Il Texas sta cambiando
È una storica roccaforte dei Repubblicani, ma negli ultimi anni ha iniziato a cambiare, sia nella politica che nella demografia
di Maria Sole Angeletti
Il Texas è il secondo stato più popolato degli Stati Uniti dopo la California, e da quasi mezzo secolo vota in massa per il candidato presidente dei Repubblicani. È andata così anche alle ultime elezioni presidenziali, in cui Donald Trump ha staccato il candidato Democratico Joe Biden di circa 5 punti percentuali. Eppure da anni il Texas sta attraversando significativi cambiamenti che potrebbero minacciare il predominio Repubblicano. Il motivo è l’enorme e multietnica crescita della popolazione che lo stato ha vissuto negli ultimi dieci anni.
Si è soliti pensare al Texas come a uno stato rurale, bianco, conservatore e ricco di petrolio. Ma in realtà è anche molto altro: è densamente popolato, economicamente sviluppato e soprattutto multiculturale.
Il ritmo della sua crescita demografica è notevole: si prevede che il numero dei texani raddoppierà entro il 2050, raggiungendo i 54,4 milioni di abitanti, quasi quanto la California e New York messi insieme. Inoltre tre città del Texas – Houston, Dallas e San Antonio – sono tra le prime dieci più popolose degli Stati Uniti. L’aumento della popolazione in Texas è conseguenza di una crescita naturale – i texani fanno più figli, soprattutto quelli di origini latinoamericane – dell’immigrazione nazionale e di quella internazionale, cioè persone che arrivano dal Messico, dall’America Centrale ma anche dall’Europa e dall’Italia.
Il Texas, quindi, da stato a maggioranza bianca formato dai discendenti dei colonizzatori inglesi e francesi si sta progressivamente trasformando in uno stato senza un gruppo etnico prevalente, dove però gli ispanici (che formano il 32 per cento della popolazione), gli afroamericani (12 per cento) e gli asiatici (5 per cento) hanno un ruolo sempre più importante: e questo ha delle conseguenze sul voto e sulla politica.
I latinoamericani sono soprannominati tejanos e la maggior parte di loro vive nelle grandi città di Houston, Dallas, San Antonio ed El Paso e nelle contee lungo il Rio Grande. Un fattore importante che influenza la crescita della popolazione texana è il progressivo incremento dei latinoamericani, che nel futuro prossimo consentirà loro di superare la maggioranza bianca.
Il cambiamento della composizione demografica dipende anche dal fatto che molti migranti – statunitensi, europei e sudamericani – si trasferiscono in Texas perché sono attratti dalle opportunità economiche che questo stato offre. L’economia texana è molto dinamica: non si basa solo sull’attività agricola, sull’allevamento e sull’estrazione del petrolio come accadeva fino a metà del Ventesimo secolo, ma è anche incentrata sulle nuove tecnologie e sulla produzione delle energie rinnovabili. Secondo gli esperti, questo è uno dei fattori che stanno contribuendo a cambiare l’identità dello stato.
Il Texas possiede infatti le centrali eoliche più grandi del mondo, produce energia grazie alle biomasse provenienti dall’allevamento del bestiame e ha un’industria tecnologica tra le più avanzate degli Stati Uniti: ospita la sede di aziende come Dell, multinazionale di computer tra le più importanti al mondo, e AT&T, compagnia telefonica statunitense, mentre a Houston si trova il Lyndon B. Johnson Space Center, il centro di controllo spaziale della NASA.
Ad attrarre persone da fuori si aggiungono altri elementi vantaggiosi, come una generale imposizione fiscale piuttosto bassa e una fitta rete di trasporti di elevata qualità: un caso molto raro per gli Stati Uniti. Sono fattori che attraggono persone anche molto diverse fra loro, che si trasferiscono da fuori per aprire una loro attività o per lavorare in grandi aziende, e che si stabiliscono prevalentemente nelle città o nelle zone suburbane.
Nel paese convivono quindi i cowboy che governano le mandrie di bestiame e gli abitanti delle grandi città contemporanee: basti pensare che oggi Austin è una delle città più hipster, di sinistra e politicamente impegnate d’America. Se consideriamo che le minoranze etniche tendono a votare per i Democratici, si capisce bene perché il Texas stia mutando anche dal punto di vista politico, diventando sempre più progressista a fronte di una ridimensionata, anche se ancora vincente, maggioranza conservatrice.
Alle elezioni presidenziali del 2016 Hillary Clinton perse in Texas contro il suo avversario Donald Trump ma, per la prima volta dopo quarant’anni di risultati scontati a favore dei Repubblicani, l’esito fu più combattuto del solito: il distacco fra i due scese sotto i dieci punti per la prima volta dal 1996, l’anno della rielezione di Bill Clinton (che proveniva dal limitrofo Arkansas).
La campagna politica di Clinton inaugurò inoltre un’operazione mediatica che non accadeva da decenni: il Partito Democratico riprese vita in Texas proprio da quelle elezioni e iniziò a organizzare eventi nelle città più importanti dello stato, fino a quel momento addirittura sprovviste di uffici del partito.
Un’altra sconfitta, che rimane però un segnale delle grosse trasformazioni che stanno avvenendo in Texas, è stata quella del candidato Democratico Beto O’Rourke, che due anni fa perse le elezioni per uno dei seggi del Senato in Texas arrivando a un solo punto percentuale dal notissimo senatore uscente, Ted Cruz. La vittoria sarebbe stata un risultato storico, ma in fondo lo è stato anche il margine della sconfitta: fino a pochi anni prima sarebbe stato impensabile.
– Leggi anche: Il futuro dell’America è il Texas
Arrivando a oggi, la vittoria di Trump in Texas alle elezioni del 2020 segnala un ulteriore sgretolamento dei consensi dei Repubblicani: il margine di voti fra i due candidati è sceso dagli 807mila del 2016 ai 631mila del 2020. In alcune città e aree suburbane, inoltre, i Democratici hanno vinto in collegi storicamente Repubblicani.
Infine, le elezioni presidenziali del 2020 hanno fatto registrare la più alta affluenza dal 1992: ha votato il 66 per cento dei 17 milioni di elettori registrati in Texas. È un dato notevole se si considera che per anni l’affluenza era stata bassissima, perché molti giovani latinoamericani non avevano l’età minima stabilita dalla legge per votare. A meno di sorprese, quindi, nei prossimi anni il divario fra i due partiti è destinato a ridursi ulteriormente.
Questo e gli altri articoli della sezione L’America che ha lasciato Trump sono un progetto del corso di giornalismo 2020 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso.