Chi ha vinto con l’accordo su Brexit?
Chi ha ceduto di più? E Perché Boris Johnson è sembrato molto più entusiasta di Ursula von der Leyen? Un po' di risposte
Quando giovedì pomeriggio è stato annunciato che Regno Unito e Unione Europea avevano trovato un accordo sui futuri rapporti commerciali tra le due parti dopo Brexit (qui il testo completo dell’accordo), in diversi hanno notato la differenza di enfasi e toni usata nel dare la notizia dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e dal primo ministro britannico, Boris Johnson. Mentre la prima ha parlato di sollievo ma anche di tristezza, il secondo si è mostrato entusiasta, descrivendo l’intesa come una specie di momento di “catarsi politica” per il suo paese. L’impressione, stando agli umori osservati dopo l’annuncio dell’accordo, è stata quindi quella di una grande vittoria per il Regno Unito. È andata davvero cosi?
In realtà non è facile fare un bilancio, perché i negoziati sono stati lunghi e faticosi, e soprattutto su alcune questioni – come la pesca – si sono risolti con compromessi complicati e tecnici. Qualcosa, comunque si può dire.
Chi l’ha spuntata sulle questioni più discusse
Le questioni che si sono trascinate più a lungo nei negoziati, e che quasi concretizzavano lo scenario del no deal, cioè dell’uscita senza accordo del Regno Unito dall’Unione Europea, sono state tre: le regole per impedire che nel medio-lungo termine le aziende britanniche possano fare concorrenza sleale a quelle europee (il cosiddetto level playing field), il meccanismo di risoluzione per eventuali controversie e l’accesso dei pescatori europei alle acque britanniche.
Per quanto riguarda la pesca, una questione di ridotta importanza economica ma di grande valore politico e simbolico sia per il Regno Unito che per diversi paesi dell’Unione Europea, come Francia, Danimarca e Paesi Bassi, sembra che il risultato finale sia stato più vicino alle richieste europee, anche se non del tutto: si è infatti trovato un accordo che prevede, nei prossimi cinque anni e mezzo, una riduzione del 25 per cento del pesce pescato dalle imbarcazioni europee in acque britanniche.
Funzionari britannici coinvolti nei negoziati, ha scritto BBC, avevano inizialmente proposto una riduzione dell’80 per cento (molto maggiore del 25 per cento finale) nel giro di tre anni (un tempo minore di quello chiesto dall’Unione Europea, ma maggiore di quello proposto dal Regno Unito), mentre l’Unione Europea aveva proposto un taglio del 18 per cento. Dopo il periodo di transizione di cinque anni e mezzo, però, il Regno Unito potrà tornare ad avere il pieno controllo delle sue acque, e l’accesso alle imbarcazioni sarà regolato da futuri negoziati: nei quali comunque l’Unione Europea avrà la possibilità di dettare qualche condizione, dato che si troverà in una posizione di forza in diversi altri settori.
Da questo punto di vista, nonostante il risultato finale sia stato più vicino alle posizioni iniziali dell’Unione Europea, Boris Johnson ha potuto presentare l’accordo come una vittoria, sostenendo che per la prima volta dal 1973 il Regno Unito sarà «uno stato costiero indipendente con il pieno controllo delle nostre acque di pesca». La questione della pesca era stata infatti uno dei punti centrali della campagna elettorale a favore di Brexit, e probabilmente uno dei concetti più facili da vendere all’opinione pubblica britannica – quello della “sovranità sulle nostre acque” – molto più diretto rispetto a molti altri punti discussi dai negoziatori a Bruxelles.
Per quanto riguarda il level playing field, le due parti si sono accordate per un livello minimo di standard ambientale, sociale e sui diritti dei lavoratori al di sotto del quale nessuno potrà scendere: era stata una richiesta centrale dell’Unione Europea, per evitare che il Regno Unito facesse concorrenza sleale alle aziende europee. Il governo britannico ha anche accettato di attenersi alle regole comuni sugli aiuti di stato, che saranno valutati da un’agenzia indipendente. Il Regno Unito, tuttavia, potrà garantire il rispetto di questi standard non seguendo necessariamente la legge europea, ma adottando proprie norme; e potrà sviluppare un sistema che interverrà solo una volta in cui l’eventuale concorrenza sleale sarà già successa, diversamente dal sistema attualmente in vigore nell’Unione Europea, dove l’impatto delle sovvenzioni viene valutato prima della loro erogazione.
Su questo punto, sembra quindi che l’Unione Europea abbia ottenuto sufficienti rassicurazioni per evitare la concorrenza sleale, anche se il Regno Unito potrà sviluppare un proprio sistema di garanzie lontano dalle leggi europee, come chiedevano i sostenitori di Brexit.
Per quanto riguarda la risoluzione delle controversie – come sarà garantito il rispetto dell’accordo se una delle due parti lo viola? – si è stabilita la possibilità di attivare un meccanismo che potrebbe portare all’imposizione di dazi su alcuni beni: si tratta di una “clausola di riequilibrio” molto più rigorosa di misure simili introdotte in altri recenti accordi commerciali firmati dall’Unione Europea, ed era un’altra richiesta centrale dei negoziatori europei.
Dall’altra parte il Regno Unito è riuscito a ottenere una vittoria imponendo l’intervento di un arbitrato indipendente in caso di controversie, ed evitando che la Corte di giustizia dell’Unione Europea svolgesse un ruolo diretto nel rispetto dell’accordo, cosa che chiedeva invece l’Unione Europea. Per il governo britannico questa era una specie di “linea rossa”, che non doveva essere superata in alcun modo. La Corte di giustizia, comunque, continuerà ad essere la massima autorità legale per alcune controversie che coinvolgeranno l’Irlanda del Nord, territorio che rimarrà soggetto alle norme del mercato unico dell’UE e dell’unione doganale.
Con tutti questi compromessi, perché Johnson si è mostrato entusiasta?
Se si guarda alla politica britannica, il raggiungimento di un accordo è stato senza dubbio una grande vittoria per Boris Johnson, che era diventato primo ministro con la promessa di completare Brexit, dopo le enormi difficoltà riscontrate dal suo predecessore, Theresa May. Politico ha scritto: «Alla fine di un anno in cui il primo ministro aveva ricevuto pesanti critiche per la sua gestione della pandemia da coronavirus e in cui non era riuscito a realizzare le sue promesse, giovedì [Boris Johnson] ha ottenuto una rara vittoria».
In generale l’accordo è una vittoria importante, a breve termine, per i sostenitori di Brexit: il Regno Unito non sarà più soggetto alle leggi europee; e anche se dovrà continuare a gestire la sua economia con regole simili a quelle dell’Unione Europea, in futuro avrà la libertà di introdurre nuove misure. L’accordo è stato definito una vittoria dall’euroscettico Nigel Farage, ed è stato accettato anche dai Laburisti, sollevati che non si sia arrivati allo scenario di no deal. Il testo su Brexit dovrebbe essere discusso dal parlamento britannico il 30 dicembre, e ci si aspetta che sarà approvato senza problemi.
Nel medio e lungo periodo, comunque, le cose potrebbero andare in maniera un po’ diversa da quanto preannunciato da Johnson.
Anzitutto, a differenza di quanto detto dal primo ministro britannico, le aziende che commerciano beni con l’Unione Europea potrebbero avere grossi problemi, nonostante l’accordo preveda l’assenza di dazi e quote. Con la Brexit, ci saranno nuovi controlli di frontiera e moltissime nuove regole da seguire che potrebbero comportare costi aggiuntivi per le aziende britanniche. Inoltre potrebbero essere imposti dazi su beni di entrambe le parti nel caso di una controversia. Secondo Politico, la lunghissima coda di camion che si è formata questa settimana in Inghilterra, a causa della decisione della Francia di interrompere i collegamenti per la nuova variante del coronavirus, «potrebbe essere stato un assaggio di ciò che sta per arrivare» nelle prossime settimane.
C’è un’altra cosa da considerare. L’economia del Regno Unito è basata in buona parte sul settore dei servizi, che non è stato praticamente coinvolto nell’accordo. Le società finanziarie britanniche potrebbero dover aspettare mesi prima che l’Unione Europea decida unilateralmente che tipo di accesso potranno avere nel mercato unico dei servizi europeo: da questo punto di vista, le banche e gli operatori finanziari hanno riconosciuto che il sistema che verrà sarà più frammentato degli accordi esistenti, e meno stabile.
E l’Unione Europea?
Nonostante i toni dimessi di Ursula von der Leyen, l’accordo si può considerare una vittoria anche per l’Unione Europea, che aveva come priorità quella di mantenere l’unità del blocco e l’integrità del mercato unico. Per l’Unione non è stato un anno facile, tra la pandemia da coronavirus, le discussioni sul nuovo bilancio e sul fondo per la ripresa, le tensioni con Ungheria e Polonia, ma anche le divisioni interne sulla posizione da prendere verso la Cina e la Turchia, e verso le sanzioni contro la Bielorussia, tra le altre cose. Inoltre, mentre i negoziatori britannici dovevano riferire a un solo governo, quelli europei dovevano mantenersi in costante contatto con i capi di stato e di governo di tutti i paesi membri, cercando di fare sintesi efficaci su posizioni spesso discordanti.
In mezzo a tutto questo, per l’Unione Europea essere riuscita a trovare un accordo su Brexit è stato un mezzo miracolo.
Ben Hall, giornalista che si occupa di affari europei per il Financial Times, ha scritto che è vero che l’Unione Europea ha fatto importanti concessioni – per esempio rinunciando alle richieste sulla Corte di giustizia –, ma è anche vero che è riuscita a raggiungere i suoi principali obiettivi: «ha mantenuto la sua unità interna a un livello notevole, anche rispetto ai governi euroscettici favorevoli alla causa di Brexit. Ha difeso un piccolo stato membro, l’Irlanda, quello che ha di più da perdere dall’uscita del Regno Unito […]. L’integrità del mercato unico è stata preservata», e il governo britannico vi potrà accedere solo rispettando parecchie condizioni.
Più in generale, inoltre, l’Unione Europea ha ottenuto un’altra importante vittoria a livello politico: nessun paese parla più apertamente di fare come il Regno Unito. Il temuto effetto domino che alcuni avevano ipotizzato dopo il referendum su Brexit non si è materializzato, e anzi: il consenso per le istituzioni europee è aumentato di una decina di punti fra il 2016 e l’estate del 2020, quando è stato diffuso l’ultimo Eurobarometro, l’annuale sondaggio realizzato in tutti i paesi dell’Unione.