Il concetto che va più di moda nelle istituzioni europee
È quello dell'autonomia strategica, di cui si parla da anni: ma nessuno sa ancora delimitarne i confini in maniera precisa
Da qualche anno nei convegni e nelle riunioni in cui si parla del futuro dell’Europa e dell’Unione Europea, c’è un concetto che viene citato quasi sempre: quello di autonomia strategica. Oltre ad essere stato oggetto di numerosi studi e paper, lo troviamo nei discorsi dei leader delle istituzioni europee, nel patto stipulato fra Francia e Germania nel 2019 per rilanciare il progetto di integrazione europea, e anche nelle carte del centro studi del Parlamento Europeo, che di solito si occupa di cose ben più concrete.
Nessuno, però, è riuscito a delimitare i confini dell’autonomia strategica in maniera precisa. A grandi linee significa immaginare un’Unione Europea sempre più autonoma e meno dipendente dalle grandi potenze mondiali come Stati Uniti, Cina, India e Russia in una serie di settori definiti per l’appunto strategici, cioè assai delicati: difesa, energia, innovazione tecnologica. L’idea di fondo è che «in un mondo di potenze continentali», scrive il think tank belga Egmont, «l’unico modo con cui gli europei possono difendere i propri interessi è quello di continuare ad integrarsi e raggiungere la stessa dimensione delle altre potenze: e questo è possibile solo attraverso l’Unione Europea».
Tutto il resto – come raggiungere questo scopo, con quali partner e priorità – viene affidato alla sensibilità di chi maneggia questo concetto, che quindi rimane piuttosto sfuggente.
Il progetto di integrazione europea si basa sull’assunto che l’interdipendenza fra i paesi dell’Unione Europea e fra le istituzioni europee e i propri partner internazionali sia una cosa positiva: meno legami ci sono, e più aumenta il rischio di deterioramento dei rapporti, e in ultima analisi di conflitti armati.
Dal 2016 in poi, però, una serie di fatti e tendenze – avvenuti soprattutto all’esterno dell’Unione – ha messo in dubbio questa certezza. L’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti ha ridotto ai minimi termini le relazioni diplomatiche e il coordinamento con i paesi europei. Trump ha definito l’Unione Europea «un nemico» e ha persino messo in dubbio l’alleanza militare della NATO, che dalla Seconda guerra mondiale protegge i paesi europei dall’Europa orientale contro l’aggressività prima dell’Unione Sovietica e poi della Russia. Poi è arrivata Brexit, l’ingerenza russa nelle elezioni di mezza Europa, la sempre maggiore aggressività della Cina nell’imporre le proprie tecnologie e il proprio modello socio-economico, e la crisi migratoria nei paesi del Medio Oriente e del Nordafrica che un tempo venivano considerati più prosperi.
Insomma: in un mondo sempre più instabile, l’Europa dovrebbe affidarsi sempre di più a sé stessa – paradossalmente, date le premesse – e contare di meno sui propri alleati e sul cosiddetto multilateralismo, cioè sulla collaborazione di più stati verso un obiettivo comune. «In un certo senso sono finiti i tempi in cui potevamo fidarci completamente l’uno dell’altro», disse Angela Merkel nel 2017 parlando soprattutto degli Stati Uniti.
«Ma prima che i leader europei possano applicare [l’autonomia strategica], dovrebbero mettersi d’accordo su cosa significhi davvero», ha scritto di recente Politico.
Per Merkel, i suoi collaboratori e buona parte dei think tank tedeschi, raggiungere l’autonomia strategica significa per esempio trovare un equilibro fra le proprie esigenze e quelle dei propri partner internazionali. Un paper pubblicato l’anno scorso dal German Institute for International and Security Affairs sostiene per esempio che allontanarsi troppo dagli Stati Uniti esporrebbe l’Unione Europea a una maggiore vulnerabilità nei confronti della Cina. Per il presidente francese Emmanuel Macron e la scuola di pensiero francese, invece, l’autonomia strategica si deve raggiungere anche a costo di sacrificare l’alleanza con gli Stati Uniti e la NATO – di cui infatti Macron è uno dei principali critici – e che l’onere di guidare l’Europa verso una sempre maggiore autonomia spetta ai paesi più attrezzati per farlo: cioè la Francia, nella visione di Macron.
Di recente l’incompatibilità delle due visioni si è vista chiaramente nel dibattito sull’intervista data da Macron alla rivista Le Grand Continent, in cui il presidente francese insiste molto sul concetto di autonomia strategica, citandola sette volte in contesti diversi. Pochi giorni dopo la ministra della difesa tedesca Annegret Kramp-Karrenbauer – considerata vicinissima a Merkel – ha risposto a Macron definendo l’autonomia strategica «un’illusione che deve finire». Kramp-Karrenbauer aggiunge che non è possibile garantire «sicurezza, stabilità e prosperità» agli europei senza il coinvolgimento della NATO e degli Stati Uniti.
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Ma il concetto di autonomia strategica cambia anche a seconda del contesto e dei settori a cui si applica: e in alcuni, in particolare, sembra particolarmente remota.
Dal punto di vista della difesa e della politica estera, per esempio, significa cedere pezzi sempre maggiori della propria sovranità, integrando gli eserciti nazionali e coordinando le proprie attività e priorità. Negli ultimi anni si sono fatti molti passi avanti da questo punto di vista, a partire dall’introduzione di un meccanismo di Cooperazione rafforzata permanente (la cosiddetta PESCO) nel 2017, passando per il potenziamento del Servizio europeo per l’azione esterna, l’agenzia dell’Unione europea che si occupa di affari esteri. Ma siamo ancora lontani dallo strumento che renderebbe davvero autonoma l’Unione in fatto di difesa e perseguimento dei propri obiettivi di politica estera, cioè un esercito comune.
Nel 2019 i 27 paesi dell’Unione hanno speso circa 175 miliardi di euro per il settore della difesa, più della Cina (147 miliardi) e molto più della Russia (39 miliardi). Eppure l’Europa non è mai diventata una potenza militare autonoma: è difficile abbandonare nel giro di pochi anni l’abitudine degli stati a gestire in maniera autonoma la propria politica sulla difesa, tanto più che alcuni paesi come la Francia rivendicano ancora oggi un’area di influenza che va dal Medio Oriente al Nordafrica, e di avere interessi paralleli a quelli europei in varie altre zone del mondo.
Dal punto di vista energetico, invece, raggiungere l’autonomia strategica significa essere sempre meno dipendenti dalle importazioni di combustibili, soprattutto quelli fossili, che costringono l’Europa a intrattenere un rapporto più stretto di quanto probabilmente vorrebbe con la Russia, che da sola fornisce all’Unione Europea il 30 per cento del petrolio e il 40 per cento del gas naturale che circola nel continente. Sembra un obiettivo al momento irraggiungibile, dato che negli ultimi anni le importazioni di energia dei paesi europei da paesi terzi sono rimaste più o meno le stesse.
In altri ambiti l’autonomia strategica sembra quantomeno più vicina. Dal punto di vista dell’innovazione tecnologica, per esempio, l’Unione Europea sta cercando da tempo di trovare dei settori in cui può raggiungere un’egemonia mondiale, o quantomeno provare a competere con le altre potenze. Va in questa direzione per esempio la creazione di uno hub europeo delle batterie elettriche, un mercato finora dominato dalla Cina, oppure la decisione condivisa dai governi nazionali di attenuare i rapporti con Huawei, l’azienda tecnologica cinese fra le più all’avanguardia per esempio nello sviluppo della tecnologia 5G, che riesce ad essere così competitiva perché pesantemente sussidiata dal governo cinese.
Va in una direzione opposta, per esempio, la decisione presa nel 2019 dalla scorsa Commissione Europea di bloccare la fusione fra Siemens e Alstom, che avrebbe generato uno dei gruppi industriali più grandi al mondo nel settore ferroviario, dove già le aziende europee sono piuttosto competitive. E alcuni studiosi, soprattutto dall’inizio della pandemia, ritengono che l’Unione Europea dovrebbe incoraggiare la crescita di alcuni settori di certificata eccellenza: come per esempio quello sanitario. Diverse aziende fra quelle che stanno sviluppando i vaccini più promettenti contro il coronavirus hanno la sede in Europa o importanti centri di ricerca e sviluppo nei paesi europei.
Il rischio di utilizzare così frequentemente un concetto così ampio e variegato come quello di autonomia strategica è che diventi uno slogan vuoto che ogni paese e ogni leader di settore declina come gli pare. Ma secondo alcuni anche solo un dibattito del genere avrà conseguenze positive: sia perché risveglia l’interesse di una generazione più giovane di studiosi, funzionari e politici – nata molti anni dopo i faticosi processi iniziali del progetto di integrazione europea – sia perché può aiutare le istituzioni a ragionare con maggiore chiarezza sulle proprie priorità.
Lo sostiene per esempio il politologo Bart M.J. Szewczyk in una lunga e dettagliata analisi pubblicata di recente su Foreign Policy.
Dal punto di vista strutturale [delle istituzioni europee] la ricerca di un compromesso offusca le scelte e le analisi in competizione fra loro perché i leader e i loro collaboratori annacquano i loro punti di vista per tendere verso un comune denominatore. Che senso ha rendere più coerenti le proprie argomentazioni se alla fine verranno comunque diluite?
Tutti parlano la stessa lingua, annuiscono silenziosamente, ma ciascuno interpreta in maniera diversa quelle parole. Il linguaggio viene sterilizzato e reso vuoto. Abbondano gli slogan ma mancano strategia, scelte, priorità, obiettivi. La dinamica interna delle istituzioni condiziona anche il dibattito pubblico, che in maniera simile discute slogan e denominatori comuni.
Per Szewczyk ad aiutare l’Unione Europea a fare scelte più chiare sulla propria autonomia, paradossalmente, potrebbe essere l’amministrazione del nuovo presidente statunitense Joe Biden. Nei prossimi mesi potrebbe invitare i leader europei a decidere da che parte stare, per esempio, sull’approccio da mantenere con Russia e Cina, la ripresa economica e come combattere concretamente il cambiamento climatico.
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