiang, ma all’interno del programma del governo cinese contro la povertà: tra le altre, ci sarebbero Abercrombie & Fitch, Apple, Amazon, H&M, Nike, Nintendo e General Motors. Alcune hanno detto di avere interrotto i rapporti con le aziende coinvolte nel lavoro forzato nel corso dell’ultimo anno, altre hanno negato le accuse, senza prendere provvedimenti al riguardo.