• Mercoledì 23 dicembre 2020

Trump è riuscito a rilanciare l’industria americana?

L'aveva promesso con lo slogan “Make America Great Again”, ma i risultati non sono stati quelli sperati

di Mattia Bianco

(Scott Olson/Getty Images)
(Scott Olson/Getty Images)

Tra il 2015 e il 2016, durante la campagna elettorale per la presidenza, Donald Trump prese un impegno con i cittadini americani: avrebbe reso di nuovo gli Stati Uniti un grande paese. Una delle promesse più importanti dello slogan “Make America Great Again” era il rilancio della manifattura e dell’industria pesante, specie nelle aree depresse della Rust Belt, quella regione nel nord-est degli Stati Uniti che non si è mai ripresa dal declino della manifattura avvenuto negli anni Ottanta. I risultati, però, non sono stati quelli sperati.

Secondo i dati dei Dipartimenti del Lavoro e del Commercio, durante l’amministrazione Trump la disoccupazione è scesa e il prodotto interno lordo, i posti di lavoro e i redditi della popolazione sono aumentati. Il Census Bureau, l’ufficio federale che raccoglie dati statistici economici, ha registrato che tra il 2016 e il 2019 – prima dell’epidemia da coronavirus – il tasso di povertà tra la popolazione afroamericana è sceso sotto il 20 per cento (non era mai successo dopo la Seconda guerra mondiale) e il tasso di disoccupazione è sceso sotto il 6 per cento per la prima volta dal 1972.

Sono risultati notevoli, ma devono tenere conto del contesto. “Make America Great Again” presuppone che l’America prima di Trump non fosse più un grande paese. Ma prima che si diffondesse il coronavirus, gli Stati Uniti stavano vivendo il più lungo periodo di espansione economica della loro storia. Un periodo iniziato durante la prima presidenza di Barack Obama, nel 2009, quando il paese usciva dalla recessione economica iniziata alla fine del 2007.

I buoni risultati economici non sono riusciti a garantire a Trump la rielezione. Questo ha molto a che vedere con la pandemia, ovviamente, ma anche con il fatto che in molti stati, alcuni dei quali essenziali per la vittoria elettorale, la promessa di rilancio industriale non è stata mantenuta.

Nel 2016 Trump aveva vinto anche grazie ai voti di quattro stati della Rust Belt – Wisconsin, Michigan, Ohio e Pennsylvania – dove alle due precedenti elezioni presidenziali la maggioranza dei voti era andata a Obama. Si tratta di un’area geografica nel nord-est del paese, a ovest di New York, tra i monti Appalachi e la regione dei laghi. La sua economia un tempo prosperava grazie all’industria pesante, in particolare l’estrazione del carbone e la produzione di acciaio, ma dagli anni Ottanta la regione ha subìto una pesante deindustrializzazione e un declino complessivo a causa della concorrenza dall’estero e di altri fattori.

Trump aveva convinto gli americani che sarebbe stato in grado di ridare slancio all’industria, che la Rust Belt sarebbe tornata a essere la grande potenza industriale che era stata. Disse anche come avrebbe raggiunto l’obiettivo: imponendo dei dazi sull’importazione dell’acciaio e allentando le leggi sulla tutela ambientale. L’intenzione del suo approccio “America First” era di favorire la produzione domestica e di farla tornare competitiva sul mercato. Nella migliore delle ipotesi erano promesse molto avventate, perché non tenevano conto delle conseguenze e degli effetti collaterali che queste decisioni avrebbero avuto.

Comizio di Donald Trump l’1 agosto 2016 a Mechanicsburg, in Pennsylvania (John Moore/Getty Images)

La sua visione però guardava a un modello economico superato da decenni. Nel 1985 l’estrazione del carbone negli Stati Uniti occupava 175 mila lavoratori, nel 2017, al momento dell’insediamento di Trump, questi lavoratori erano scesi a circa 50 mila. Lo stesso vale per la manifattura: tra il 1979 e il 2017 i lavoratori di quel settore sono passati da 19 a 12 milioni. In cinquant’anni le nuove tecnologie e la globalizzazione del mercato hanno trasformato l’economia, e negli Stati Uniti come nel resto dei paesi occidentali il settore industriale ne ha risentito in modo particolare.

L’allentamento delle norme sulla tutela ambientale non ha avuto alcun effetto positivo sull’industria del carbone. Nei quattro anni di presidenza dei Repubblicani, la produzione di energia da carbone è scesa del 15 per cento, il declino più rapido mai registrato durante un singolo mandato. La US Energy Information Administration, un’agenzia federale per la raccolta dei dati statistici del settore dell’energia, stima che solo il 20 per cento dell’energia prodotta negli Stati Uniti nel 2020 provenga dal carbone, contro il 45 per cento del 2010 e il 31 del 2017. Parlando di posti di lavoro, da quando Trump si è insediato e fino a novembre nel settore ne sono stati persi 6.700, il 13 per cento.

Nel campo dell’acciaio, Trump è stato fedele alla sua parola e a poco più di un anno dal suo insediamento, nel marzo 2018, ha imposto dazi del 25 per cento sull’importazione di acciaio da alcuni paesi, tra cui la Cina, da cui proveniva la maggior quota di quello importato.

Secondo dati raccolti dalla società di analisi S&P Global Platts e citati dal Wall Street Journal, l’effetto immediato è stato un aumento del prezzo dell’acciaio: a gennaio 2018, due mesi prima dell’entrata in vigore delle tariffe, era 680 dollari a tonnellata, a luglio toccava il massimo da 10 anni, oltre 900 dollari.

Questa situazione ha generato un aumento di profitti dei produttori americani, che sono tornati a investire: hanno rimesso in funzione impianti chiusi da anni e in alcuni casi ne hanno aperti di nuovi. Gli analisti hanno stimato che se tutti i progetti lanciati tra 2018 e 2019 fossero portati a termine, entro il 2022 la capacità produttiva degli Stati Uniti aumenterebbe del 20 per cento. La Rust Belt ne ha beneficiato solo in parte. Negli stati con una lunga tradizione produttiva i vecchi impianti non erano più competitivi con quelli appena costruiti. Insomma produrre in Pennsylvania rimaneva comunque troppo costoso rispetto a farlo ad esempio in Arkansas o Kentucky.

Inoltre l’effetto positivo è durato poco. Un anno dopo i prezzi erano già scesi al di sotto di quelli iniziali e alla fine del 2019 alcune fornaci erano tornate a ridurre la produzione e di conseguenza i posti di lavoro. In Pennsylvania, alla fine del 2019, una delle acciaierie della società russa NLMK ha licenziato un quarto dei dipendenti; a novembre di quest’anno l’azienda ha ottenuto dal governo federale il rimborso di una parte dei dazi che era stata costretta a pagare, e ha reintegrato i lavoratori.

A dicembre dello stesso anno la U.S. Steel ha annunciato la chiusura di un impianto in Michigan e il licenziamento di 1.500 persone, e ha addotto come motivazione proprio il crollo dei prezzi dell’acciaio, oltre alla scarsa domanda sul mercato. In tutto lo stato, secondo la Federal Reserve, l’industria manifatturiera dei metalli, che include le acciaierie, ha perso 7.300 posti di lavoro da marzo 2018 ad agosto 2020. In tempi più recenti, a ottobre, la Allegheny Technologies, una società americana che produce metalli speciali, ha chiuso uno stabilimento con 250 operai in Pennsylvania; a gennaio l’amministratore delegato Robert Wetherbee aveva dichiarato che la causa delle difficoltà erano proprio i dazi.

L’effetto peggiore però si è avuto sulla manifattura, ovvero su quelle industrie che impiegano l’acciaio come semilavorato. L’aumento del costo della materia prima per la filiera non è stato una buona notizia perché ha aumentato il costo della produzione. Un esempio è la Trek Bike Corp, società statunitense che produce biciclette personalizzate di fascia alta in Wisconsin, e modelli di fascia bassa in Cina. L’amministratore delegato John Burke ha detto al Wall Street Journal che a causa dei dazi una parte di produzione cinese era stata spostata in Cambogia. L’acciaio americano non era comunque abbastanza conveniente, ma l’azienda ha dovuto trovare un modo per aggirare l’ostacolo.

Anche l’Europa era stata colpita dai dazi, e aveva risposto allo stesso modo. A giugno 2018 la Harley Davidson ha annunciato che avrebbe spostato oltreoceano la produzione di motociclette per il mercato europeo, perché esportarle dagli Stati Uniti sarebbe diventato troppo costoso.

A marzo 2019 a Lordstown, in Ohio, uno stabilimento della General Motors ha chiuso definitivamente. Era stata la stessa casa automobilistica a dichiarare che i dazi imposti da Trump stavano indebolendo la loro competitività. All’inizio degli anni 2000 l’impianto dava lavoro a 7.000 persone, poi dal 2006 era entrato in crisi, ma Trump aveva dato speranza ai lavoratori. Ancora nel 2017 il presidente, in visita a pochi chilometri dalla fabbrica, aveva esortato le persone a non vendere la propria casa perché l’azienda non avrebbe chiuso.

Con la chiusura dell’impianto hanno perso il lavoro circa 4.500 persone. Pochi mesi dopo, l’impianto è stato acquistato dalla Lordstown Motors, che secondo le previsioni dovrebbe produrre un pick-up elettrico dando lavoro a circa 400 dipendenti a partire dall’autunno 2021. Il candidato alla vicepresidenza di Trump, Mike Pence, ha partecipato al lancio del nuovo modello e ha affermato che riguardo alla fabbrica Trump aveva mantenuto le promesse fatte.

Lavoratori dello stabilimento della General Motors a Lordstown protestano contro la chiusura della fabbrica, il 6 marzo 2019 (Jeff Swensen/Getty Images)

A ottobre 2019, a 15 mesi dall’introduzione dei dazi e prima della crisi provocata dal coronavirus, un’indagine dell’Institute for Supply Management registrava il livello più basso di produzione manifatturiera da 10 anni. Come nel 2009, quando gli Stati Uniti uscivano dalla Grande Recessione.

Secondo lo studio di due economisti della Federal Reserve, «le industrie manifatturiere più esposte all’aumento dei dazi registrano riduzioni dell’occupazione poiché gli effetti positivi della protezione dalle importazioni sono compensati da maggiori effetti negativi dovuti all’aumento dei costi di produzione e alle tariffe imposte come ritorsione». Secondo dati del Census Bureau, l’ufficio federale che raccoglie dati statistici economici, i dazi hanno generato 6 mila nuovi posti di lavoro e sono stati causa del licenziamento di 75 mila persone.

Tutto questo ha avuto un impatto evidente sull’economia. La crescita del benessere non ha evitato gli stati della Rust Belt, ma è stata meno evidente. Mentre negli Stati Uniti negli ultimi 4 anni i salari sono cresciuti mediamente del 4,5 per cento, in Ohio, Michigan e Wisconsin sono aumentati soltanto del 2 per cento, e in alcune contee non sono aumentati affatto. In Wisconsin soltanto un terzo delle contee ha goduto di una crescita dell’occupazione tra l’inizio 2018 e l’inizio del 2020. In Michigan nei due anni precedenti alle elezioni il tasso di occupazione è rimasto invariato; nella contea di Monroe i posti di lavoro sono addirittura diminuiti, e nei primi tre mesi del 2020, quindi prima della pandemia, i salari erano più bassi rispetto a tre anni prima.

Che sia stata colpa dei dazi o, come sostiene Trump, della politica monetaria della Federal Reserve, nessuna delle misure adottate dalla presidenza ha avuto efficacia nell’invertire il processo di deindustrializzazione nelle aree depresse del nord-est. Alle elezioni di novembre di quest’anno, tra gli stati della Rust Belt soltanto l’Ohio è rimasto a maggioranza repubblicana.

Questo e gli altri articoli della sezione L’America che ha lasciato Trump sono un progetto del corso di giornalismo 2020 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso.