Il coronavirus in Veneto, in numeri
L'unica regione del Nord Italia ad essere sempre rimasta zona gialla è anche l'unica in cui i contagi crescono, ma altri indicatori sembrano più sotto controllo
Mentre in tutte le regioni italiane, e a livello nazionale, i nuovi casi di contagio da coronavirus scoperti stanno calando, in Veneto non sta succedendo: la regione è attualmente quella con più casi positivi in rapporto alla popolazione, e l’unica in cui stanno salendo. Nella sua quotidiana conferenza stampa in cui commenta i dati, il presidente della regione Luca Zaia ha attribuito la situazione in parte al maggior numero di test – ma la regione ha la particolarità di contare sia quelli molecolari che i test rapidi, ci arriviamo – e in parte a circostanze più imprevedibili: «il Covid è anche una questione di fortuna: è iniziato nel Nord Ovest, adesso è passato nel Nord Est».
Forse sta influendo in una certa misura la brutta situazione epidemiologica nella vicina Slovenia, tra le peggiori in Europa, ma ad aver avuto un ruolo determinante sembra essere stato principalmente il fatto che il Veneto fin dall’introduzione delle misure differenziate a livello regionale, a inizio novembre, è sempre rimasto classificato come zona gialla e quindi con restrizioni più leggere. È l’unica regione nel Nord Italia insieme alla provincia di Trento, e insieme al Friuli Venezia Giulia – arancione nella seconda metà di novembre – è il posto dove l’incidenza del coronavirus sulla popolazione è rimasta più alta.
Se Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia e provincia di Bolzano da novembre a oggi hanno fatto un periodo di zona rossa – e quindi con divieti sugli spostamenti e negozi, bar e ristoranti chiusi – e se Liguria, Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia sono state arancioni, il ministero della Salute ha deciso che per Veneto e provincia di Trento fosse sufficiente la zona gialla. Il sistema con cui il ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità valutano il livello di rischio epidemiologico nelle regioni è piuttosto complicato, e considera in tutto 21 indicatori che valutano principalmente il valore Rt l’indice di trasmissione – e l’impatto sul sistema sanitario, e altri fattori come l’efficienza del tracciamento dei contatti e naturalmente la circolazione del virus.
Non è detto però che una regione con una maggiore incidenza del virus sia catalogata in un livello di rischio superiore: ne è stato un esempio famoso la Calabria, da subito zona rossa nonostante i contagi relativamente bassi. Secondo l’ultimo monitoraggio dell’ISS, il Veneto e il Molise sono le uniche regioni in cui l’Rt medio calcolato su 14 giorni è ancora superiore a 1 (1,01 per il Veneto, 1,48 per il Molise). Segue il Friuli Venezia Giulia con 0,91 e la provincia di Bolzano con 0,89. Ma secondo l’ultimo aggiornamento sugli indicatori considerati dall’ISS per determinare il livello di rischio nelle regioni, in Veneto continua a funzionare relativamente bene il contact tracing, e la situazione ospedaliera è nella media di altre regioni gialle.
Nelle scorse settimane, in diverse occasioni era stata comunque ventilata l’ipotesi di un passaggio del Veneto in zona arancione, che a un certo punto Zaia aveva definito «dietro l’angolo» («se non quella rossa»). Alla fine non è stata deciso, tra qualche critica: nei giorni scorsi, il microbiologo dell’università di Padova Andrea Crisanti si era chiesto come mai il Veneto fosse ancora zona gialla «se la Lombardia con meno casi è diventata zona rossa».
Considerando i casi di positività scoperti nei 14 giorni precedenti a una certa data si può fare una stima – molto approssimativa, ma utile per fini statistici – dei casi di positività “attivi” in un certo momento. Normalmente si stima infatti in un paio di settimane il periodo di negativizzazione di una persona, da quando scopre di essere contagiata. Il picco dei positivi totali – calcolato in questo modo, che di nuovo è un’approssimazione – è stato raggiunto dalle varie regioni nella seconda metà di novembre, e da allora c’è stata ovunque una discesa. Tranne che in Veneto, dove oggi sono più rispetto ad allora e addirittura hanno raggiunto il picco assoluto. In provincia di Trento, anche se molto meno che altrove, sono comunque diminuiti.
Rapportati alla popolazione, il picco di positivi in Veneto è comunque più basso di quello raggiunto in Lombardia e in provincia di Bolzano, ma è più alto rispetto ad altre regioni che sono state zone arancioni, come il Friuli Venezia Giulia o l’Emilia-Romagna.
Osservando i decessi rapportati alla popolazione nella seconda ondata, la situazione del Veneto appare più simile, se non migliore, rispetto a quella delle regioni confinanti. La curva è in crescita costante, mentre per esempio in Lombardia cala da un paio di settimane: ma ha un andamento non troppo dissimile dall’Emilia-Romagna, e attualmente la mortalità è sensibilmente più bassa rispetto al Friuli Venezia Giulia, e paragonabile a quella della provincia di Trento.
È vero che in Veneto la pressione ospedaliera è rimasta sempre nettamente più bassa rispetto alla maggior parte delle altre regioni del Nord, però rispetto a Lombardia, Emilia-Romagna e alla provincia di Bolzano i ricoverati nelle terapie intensive non sono diminuiti nelle ultime settimane, e anzi continuano ad aumentare, come sta succedendo in provincia di Trento e in Friuli Venezia Giulia.
Zaia ha spesso ripetuto che in Veneto c’è stata una pressione ospedaliera nettamente inferiore rispetto alle regioni vicine. Il Veneto ha un migliaio di posti letto in terapia intensiva, e la percentuale di malati Covid ricoverati sul totale dei posti disponibili è rimasta sensibilmente inferiore rispetto alla media nazionale e ad alcune altre regioni del Nord. Si è infatti mantenuta tra il 30 e il 35% nelle ultime tre settimane: in Piemonte, per dire, si è arrivati oltre il 60%. La saturazione del Veneto, comunque, è stata molto simile a quella di Friuli Venezia Giulia ed Emilia-Romagna, che sono state zone arancioni.
Mentre altrove questa percentuale è generalmente diminuita nelle ultime settimane, in Veneto è cresciuta, anche se di poco. In provincia di Trento la saturazione non solo è aumentata invece che diminuire, ma ha anche raggiunto il preoccupante livello del 60%.
A ulteriore conferma che la situazione ospedaliera in Veneto non stia migliorando, pur mantenendosi migliore di quella attuale e passata di altre regioni del Nord, c’è il dato sui nuovi ingressi quotidiani in terapia intensiva, diffuso da inizio dicembre e utile per avere un quadro dell’evoluzione della pressione sugli ospedali. Rapportati alla popolazione, in Veneto gli ingressi sono stati i più alti di tutto il Nord Italia, e hanno seguito un andamento in leggero rialzo, così come quelli nella provincia di Trento.
In questi giorni si è discusso dell’alta percentuale di tamponi positivi sul totale di quelli eseguiti in Veneto. È una questione complicata. Il problema è che la regione ha scelto di usare una strategia diversa da quella delle altre regioni sul testing: si sta affidando massicciamente ai test antigenici rapidi, più veloci ed economici dei tamponi ma con una sensibilità inferiore. Il Veneto li sta usando in combinazione con quelli molecolari, e di fatto tiene un suo conteggio sui positivi scoperti in rapporto al totale dei test fatti: il tasso di positività che risulta a Zaia, quindi, è molto più basso di quello che risulta considerando i soli tamponi molecolari, come si fa normalmente.
Nella seconda metà di novembre, per esempio, la regione ha fatto una media di 25mila test antigenici al giorno, e 16mila tamponi molecolari. È possibile che, con questa strategia, il Veneto riesca in parte a fare una prima “scrematura” sui soggetti da testare con i tamponi rapidi, riuscendo così a concentrare una parte delle operazioni dei tamponi molecolari su persone che già sospetta di essere positive. Questa potrebbe essere una parziale spiegazione al maggiore tasso di positività, che comunque è aumentato di qualche punto percentuale nelle ultime due settimane.