La sperimentazione animale contro il coronavirus
Si è rivelata essenziale nello sviluppo dei vaccini, mentre in Italia si torna a parlare di una legge che penalizzerebbe la ricerca
Topi, macachi, furetti e altri animali si sono rivelati essenziali nello sviluppo dei vaccini contro il coronavirus, sia direttamente per sperimentarne la sicurezza, sia indirettamente negli scorsi anni per scoprire alcuni dei meccanismi che i virus sfruttano per eludere le difese del nostro organismo. Le sperimentazioni sugli animali pongono però numerosi dilemmi etici, dibattuti da decenni, e difficoltà nella produzione di leggi che riescano a bilanciare la necessità di evitarne il più possibile eventuali sofferenze in laboratorio con quella di far proseguire le ricerche, salvando milioni di vite come si spera potranno fare i nuovi vaccini contro il coronavirus.
Il tema è di stretta attualità in Italia, dove la sperimentazione è regolata da una legge molto severa, talmente severa da essere sospesa da sempre e rinviata nella sua applicazione tramite emendamenti, di solito inseriti nei decreti destinati anche ad altro e materie molto diverse, come i cosiddetti “mille proroghe” che si approvano tra la fine dell’anno e l’inizio di quello successivo. Quest’anno la discussione in Parlamento sul tema è in ritardo e, come accaduto negli scorsi anni, ci sono rischi sul rinnovo della sospensione.
Lo scorso 2 dicembre, la senatrice a vita Elena Cattaneo, tra le più rispettate ricercatrici in Italia, è intervenuta in Senato per illustrare il ruolo centrale della sperimentazione animale nello studio dei coronavirus e nello sviluppo dei vaccini contro l’attuale, il SARS-CoV-2. Cattaneo ha spiegato il senso del proprio intervento dicendo di avere deciso di farlo “a beneficio di tutti, perché nessuno, almeno in quest’aula, possa dire ‘non sapevo, non avevo capito’”.
SARS, MERS, COVID-19
I coronavirus che interessano gli esseri umani sono noti dagli anni Sessanta, ma il loro studio è diventato più sistematico a partire dal 2002, anno in cui emerse il SARS-CoV-1, responsabile della SARS, e in seguito un altro coronavirus che causa la MERS. Queste due sindromi portano a una maggiore incidenza di casi gravi rispetto alla COVID-19, ma i virus che le causano hanno una minore capacità di trasmettersi e ciò rese meno complicato contenerle ed evitare che causassero una pandemia.
Topi geneticamente modificati
In quegli anni, diversi centri di ricerca in giro per il mondo avviarono sperimentazioni sui topi, per provare a capire come il coronavirus della SARS riuscisse a eludere le difese delle cellule, iniettando al loro interno il proprio materiale genetico per replicarsi e portare avanti l’infezione. Scoprirono che il virus sfruttava l’enzima ACE2 che si trova sulla superficie delle membrane cellulari dell’apparato respiratorio, e che tra le sue funzioni ha quella di fare da portinaio per la cellula.
L’ACE2 umano è però diverso da quello dei topi, e per questo i ricercatori si diedero da fare per produrre versioni geneticamente modificate di questi animali con la nostra versione dell’enzima. Una volta esposti al coronavirus della SARS, i topi con ACE2 umano dimostrarono di essere molto più sensibili al virus e a rischio di sviluppare sindromi respiratorie. Fu un risultato molto importante e dalle numerose conseguenze: i ricercatori erano riusciti a creare un modello animale ideale per studiare le polmoniti causate dalla SARS negli esseri umani.
La SARS scomparve però con relativa rapidità, facendo ridurre l’interesse iniziale verso la malattia e la sperimentazione di vaccini. Pian piano, le colonie di topi con ACE2 umano ospitate nei laboratori si esaurirono, senza essere rinnovate. Lo sperma di alcuni esemplari fu comunque conservato, nel caso di una nuova epidemia causata da un coronavirus come quello della SARS.
Quando lo scorso gennaio divenne evidente che le sindromi polmonari scoperte in Cina, e poi altrove, fossero causate da un coronavirus simile a quello della SARS, la domanda per i topi con ACE2 umano tornò ad aumentare sensibilmente. Migliaia di ricercatori in giro per il mondo avevano bisogno di questi animali per avviare le loro sperimentazioni, utili sia per studiare il nuovo virus, sia per valutare la possibilità di sviluppare un vaccino per contrastarlo.
Furetti
Dopo le prime sperimentazioni, ci si rese conto che alcuni aspetti della risposta immunitaria all’attuale coronavirus fossero difficili da approfondire sui topi, per alcune differenze con cui sviluppano i sintomi rispetto agli esseri umani. Partendo da ricerche condotte in passato su altri coronavirus, i ricercatori iniziarono a fare esperimenti sui furetti, nei quali l’infezione virale si sviluppa per lo più nella parte alta dell’apparato respiratorio, come negli esseri umani. Uno degli studi sui furetti avrebbe poi portato le prime evidenze sul fatto che il SARS-CoV-2 si trasmetta per lo più per via aerea, circostanza sulla quale c’erano poche certezze all’inizio della pandemia.
Gli studi sui furetti si erano già rivelati molto utili in passato, quando avevano permesso di rilevare alcuni problemi di sicurezza in un vaccino sperimentale sviluppato contro il coronavirus che causa la SARS. La somministrazione in questi animali portava a gravi danni al fegato (epatiti), circostanza che avrebbe poi indotto i ricercatori a rivedere il funzionamento della loro soluzione.
Macachi
Oltre ad avere raccontato queste vicende, la senatrice Cattaneo nel suo intervento ha ricordato che “non si può prescindere dal valutare infezione e vaccini in primati non umani”. In questo caso, la sperimentazione è un’evoluzione di quanto ottenuto su altri animali, come i roditori, con ulteriori standard di sicurezza e maggiori regolamentazioni. Uno studio pubblicato a maggio ha dimostrato che nei macachi l’attuale coronavirus tende a infettare le vie aeree superiori, come negli esseri umani, e che poi da queste riesce a diffondersi nell’ambiente, comportando infezioni in altri individui. Altri studi nei mesi seguenti, sempre condotti su primati non umani, hanno permesso di comprendere meglio come avvengano le infezioni da coronavirus.
Nell’estate scorsa, un altro studio sui macachi infettati ha consentito di rilevare la capacità di sviluppare una memoria immunitaria, utile per evitare successive infezioni da SARS-CoV-2. Nella maggior parte dei casi, la prima infezione aveva portato i macachi a essere protetti rispetto a una seconda infezione. Fu un risultato molto importante per capire alcuni meccanismi del coronavirus, anche se restano dubbi sulla capacità del nostro sistema immunitario di mantenere a lungo memoria del virus, offrendo una protezione contro successive infezioni.
Vaccini e sperimentazione animale
Tra la primavera e l’estate erano intanto proseguiti gli sviluppi dei primi vaccini sperimentali, con alcuni centri di ricerca e aziende farmaceutiche pronti a condurre i test clinici tramite i percorsi accelerati previsti dalle principali autorità di controllo dei farmaci, come la statunitense Food and Drug Administration (FDA) e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA). La procedura aveva previsto un sistema più rapido del solito, a patto che ci fossero dati chiari e convincenti sulla sicurezza dei vaccini sperimentali, sulla base delle esperienze condotte in laboratorio sui roditori e sui macachi.
Il tema della sicurezza è essenziale per tutti i produttori di vaccini, ma lo era ancora di più per Pfizer-BioNTech e Moderna: i loro vaccini sono basati sull’RNA messaggero, un sistema diverso da quelli tradizionali e che non era stato mai impiegato per vaccini da somministrare su larga scala.
Il vaccino di Moderna, da poco autorizzato negli Stati Uniti e in attesa di autorizzazione nell’Unione Europea, è stato studiato sia nei topi sia nei primati non umani. I ricercatori hanno impiegato macachi per studiare non solo la sicurezza del vaccino, ma anche la sua efficacia a seconda delle dosi somministrate, per identificare la combinazione che offra la migliore copertura. Dalle loro analisi è emerso che il vaccino produce una marcata risposta immunitaria e che non comporta particolari effetti collaterali, circostanze poi confermate nei test clinici con decine di migliaia di volontari.
È opinione condivisa da ricercatori ed esperti che senza le sperimentazioni sugli animali oggi non avremmo avuto i primi vaccini contro il coronavirus, in tempi così rapidi e con sufficienti garanzie sulla loro sicurezza. Le campagne vaccinali che si stanno avviando in Europa, negli Stati Uniti e in altre parti del mondo potrebbero rivelarsi essenziali per fermare la pandemia, salvando milioni di vite, direttamente e indirettamente.
Legge e sperimentazione
Il tema della sperimentazione animale rimane comunque molto dibattuto, non solo da parte di chi fa politica e stabilisce le regole, ma anche da parte degli stessi ricercatori.
Nell’Unione Europea, la sperimentazione animale è regolata dalla direttiva 2010/63, che stabilisce protocolli e procedure per la protezione degli animali e al tempo stesso per favorire la ricerca. L’Italia ha recepito la direttiva nel 2014, ma secondo la Commissione europea lo ha fatto applicando “limitazioni eccessive” per poter impiegare proficuamente gli animali nella sperimentazione. In particolare, la legge italiana proibisce l’impiego di animali per fare ricerca sui trapianti di organi o tessuti da specie diverse rispetto a quella del ricevente, e per lo studio delle sostanze che creano dipendenze come droghe, tabacco e alcol.
Anche in seguito a una procedura europea per multare l’Italia per il mancato rispetto della direttiva, da qualche anno il Parlamento ha deciso di sospendere l’applicazione della nuova legge, rinnovando periodicamente la sospensione. L’ultima sarebbe dovuta scadere a inizio 2020, ma lo scorso dicembre il governo aveva approvato un’ulteriore sospensione. Il problema è che la nuova sospensione non è pluriennale e scade con la fine di quest’anno. Il Parlamento per ora non ha dedicato particolare attenzione alla vicenda, non mettendo in votazione due emendamenti alla legge di Bilancio per il 2021 che avrebbero permesso di rimuovere le parti della legge del 2014 contestata dall’Unione Europea.
I ricercatori e i responsabili dei principali centri di ricerca in Italia hanno pubblicato una lettera aperta, indirizzata alle istituzioni, chiedendo che il problema sia affrontato quanto prima e ricordando che la sperimentazione animale “è indispensabile nella ricerca di base”. La lettera spiega che gli scienziati ricevono attacchi “anche violenti e diretti a singoli ricercatori” da parte di alcune associazioni animaliste, privi di fondamento scientifico e spesso basati su false informazioni. In mancanze di tutele, molti ricercatori preferiscono condurre le loro sperimentazioni all’estero, con un grave danno per il progresso della ricerca scientifica in Italia.
Alla fine della scorsa estate, il ministero della Salute aveva inviato al Parlamento una relazione sulle procedure per la sperimentazione animale, chiarendo che allo stato attuale delle conoscenze scientifiche i metodi oggi impiegati non sono sostituibili, per ottenere risultati affidabili. La relazione ha inoltre osservato che se fosse applicata la legge del 2014, più volte sospesa, si assisterebbe a “una limitazione sul territorio italiano dello studio e della ricerca”. Il ministero ha quindi concluso che: “Pensare di sostituire in toto il modello animale con quello non animale sarebbe non solo utopistico ma, al momento, anche non scientificamente valido”.
Questa settimana il Comitato nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita, che fornisce consulenze alla presidenza del Consiglio, ha diffuso un proprio parere segnalando l’importanza di: “Garantire la proroga con congrua estensione temporale dei termini e adoperarsi per il recepimento delle nome europee sulla ricerca animale”. Resta il fatto che a una settimana dalla fine dell’anno e dalla scadenza della sospensione, il Parlamento non ha ancora affrontato estesamente il tema.