In Corea del Sud la legge sull’aborto non c’è più
È stata abrogata dalla Corte Costituzionale, ma non è ancora stata sostituita: e non è chiaro cosa accadrà adesso
Dal primo gennaio del 2021 in Corea del Sud è formalmente decaduto il divieto all’interruzione volontaria di gravidanza previsto fin dal 1953, con pochissime eccezioni. Il risultato è stato raggiunto a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale, e del vuoto normativo generato dalla sentenza: in questo momento non esiste in Corea del Sud una legge che regoli le interruzioni di gravidanza. Il progetto di legge proposto dal governo, e non ancora approvato, non piace né ai movimenti femministi né alle gerarchie ecclesiastiche e ai gruppi anti-scelta.
Nell’aprile del 2019 la Corte Costituzionale della Corea del Sud aveva stabilito che il divieto di interruzione volontaria di gravidanza in vigore nel paese fosse incostituzionale, perché andava contro la libertà di autodeterminazione di una donna incinta. Il divieto di aborto era arrivato alla più alta Corte del paese dopo il caso di una dottoressa perseguita per aver eseguito quasi 70 interruzioni di gravidanza, e grazie ai movimenti che lavorano e lottano da tempo per i diritti delle donne. La Corte aveva deciso che la legge incostituzionale avrebbe cessato di esistere alla fine del 2020, dando al Parlamento il tempo per approvare intanto una legge alternativa: ma l’approvazione non è arrivata.
La Corea del Sud aveva stabilito la criminalizzazione dell’aborto fin dal 1953. Nel 1973 il divieto totale era stato modificato per consentire di interrompere una gravidanza in alcune circostanze: per determinate malattie ereditarie o trasmissibili, se la gravidanza era il risultato di stupro o incesto e per gravi rischi per la salute della donna, vincolando la decisione in alcuni di questi casi al consenso del partner. La legge stabiliva che al di fuori di queste specifiche circostanze abortire o procurare un aborto fosse un crimine punibile con una multa e un anno di carcere per la donna, e con la reclusione fino a due anni per gli operatori e le operatrici sanitarie.
Nel 2019, giudicando queste norme incostituzionali, i giudici della Corte avevano stabilito che il Parlamento dovesse rivedere la legislazione sull’aborto entro la fine del 2020 e che le misure penali sarebbero state abrogate allo scadere di quel limite. Lo scorso ottobre il governo sudcoreano aveva dunque annunciato un progetto di legge per depenalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza entro le quattordici settimane di gestazione e in alcune circostanze, per esempio in caso di stupro, fino alla ventiquattresima settimana. La proposta di legge prevede anche che la donna coinvolta debba obbligatoriamente sottoporsi a una consulenza e a un periodo di riflessione di 24 ore, ed elimina il requisito del consenso del partner.
La situazione è ora incerta e molto poco chiara: l’assenza di una legge sta causando confusione tra le donne. Il fatto che le misure punitive contro l’aborto siano state abrogate non è infatti sufficiente a garantire che gli ospedali si sentano liberi di praticare aborti, né che la futura legge sarà soddisfacente. Alcune notizie circolate in questi ultimi giorni, che parlano generalmente di depenalizzazione o legalizzazione, sono dunque un po’ ottimistiche.
Oh Kyung-jin, attivista in un’associazione di donne del paese, ha spiegato che tradizionalmente l’approccio del governo all’aborto è stato guidato dal principio del controllo della natalità e non dalla salute o dai diritti sessuali e riproduttivi delle donne. L’anno in cui venne approvato il divieto, il 1953, fu quello della fine della guerra di Corea, e la preoccupazione del governo era innanzitutto promuovere la crescita della popolazione. Tra gli anni Settanta e Novanta però i governi sudcoreani non diedero reale applicazione al divieto, nel tentativo di frenare il boom del tasso di natalità in corso. Dai primi anni Duemila la tendenza si è invertita, la popolazione ha smesso di crescere e il divieto di aborto è stato utilizzato come strumento per impedire alle donne di abortire, favorendo l’aumento degli aborti illegali e non sicuri e il radicamento di uno stigma sociale.
I gruppi femministi sostengono che il progetto di legge proposto dal governo sia nuovamente basato su un principio sbagliato, che non sia dunque sufficiente una revisione sui tempi e le circostanze, ma che sia necessaria la depenalizzazione dell’aborto e il riconoscimento di un diritto: è ormai dimostrato che quando i governi limitano l’aborto le donne continuano ad abortire, ma con maggiori rischi per la loro salute. Lo scorso agosto il Comitato per le politiche sull’uguaglianza di genere (organo consultivo del ministero della Giustizia) aveva raccomandato al governo di riconoscere il diritto di autodeterminazione delle donne, e che l’aborto venisse definitivamente trattato non più come un crimine ma come un diritto.
Nel dibattito degli ultimi mesi sono intervenuti con forza anche i vescovi sudcoreani, sostenendo che «la completa abolizione delle condanne per reati legati all’aborto viola il principio costituzionale che tutela la vita del bambino» e che l’autodeterminazione delle donne «non può precedere il diritto alla vita». I movimenti antiabortisti, a loro volta, hanno fatto sapere che stanno lavorando con alcuni giuristi per l’approvazione di numerosi emendamenti restrittivi al progetto di legge governativo. L’approvazione di una nuova legge sembra ancora lontana.